Quando si dice
la tempestività: non sono passati nemmeno tre secoli (!) dalla prima di Londra e già il Regio di Torino ha ospitato Giulio Cesare (in Egitto).
Veramente più
che in Egitto è in uno scantinato di un Museo
Egizio, così per lo meno lo ha ambientato Laurent Pelly in questa produzione proveniente da Parigi (2011): un
modo come un altro (e ce ne sono di ben peggiori, va detto!) per far digerire a
noi scafati del terzo millennio una mappazza confezionata quando si portavano
le parrucche e si girava con lo spadone alla cintola. Eh già, il barocco!
Ciò che ci
rende particolarmente ostico questo genere di spettacolo è una micidiale
miscela fatta di soggetti più o meno improbabili (come peraltro molti
nell’intero teatro musicale) e soprattutto del terreno sonoro su cui sono
adagiati: i cosiddetti recitativi secchi,
dove le voci e il continuo sembrano proprio volerci
torturare con qualcosa che non è né musica, né parola, ma una perfida fusione
del peggio di entrambe…
Dopodichè,
miracolo dei miracoli, ecco che da questo arido deserto spuntano oasi, palmizi
e dimore principesche, e vi sgorgano chiare, fresche e dolci acque! Sono i numeri musicali, e soprattutto le arie. Parliamoci chiaro: anche nel caso
in questione ciò che ha salvato l’opera dal cimitero della storia della musica
è precisamente… la musica! Che oggi a
300 anni di distanza, grazie al mago Händel, è ancora capace di affascinare e
di emozionare, mentre lo spettacolo a
noi rischia di risultare una pizza indigeribile e insopportabile.
Ma bisogna
avvicinarsi ancora un po’ al nocciolo della questione, per rendersi conto dell’insolubilità
del nodo musica-teatro che caratterizza (rispetto ai gusti nostri, sia chiaro)
questo genere di opere. In esse c’è sicuramente azione e inter-azione fra
personaggi (= teatro!) ma essa è
purtroppo relegata quasi esclusivamente a quelle parti supportate dal recitativo secco, cioè la componente per
noi indigeribile dell’opera. Invece la componente non solo digeribile ma
(proprio nel caso di Händel) addirittura entusiasmante, emozionante,
affascinante… ecco, questa componente è intimamente connessa con la musica vera,
cioè con le arie, dove però di
azione, interazione - e quindi di teatro
- non v’è quasi nulla, poiché lì c’è solo il cantante (quasi sempre un solo cantante) impegnato a raccontarci
con monologhi (magari di celestiale
lunghezza) i suoi gravi - o presunti tali - problemi esistenziali. E lo fa
appoggiandosi appunto sull’aria, fra
l’altro strutturata in modo davvero dittatoriale: sezione A, magari subito
ripetuta con varianti, poi sezione B, contrastante, e quindi ancora la sezione
A con abbellimenti lasciati all’interprete.
Per avere
un’idea del problema, prendiamo come esempio proprio il Giulio Cesare: nell’originale
intonso (a Torino è stata fatta qualche sforbiciata) su 4 ore complessive nette
di spettacolo, abbiamo circa 50 minuti di recitativi secchi (= teatro) e più di
tre ore di arie o consimili (= monologhi). Mettiamoci ora nei panni del regista, cui compete la componente teatro dello spettacolo: per
quanto detto sopra, il suo campo di azione è limitato al 25% scarso della
durata complessiva, perché sul restante 75% abbondante (quello che determina
però la sopravvivenza del lavoro!) lui non può praticamente nulla, poiché
condizionato dalle ferree leggi di questo genere di opera. Certo, nel
presentare le arie può agire sulla
recitazione, sui movimenti e sulle espressioni del volto dell’interprete, ma siamo
ad aspetti poco più che marginali del teatro…
Perché lì tutta l’azione è irrimediabilmente
ferma per definizione, totalmente sospesa, in attesa che l’interprete abbia
finito di presentare il suo elaborato, rigorosamente in struttura A-B-A. E
allora ecco che al regista non resta che scimmiottare teatralmente quella
struttura dell’aria facendo assumere
all’interprete posizioni diverse per le due sezioni A e per la B, oppure
introducendo alle spalle dell’interprete dei movimenti (di cose o persone) che
attutiscano l’inevitabile staticità che indissolubilmente si lega al numero musicale.
E così accade
anche per questo allestimento di Pelly: che si inventa uno scenario magari
intelligente (il retrobottega di un museo egizio) per attingervi mille risorse
che gli servono brillantemente per fare
del teatro per… 30 minuti, mentre per le restanti 3 ore si vede costretto a
miseri trucchi, tipo far cantare al malcapitato interprete dell’aria di turno la sezione A al proscenio,
la sezione B appollaiato su un trespolo e la ripresa della sezione A sdraiato a
pancia all’aria! E/o facendo contemporaneamente muovere qualcosa o qualcuno (quasi
sempre inservienti e/o reperti archeologici del museo egizio) alle spalle o
davanti all’interprete, tanto per dar l’idea che lì ci sia teatro! Ma raggiungendo invece il mirabile risultato di distrarre
l’attenzione dello spettatore proprio dalla parte più a-valore-aggiunto dell’opera!
Si dirà: ma
anche Mozart è ancora strutturato così. E anche molto Rossini, se è per quello…
E il Fidelio che è in programma a SantAmbrogio contiene – nell’originale – una
buona dose di parlato (puro) accanto
al cantato.
Sì, però
attenzione: rispetto a Händel (che pure i Mozart e i Beethoven idolatravano)
c’è qualche piccola differenza, e non solo quantitativa (il minor peso relativo
dei recitativi secchi o del parlato); perché è la struttura della parte cantata ad essere totalmente diversa:
certo ci sono ancora i numeri, ma
sono assai più liberamente strutturati – o de-strutturati! - e proprio in
funzione di acquisire quella teatralità
che prima vi era quasi assente.
Ecco perché
sono personalmente convinto che un’edizione in forma di concerto, o semi-scenica come si usa dire oggi, con
taglio del 90% almeno dei recitativi
secchi (sostituibili facilmente con la voce di un narratore e/o con
audiovisivi che in poche battute spieghino allo spettatore l’azione che non
viene mostrata) renderebbe assai più giustizia a Händel e al suo Giulio Cesare.
Come a cento altre opere, anche non barocche, per la verità. E anche a rischio
di trasformarle in qualcosa di più vicino al recital di canto, piuttosto che insistere a proporre messinscena
che fatalmente rischiano di far più danno (alla musica) che altro: certo, così i vari Pelly si dovrebbero dare
all’ippica, ma l’art.18, se si abolisce, si abolisce per tutti…
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Sulla parte
allestimento e in particolare sui costumi aggiungerò che Pelly (di cui ho
recentemente deplorato la goliardica visione del Comte rossiniano proposta alla Scala) è stato più tradizionalista
che mai, ricoprendo gli interpreti con corazze, calzari, tuniche e pepli (mancava
solo qualche elmo con la cresta!) che paiono trafugati da un vecchio set di BenHur; e abbigliando le donzelle di
Cleopatra con abiti e orpelli squisitamente settecenteschi, probabilmente simili
a quelli della prima di domenica 20
febbraio 1724 a Haymarket. Efficace
l’impiego delle luci (Joël Adam). Sulle scene di Chantal Thomas (e relative
comparse di lavoranti e muletti trasportatori) ripeto che l’idea non è proprio
da buttare, poiché almeno conserva la coerenza dell’ambientazione con il
soggetto.
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Discrete e
anche buone le notizie dal fronte sonoro: innanzitutto un bravi! agli strumentisti del Regio e dell’Academia Montis Regalis, il cui Direttore stabile, Alessandro De Marchi, ha curato da par
suo la concertazione dell’opera. Tutti innalzati
di un metro e mezzo rispetto alla buca normale, per condivisibili ragioni. Bene anche il Coro di Claudio Fenoglio, pur impegnato da Händel con grande parsimonia.
Quanto ai contenuti della partitura, il secondo atto è stato quello più… preso
di mira (magari a fin di bene): vi è stata recuperata, cosa non infrequente,
l’aria di Nireno (Chi perde un momento)
dalla seconda versione (1725) dell’opera e spostata alla fine la strappalacrime
Se pietà di me non senti, facendo
così chiudere l’atto a Cleopatra invece che a Sesto.
Sonia Prima ricopre il
ruolo del titolo: devo dire che la sua prestazione non mi è parsa impeccabile,
soprattutto nelle parti più virtuosistiche delle arie, mentre l’ho trovata
assai più convincente nelle esternazioni più intimistiche del complesso
personaggio. Buon per lei che noi non abbiamo avuto diretta esperienza del Senesino, così possiamo evitare
imbarazzanti paragoni (smile!)
La giunonica
(quindi, probabilmente poco cleopatresca…) Jessica
Pratt fa qui il suo esordio nel barocco e se la cava discretamente (ma per
emergere in questo repertorio serve probabilmente lavorarci assai più a fondo):
la voce c’è e arriva tranquillamente ai super-acuti, come nella sua ultima
aria, però mi pare manchi ancora di quella fluidità e agilità necessarie a
questi ruoli (dove per fortuna non si deve risalire alla Cuzzoni per trovare interpreti di grande spessore).
La
trionfatrice del pomeriggio è stata indubbiamente Sara Mingardo, un nome, una certezza: la sua è una Cornelia quasi
perfetta, non aggiungo altro.
Maite Beaumont impersona
Sesto: mi sarei aspettato da lei più… mascolinità, ecco. È vero che si tratta
di un giovinetto, ma Händel gli fa tirar fuori le unghie spesso e volentieri, e
ciò non è emerso al meglio.
Il Tolomeo di Jud Perry mi ha personalmente lasciato
indifferente: certo il personaggio sembra fatto apposta per non piacere, però
questo non significa che debba anche dispiacere il suo canto.
Come detto,
per Nireno (qui Riccardo Angelo Strano)
è stata riesumata l’aria del second’atto e l’interprete ce l’ha proposta con
un’esagerazione di cachinni francamente degna di miglior causa.
Meglio di lui ha
fatto Guido Loconsolo come Achilla: voce
di bel timbro e autorevolezza appropriata al personaggio.
Senza aria (smile!) è rimasto solo il povero Antonio Abete (Curio) che ha sostenuto onestamente
i suoi recitativi secchi.
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Grande successo
per tutti in un teatro piacevolmente affollato: oggi Torino non batte Milano solo
nell’arte pedatoria!
2 commenti:
Ciao Daland, mi trovi perfettamente d'accordo sulla questione recitativi secchi, hai detto quello che - probabilmente - dirò io quando m'imbatterò in qualche opera barocca.
Non m'inoltro in altre questioni perché non ho ancora sentito nulla di questa produzione. Ho grande stima, peraltro, di tutti i cantanti impegnati.
Ciao!
@Amfortas
Purtroppo o per fortuna, la struttura dell'opera barocca (che si è trascinata ben oltre il barocco, nonostante... Gluck) è veramente ostica a noi, ma ha cominciato ad esserlo 200 anni fa. E' ben vero che spesso le mode tornano, ma questa forse non merita proprio di tornare, nè di essere riproposta sotto mentite spoglie.
Come sai, anche lo Stravinski che in pieno '900 compose il Rake sul modello settecentesco limitò drasticamente il numero di recitativi secchi (quelli accompagnati ovviamente son tutt'altra... musica!)
Ciao!
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