XIV

da prevosto a leone
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28 giugno, 2015

Vivaldi tuttora profeta in patria

 

Ieri pomeriggio la rivoluzionaria Venezia-di-centro-destra (stra-smile!) ha ospitato (seconda recita) un altro tipo di trionfo, quello della vivaldiana Juditha.

Questi spettacoli della Fenice si inquadrano, insieme a molti altri eventi culturali, nella manifestazione Lo Spirito della Musica di Venezia 2015 (15/6-26/7) che ha come sottotitolo: Venezia porta d’Oriente: dialogo fra culture. Dialogo? Accipicchia, quello che succede in questi giorni alle porte di casa nostra pare molto peggio di ciò che si viveva ai tempi della Juditha. Però una cosa è certa: non risulta che i levantini (sultani o califfi che fossero) abbiano mai prodotto (per celebrare vittorie o sconfitte contro l’occidente) opere d’arte paragonabili a questa di Vivaldi.

E così abbiamo sistemato la coscienza: perciò tanto vale cominciare dal… sodo. Ecco qua come il Prete rosso – nel recitativo accompagnato che apre con Impii, indigni Tyranni - evoca l’attimo fatidico della decollazione di Oloferne, dopo che Giuditta ha proclamato: Nel tuo nome, o Dio, tronco la testa. (Oggi va di moda sostenere che non si può ammazzare in nome di Dio… quando a farlo sono loro e non noi.) È un furioso quanto fulminante SOL minore degli archi, che precipita per due ottave piene e in cui trova posto addirittura - ed appropriatamente, date le circostanze - il Dies-Irae!


Restiamo alla musica, cominciando con… la Sinfonia! È noto che nessun brano del genere si è mai trovato (ammesso che Vivaldi ne avesse composto uno) per la Juditha, che apre invece con il bellicoso coro degli oloferniani, in RE maggiore. Ecco, Alessandro De Marchi, seguendo le orme di altri prima di lui (ma soprattutto se sue proprie !) ha deciso di aggiungere in testa all’Oratorio una specie di Sinfonia. Ora, nella produzione di Vivaldi brani di tal genere abbondano, ma hanno tipicamente una struttura in tre movimenti (Allegro-Largo-Allegro) e ciò fa subito insorgere il problema di un evidente pleonasmo fra l’ultima parte della Sinfonia e il coro iniziale dell’Oratorio, pure in Allegro. Come ha risolto la cosa il Direttore? Riproponendo ciò che già ha immortalato in disco: ha preso il Concerto RV 562 (che è pure in RE maggiore) ma escludendo l’Allegro finale, in modo da ottenere, anteponendolo all’incipit dell’Oratorio, una specie di Sinfonia. Operazione legittima? Beh, certo non vietata da alcuna Legge, ma abbastanza gratuita e di efficacia francamente discutibile, oltretutto non essendo escluso che Vivaldi avesse avuto proprio l’intenzione di aprire l’Oratorio con il Coro, rinunciando alla Sinfonia.

Per il resto, De Marchi ha diretto con l’autorevolezza che gli deriva dalla sua lunga esperienza in questo repertorio. Personalmente giudico fin troppo sostenuti i suoi tempi, che hanno finito per aggravare i problemi legati alla congenita staticità dell’opera e al suono particolare degli strumenti, legato al diapason a 415. Comunque benissimo i Professori della Fenice, con gli strumenti d’epoca (salmoè in testa) in grande evidenza.     

La protagonista Juditha è Manuela Custer, veterana del ruolo che conosce evidentemente come le proprie tasche. E non ha tradito la sua fama con un’interpretazione intensa; l’unico appunto che personalmente le muovo riguarda il volume della sua voce, che non è dei più robusti e che ne penalizza l’ottava bassa. Potente invece la voce di Teresa Iervolino, un Holofernes tanto duro guerriero come sdolcinato amante. Vagaus è impersonato da Paola Gardina, un soprano dalla voce piuttosto corposa (lei è di fatto un mezzo…) e quindi adatta al ruolo: ha interpretato in modo efficace le sue cinque arie e in particolare l’ultima, davvero indemoniata, che richiede grandissima agilità. Discreta anche la prestazione di Francesca Ascioti nel ruolo di Ozia. Però chi, per me, ha svettato su tutte è Giulia Semenzato, una più che convincente Abra, che ha anche impreziosito con acuti da soprano (la tessitura è da mezzo…) la sua prestazione. Benissimo anche il coro di Claudio Marino Moretti.
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Vengo ora alla parte più… ostica (per chi ne è responsabile) dello spettacolo: l’allestimento registico. A differenza delle cantate (che hanno sì un soggetto, ma non hanno una storia da raccontare) gli oratori, oltre che un soggetto presentano anche una storia, una trama, e ciò spiega perché possano legittimamente aspirare ad essere allestiti in forma scenica. Per dire: come si potrebbe inscenare Ein Deutsches Requiem? In nessun modo, certamente. Mentre invece il Messiah, per dire, si presta benissimo alla rappresentazione poiché racconta una storia (e che storia, mezzo Antico testamento!)  

Orbene, la Juditha ha una storia francamente così circoscritta (l’impresa personale della vedova betuliana) e un’azione così povera (come testimonia la stringatezza dei recitativi, che dovrebbero proprio servire ad alimentarla) da rappresentare il limite inferiore della possibilità di messa in scena. Va quindi ascritto a merito dell’equipe di Elena Barbalich l’aver saputo proporre uno spettacolo intelligente e coinvolgente.

Massimo Checchetto ha ideato delle scene… vuote (!) Bella fatica, direte voi… no, perché erano sì vuote (o quasi) ma per essere occupate ora dai cori, ora da elementari suppellettili (vedi il tavolone da ultima cena del second’atto) ma soprattutto dalle luci di Fabio Barettin, che riproducevano di volta in volta delle grate, degli apparati bellici, supportando atmosfere di festa o di dolore. Il piano dell’orchestra era alzato al livello sala (come in occasione di concerti) e il palco era a sua volta rialzato di nemmeno un paio di metri; due scale assai larghe e di moderata pendenza consentivano ai cantanti di scendere fino a contatto con il pubblico. I costumi di Tommaso Lagattola erano di epoca indefinita, tranne quelli del secondo atto, che parevano ispirati da quadri rinascimentali e barocchi.

Elena Barbalich ha curato i movimenti di singoli e masse con grande equilibrio e sensibilità, trovando una giusta via di mezzo fra eccessiva ieraticità (tipo Wilson, per intenderci) ed eccessi di verismo. Insomma: una regìa, la sua, degna di encomio.

E il pubblico (non proprio oceanico e smagritosi ulteriormente all’intervallo) ha comunque mostrato di apprezzare assai questa proposta: frequenti applausi a scena aperta dopo le arie principali e calorosissima accoglienza finale. Viva Venezia, viva Vivaldi!      
  

24 giugno, 2015

Dopo Brugnaro, anche Giuditta si prepara a trionfare in laguna

 

Domani la Fenice ospita la prima della vivaldiana Juditha. Trionfatrice sullo sbifido Oloferne (il capo dell’ISIS di quei tempi) impiegando precisamente la stessa sbrigativa quanto infallibile tecnica mozza-collo dei di lui simpatici nipotini di oggi. Della serie: chi di spada ferisce… o anche: chi la fa l’aspetti… o anche: se sei dalla parte dei nostri, allora sei un eroe (o eroina) altrimenti sei un criminale.

Politica? Eh sì, perché la Juditha fu in realtà un manifesto politico/propagandistico, auspicante/celebrante una prima vittoria (dopo una serie di disfatte) di Venezia (appoggiata dal Papa e dal Sacro Romano Impero) sugli Ottomani, nell’estate del 1716 a Corfù. Non a caso l’ultimo verso dell’Oratorio recita Adria vivat, et regnet in pace. E che c’entra mai Adria con la vicenda di Giuditta e Oloferne, ambientata in Palestina, alle porte di Betulia, città ebraica (dalle parti dell’odierna Jenin, nella West-Bank) assediata dagli Assiri di Nabucodonosor? Ce lo spiega lo stesso librettista Giacomo Cassetti, che aggiunse in coda al testo musicato da Vivaldi un Carmen allegoricum in cui chiarisce gli apparentamenti dei cinque ruoli (più il luogo) dell’Oratorio: Giuditta è Adria (cioè Venezia); la sua compagna Abra è la Fede cristiana; Betulia è la Chiesa e Ozia ne è il Pontefice; Oloferne è il Sultano e Vagao il suo Generale.

Quindi Giuditta rappresenta Venezia che sconfigge il nemico venuto dall’oriente e con ciò salva anche la Chiesa di Roma dalla minaccia islamica. E questo riferimento religioso ben si addice alla figura del reverendo Antonio Vivaldi, insegnante di violino, viola all’inglese e maestro di coro dell’Istituto veneziano (La Pietà) che mise a disposizione tutte le risorse (umane, prima ancora che materiali) per la rappresentazione dell’Oratorio.  

Oratorio che finì per quasi 200 anni nel dimenticatoio e venne riesumato solo 90 anni fa a Torino, dove la Biblioteca Nazionale aveva acquisito i manoscritti vivaldiani della collezione Foà. Da allora si sono susseguite diverse edizioni, la prima del 1940 (riveduta nel 1949) a cura di Vito Frazzi, poi quella benemerita (1970) di Alberto Zedda (stampata presso Ricordi). In questi ultimi anni (2008) abbiamo avuto ben due nuove edizioni che hanno come curatori dei musicologi anglosassoni, o yankee. La prima è di Ricordi ed è stata curata dal britannico Michael Talbot; l’altra è quella americana, curata principalmente da Eleanor Selfridge-Field e prodotta dalla CCARH, che è stata impiegata da Andrea Marcon in questa esecuzione ad Amsterdam con la Venice Baroque, dove la protagonista è la stessa che ascolteremo in questo allestimento veneziano. Per la verità la locandina della Fenice indica l’impiego di un’altra edizione, quella della Carus-Verlag, Stuttgart: dovrebbe quindi trattarsi di quella curata (nell’ormai lontano 1979) da Günter Graulich, fondatore della Carus, con il ruolo di Abra affidato ad un soprano a dispetto della sua estensione da mezzo (ma nel rispetto del manoscritto originale).

L’Oratorio è in lingua latina (magari un filino… artefatta) come imponevano le consuetudini di Venezia (città davvero internazionale) del tempo ed è interpretato da sole voci femminili (4 mezzosoprani – contralti per Talbot - e un soprano, o 3-2 come qui a Venezia, più il classico coro S-A-T-B, ma tutto di gentil sesso). In origine erano solo ed esclusivamente donne anche le strumentiste dell’orchestra, tutte ospiti dell’Antico Spedale della Pietà e dotate degli strumenti più diversi ed anche (per noi moderni) piuttosto strani, come i flauti dritti contralti, lo chalumeau (salmoè in venexiano) la viola d’amore e le viole da gamba (all’inglese) oltre alle tiorbe e al violone, violoncello e organo per l’accompagnamento. Ma ci sono anche un mandolino e due claren (clarinetti in SIb) oltre ad oboi, timpani, trombe e a violini e viola. Uno specialista, Alessandro De Marchi, cura la concertazione di queste recite veneziane.

L’Oratorio ha la struttura classica, dove si alternano recitativi e arie (più i cori) e dove la arie hanno invariabilmente la forma A-B-A, quindi con il da-capo. Essendo la struttura simile a quella delle opere del tempo, non è infrequente che se ne proponga (come qui a Venezia) una rappresentazione in forma scenica e non semplicemente concertante (come accadde alle recite originali alla Pietà, dove addirittura le cantanti erano poste dietro grate che le rendevano quasi invisibili al pubblico). Ecco come la regista Elena Barbalich spiega il suo approccio per la messinscena.

Come al solito informazioni e dotte analisi sulla Juditha sono già disponibili sul prezioso programma di sala del Teatro.

24 novembre, 2014

Giulio Cesare per la prima volta a Torino

 

Quando si dice la tempestività: non sono passati nemmeno tre secoli (!) dalla prima di Londra e già il Regio di Torino ha ospitato Giulio Cesare (in Egitto).

Veramente più che in Egitto è in uno scantinato di un Museo Egizio, così per lo meno lo ha ambientato Laurent Pelly in questa produzione proveniente da Parigi (2011): un modo come un altro (e ce ne sono di ben peggiori, va detto!) per far digerire a noi scafati del terzo millennio una mappazza confezionata quando si portavano le parrucche e si girava con lo spadone alla cintola. Eh già, il barocco!

Ciò che ci rende particolarmente ostico questo genere di spettacolo è una micidiale miscela fatta di soggetti più o meno improbabili (come peraltro molti nell’intero teatro musicale) e soprattutto del terreno sonoro su cui sono adagiati: i cosiddetti recitativi secchi, dove le voci e il continuo sembrano proprio volerci torturare con qualcosa che non è né musica, né parola, ma una perfida fusione del peggio di entrambe…

Dopodichè, miracolo dei miracoli, ecco che da questo arido deserto spuntano oasi, palmizi e dimore principesche, e vi sgorgano chiare, fresche e dolci acque! Sono i numeri musicali, e soprattutto le arie. Parliamoci chiaro: anche nel caso in questione ciò che ha salvato l’opera dal cimitero della storia della musica è precisamente… la musica! Che oggi a 300 anni di distanza, grazie al mago Händel, è ancora capace di affascinare e di emozionare, mentre lo spettacolo a noi rischia di risultare una pizza indigeribile e insopportabile.

Ma bisogna avvicinarsi ancora un po’ al nocciolo della questione, per rendersi conto dell’insolubilità del nodo musica-teatro che caratterizza (rispetto ai gusti nostri, sia chiaro) questo genere di opere. In esse c’è sicuramente azione e inter-azione fra personaggi (= teatro!) ma essa è purtroppo relegata quasi esclusivamente a quelle parti supportate dal recitativo secco, cioè la componente per noi indigeribile dell’opera. Invece la componente non solo digeribile ma (proprio nel caso di Händel) addirittura entusiasmante, emozionante, affascinante… ecco, questa componente è intimamente connessa con la musica vera, cioè con le arie, dove però di azione, interazione - e quindi di teatro - non v’è quasi nulla, poiché lì c’è solo il cantante (quasi sempre un solo cantante) impegnato a raccontarci con monologhi (magari di celestiale lunghezza) i suoi gravi - o presunti tali - problemi esistenziali. E lo fa appoggiandosi appunto sull’aria, fra l’altro strutturata in modo davvero dittatoriale: sezione A, magari subito ripetuta con varianti, poi sezione B, contrastante, e quindi ancora la sezione A con abbellimenti lasciati all’interprete.

Per avere un’idea del problema, prendiamo come esempio proprio il Giulio Cesare: nell’originale intonso (a Torino è stata fatta qualche sforbiciata) su 4 ore complessive nette di spettacolo, abbiamo circa 50 minuti di recitativi secchi (= teatro) e più di tre ore di arie o consimili (= monologhi). Mettiamoci ora nei panni del regista, cui compete la componente teatro dello spettacolo: per quanto detto sopra, il suo campo di azione è limitato al 25% scarso della durata complessiva, perché sul restante 75% abbondante (quello che determina però la sopravvivenza del lavoro!) lui non può praticamente nulla, poiché condizionato dalle ferree leggi di questo genere di opera. Certo, nel presentare le arie può agire sulla recitazione, sui movimenti e sulle espressioni del volto dell’interprete, ma siamo ad aspetti poco più che marginali del teatro… Perché lì tutta l’azione è irrimediabilmente ferma per definizione, totalmente sospesa, in attesa che l’interprete abbia finito di presentare il suo elaborato, rigorosamente in struttura A-B-A. E allora ecco che al regista non resta che scimmiottare teatralmente quella struttura dell’aria facendo assumere all’interprete posizioni diverse per le due sezioni A e per la B, oppure introducendo alle spalle dell’interprete dei movimenti (di cose o persone) che attutiscano l’inevitabile staticità che indissolubilmente si lega al numero musicale.

E così accade anche per questo allestimento di Pelly: che si inventa uno scenario magari intelligente (il retrobottega di un museo egizio) per attingervi mille risorse che gli servono brillantemente per fare del teatro per… 30 minuti, mentre per le restanti 3 ore si vede costretto a miseri trucchi, tipo far cantare al malcapitato interprete dell’aria di turno la sezione A al proscenio, la sezione B appollaiato su un trespolo e la ripresa della sezione A sdraiato a pancia all’aria! E/o facendo contemporaneamente muovere qualcosa o qualcuno (quasi sempre inservienti e/o reperti archeologici del museo egizio) alle spalle o davanti all’interprete, tanto per dar l’idea che lì ci sia teatro! Ma raggiungendo invece il mirabile risultato di distrarre l’attenzione dello spettatore proprio dalla parte più a-valore-aggiunto dell’opera!    

Si dirà: ma anche Mozart è ancora strutturato così. E anche molto Rossini, se è per quello… E il Fidelio che è in programma a SantAmbrogio contiene – nell’originale – una buona dose di parlato (puro) accanto al cantato.

Sì, però attenzione: rispetto a Händel (che pure i Mozart e i Beethoven idolatravano) c’è qualche piccola differenza, e non solo quantitativa (il minor peso relativo dei recitativi secchi o del parlato); perché è la struttura della parte cantata ad essere totalmente diversa: certo ci sono ancora i numeri, ma sono assai più liberamente strutturati – o de-strutturati! - e proprio in funzione di acquisire quella teatralità che prima vi era quasi assente.

Ecco perché sono personalmente convinto che un’edizione in forma di concerto, o semi-scenica come si usa dire oggi, con taglio del 90% almeno dei recitativi secchi (sostituibili facilmente con la voce di un narratore e/o con audiovisivi che in poche battute spieghino allo spettatore l’azione che non viene mostrata) renderebbe assai più giustizia a Händel e al suo Giulio Cesare. Come a cento altre opere, anche non barocche, per la verità. E anche a rischio di trasformarle in qualcosa di più vicino al recital di canto, piuttosto che insistere a proporre messinscena che fatalmente rischiano di far più danno (alla musica) che altro: certo, così i vari Pelly si dovrebbero dare all’ippica, ma l’art.18, se si abolisce, si abolisce per tutti…
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Sulla parte allestimento e in particolare sui costumi aggiungerò che Pelly (di cui ho recentemente deplorato la goliardica visione del Comte rossiniano proposta alla Scala) è stato più tradizionalista che mai, ricoprendo gli interpreti con corazze, calzari, tuniche e pepli (mancava solo qualche elmo con la cresta!) che paiono trafugati da un vecchio set di BenHur; e abbigliando le donzelle di Cleopatra con abiti e orpelli squisitamente settecenteschi, probabilmente simili a quelli della prima di domenica 20 febbraio 1724 a Haymarket. Efficace l’impiego delle luci (Joël Adam). Sulle scene di Chantal Thomas (e relative comparse di lavoranti e muletti trasportatori) ripeto che l’idea non è proprio da buttare, poiché almeno conserva la coerenza dell’ambientazione con il soggetto.
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Discrete e anche buone le notizie dal fronte sonoro: innanzitutto un bravi! agli strumentisti del Regio e dell’Academia Montis Regalis, il cui Direttore stabile, Alessandro De Marchi, ha curato da par suo la concertazione dell’opera. Tutti innalzati di un metro e mezzo rispetto alla buca normale, per condivisibili ragioni. Bene anche il Coro di Claudio Fenoglio, pur impegnato da Händel con grande parsimonia. Quanto ai contenuti della partitura, il secondo atto è stato quello più… preso di mira (magari a fin di bene): vi è stata recuperata, cosa non infrequente, l’aria di Nireno (Chi perde un momento) dalla seconda versione (1725) dell’opera e spostata alla fine la strappalacrime Se pietà di me non senti, facendo così chiudere l’atto a Cleopatra invece che a Sesto.

Sonia Prima ricopre il ruolo del titolo: devo dire che la sua prestazione non mi è parsa impeccabile, soprattutto nelle parti più virtuosistiche delle arie, mentre l’ho trovata assai più convincente nelle esternazioni più intimistiche del complesso personaggio. Buon per lei che noi non abbiamo avuto diretta esperienza del Senesino, così possiamo evitare imbarazzanti paragoni (smile!)

La giunonica (quindi, probabilmente poco cleopatresca…) Jessica Pratt fa qui il suo esordio nel barocco e se la cava discretamente (ma per emergere in questo repertorio serve probabilmente lavorarci assai più a fondo): la voce c’è e arriva tranquillamente ai super-acuti, come nella sua ultima aria, però mi pare manchi ancora di quella fluidità e agilità necessarie a questi ruoli (dove per fortuna non si deve risalire alla Cuzzoni per trovare interpreti di grande spessore).

La trionfatrice del pomeriggio è stata indubbiamente Sara Mingardo, un nome, una certezza: la sua è una Cornelia quasi perfetta, non aggiungo altro.

Maite Beaumont impersona Sesto: mi sarei aspettato da lei più… mascolinità, ecco. È vero che si tratta di un giovinetto, ma Händel gli fa tirar fuori le unghie spesso e volentieri, e ciò non è emerso al meglio.

Il Tolomeo di Jud Perry mi ha personalmente lasciato indifferente: certo il personaggio sembra fatto apposta per non piacere, però questo non significa che debba anche dispiacere il suo canto.

Come detto, per Nireno (qui Riccardo Angelo Strano) è stata riesumata l’aria del second’atto e l’interprete ce l’ha proposta con un’esagerazione di cachinni francamente degna di miglior causa.

Meglio di lui ha fatto Guido Loconsolo come Achilla: voce di bel timbro e autorevolezza appropriata al personaggio.

Senza aria (smile!) è rimasto solo il povero Antonio Abete (Curio) che ha sostenuto onestamente i suoi recitativi secchi.
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Grande successo per tutti in un teatro piacevolmente affollato: oggi Torino non batte Milano solo nell’arte pedatoria!