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23 aprile, 2023

laVerdi 22-23. 27 (Rach4/4)

Il programma dell’ultima giornata del Rach-Festival era totalmente dedicato al compositore russo, presentando in pratica le ultime due opere cui Rachmaninov lavorò prima della morte (1943).

Il Concerto n.4 per pianoforte e orchestra in Sol minore op.40 era stato ideato a ruota del Rach3 (anni ’10-’15) se non ancor prima… ma poi ripreso e completato solo nel 1926; quindi revisionato una prima volta nel 1928; e infine, sottoposto ad altre sostanziose modifiche nel 1941. Fu l’ultima fatica del compositore, seguita di poco alla penultima, le Danze sinfoniche op.45 che hanno completato questa interessante rassegna offertaci da laVerdi.

Sulle intricate vicende del Concerto e sulle principali differenze fra la seconda versione del 1928 e quella definitiva del 1941 ho già pubblicato su questo blog un tormentone ora disponibile qui, quindi non mi dilungo oltre. Caso mai può essere di qualche interesse confrontare le tre versioni ascoltando la terza e ultima dal grande Benedetti Michelangeli, la seconda da William Black e la prima da colui che l’ha incisa per primo dopo la riesumazione nel 2000. Si noteranno così le differenze di durata: 25’, 29’, 31’, a dimostrazione del progressivo smagrimento cui l’Autore sottopose la partitura.

Romanovsky, che ha comprensibilmente presentato la versione 1941, evidentemente deve ancora prenderle tutte le misure, se è vero che si è portato lo spartito sul leggio, e al suo fianco anche l’aiuto gira-pagine. Ma ciò non significa che la sua interpretazione non sia stata eccellente, quanto meno lui è riuscito a renderci questa partitura meno ostica e indigeribile di quanto non rischi di essere: purtroppo, se gli ingredienti del manicaretto sono di qualità mediocre non c’è cuoco che possa cavarne un piatto da leccarsi i baffi, ahinoi.

Ma il pubblico dell’Auditorium – stracolmo anche oggi pomeriggio - lo ha comunque premiato per… l’abnegazione, riservandogli poi un trionfo in ringraziamento per questo autentico regalo che ci ha fatto in questi ultimi 10 giorni. Ci auguriamo di rivederlo (e soprattutto… risentirlo) al più presto. Oggi intanto si è congedato con due sontuosi bis: Rachmaninov e un oceanico Chopin.
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Si è chiuso con il canto del cigno di Rachmaninov, le Danze sinfoniche. Sono proprio un bigino di tutta la precedente produzione del russo trapiantato in USA. E quindi, a chi Rachmaninov piace, piacciono assai. I tre movimenti dovevano avere anche dei sottotitoli - mezzogiorno, tramonto e sera, poi non pubblicati – che peraltro non sembrano propriamente rispecchiati sul pentagramma. 

L’organico orchestrale comprende anche il sax contralto, che impreziosisce il primo dei tre movimenti, oltre al pianoforte e ad una corposa batteria di percussioni.

 

Il primo dei tre brani ha una struttura macroscopicamente tripartita, con le sezioni esterne più mosse dove si ode il tema principale della danza, nervoso e insistito:

La sezione centrale è invece di carattere intimistico e vi spiccano gli interventi della morbida voce del sax contralto:


 

Il secondo brano è praticamente un Walzer, piuttosto tetro e spettrale, sul tipo, per intenderci, dello Scherzo (Schattenhaft) della Settima mahleriana. Il motivo principale è esposto nella prima parte del brano da corno inglese e oboe:


Una seconda sezione è più languida nel ritmo, ma sempre cupa, poi riprende fino alla fine questa specie di danza macabra.


Il terzo e conclusivo brano si apre, dopo un’introduzione lenta, con un Allegro vivace che presenta una danza nervosa e sincopata, che passa da una sezione all’altra dell’orchestra. Segue una transizione lenta e misteriosa, con sonorità cupe del clarinetto basso, con la musica che poi progressivamente si acqueta. Riprende infine l’Allegro vivace dove, dopo l’introduzione dell’oboe e alcune fanfare delle trombe, udiamo distintamente il Dies Irae (una vera fissazione di Rachmaninov) che introduce il caotico finale.

  

Che dire? Che il povero (si fa per dire… certo non dal punto di vista economico, ma purtroppo da quello estetico) Rachmaninov abbia cercato – in extremis, per darsi una patina di modernitä - di scimmiottare gli stilemi (da lui prima sempre vituperati) di uno Stravinsky o di un Prokofiev? O che ormai sentisse, magari nel subconscio, l’avvicinarsi del traguardo riservato a tutti noi? Come interpretare sennò il trito (per lui) riferimento al Dies-Irae che la fa da padrone alla fine dell’ultimo brano? 

    

Insomma, quest’ultimo lavoro, insieme al drastico maquillage operato al 4° concerto, sembra forse testimoniare di una tremenda presa di coscienza di una vita… sprecata? Beh, in quegli stessi anni, o poco dopo, tale Richard Strauss, pur distrutto dalla caduta di tutti i suoi ideali e mortificato dal processo di denazificazione, ci lasciava cosucce tardoromantiche quali Metamorphosen e Vier letzte Lieder… non so se mi spiego!


Ma queste note poco elogiative per il compositore non vanno ovviamente estese agli interpreti, che ancora una volta si sono superati per compattezza, precisione, affiatamento e per qualità di suono.  

21 aprile, 2023

laVerdi 22-23. 26 (Rach3/4)

Il programma della terza giornata del Rach-Festival (praticamente sold-out!) accosta al Concerto del compositore russo uno dei lavori più noti ed eseguiti di Edward Elgar, le Enigma Variations op.36, del 1898-99.

In esso il musicista albionico si divertì a ritrarre musicalmente gli amici, personaggi più o meno noti della buona società britannica, ed anche sé medesimo (!) attraverso una serie di 14 variazioni su un tema, che sarebbero ulteriormente legate ad un più ampio tema, che le percorre tutte: e quest'ultimo tema costituirebbe l'enigma cui fa riferimento il titolo. Da più di un secolo c'è chi si è scervellato per trovare la soluzione: God save the Queen (oh sorry, H.M. Charles III) the KingAuld Lang Syne (il nostro Valzer delle candele) furono proposte all'autore, che negò fossero la risposta giusta e così lui si portò il segreto nella tomba.

Ma il concorso è continuato negli anni: nel 1976 un musicologo olandese, Theo van Houten, decriptò una frase che Elgar aveva scritto per il programma di sala della prima esecuzione: So the principal theme never appears. Dato che il compositore amava i giochi di parole, la frase si può leggere anche così: So the principal theme - never - appears, quindi il tema in questione potrebbe aver qualcosa a che fare con il termine never. E guarda caso, il più antico canto patriottico albionico, Rule Britannia, contiene la parola never musicata da Thomas Arne precisamente con le prime note riprese da Elgar per il suo tema:

Altri indizi – e pure complicatissime elucubrazioni - portano a soluzioni diverse, peccato che Elgar non possa più confermare o smentire. 

Di sicuro la più famosa delle variazioni, spesso eseguita singolarmente, come bis nei concerti, è la n°9, intitolata Nimrod, un grande Adagio in MIb maggiore, dove il tema viene esposto con molta nobiltà, in un continuo crescendo dall'iniziale ppp al ff della finale perorazione, chiusa poi di nuovo in pp. È un grande momento che supera esteticamente lo stesso finale, piuttosto enfatico e scontato.

Variazione controversa per quanto riguarda l’agogica, che l’Autore prescrive con indicazione metronomica di 52 semiminime al minuto. Essendo in tutto costituita da 43 misure in 3/4 (=129 semiminime) e in assenza di variazioni (salvo il ritenuto sulle ultime 4 misure) se ne deduce matematicamente che la sua durata dovrebbe essere (espressa in decimali) di 129:52= 2,48 minuti, cioè circa 2’30”. Orbene, se ascoltiamo questa registrazione del 1926, con l’Autore sul podio, riscontriamo che il brano dura da 12’02” a 14’49”, cioè 2’47”, appena di poco più lento rispetto al metronomo. Ma se ascoltiamo tutte le principali esecuzioni (youtube ne è affollato) scopriamo che nessuna sta sotto i 3’, ma di norma ci si avvicina o si superano i 4’. Il record lo detiene Lenny Bernstein che fa suonare la BBC Symphony (con la quale per la verità aveva un po’ di ruggine…) addirittura a 5’15”, ben più del doppio più lento rispetto al metronomo di Elgar! (NB: Flor l’ha suonata attorno ai 4’, seguendo quindi il solco di quella che ormai è diventata tradizione interpretativa, con la quale personalmente tendo a discordare.)

Infine, c’entra qualcosa quest’opera con Rachmaninov? Mah, dal punto di vista degli anni della composizione, e se è vero che Elgar – come il russo – era tentato a quel tempo di abbandonare la musica… allora starebbe meglio a fianco del Rach2… oppure c’è qualche enigma nascosto (magari all’insaputa di Rachmaninov) anche nel Rach3? 

Beh, comunque sia è sempre un piacere ascoltarla, se poi chi la suona è un’Orchestra di prim’ordine!
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Eccoci quindi al famigerato Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra in Re minore op. 30, nel quale possiamo vedere qui impegnato il nostro beniamino Alexander allorquando (2001) si rivelò come stella nascente nel pianismo internazionale. Come ho suggerito in questo precedente scritto, le difficoltà del concerto sono più che altro di natura per così dire… atletica (dato il quasi continuo impegno del solista, cui sono riservate pochissime pause di respiro) che non tecnica.

Una delle tante curiosità che suscita l’ascolto del Concerto riguarda la cadenza del movimento iniziale, invero massacrante, di cui Rachmaninov ha lasciato (scritte in partitura) due diverse versioni, che riguardano peraltro solo la prima parte della cadenza: la principale è forse più virtuosistica, mentre l’altra (indicata come ossia) è più lunga, massiccia e severa.

Ebbene, Romanovsky, nella citata esecuzione del 2001 al premio Busoni, eseguì la cadenza principale (si ascolti la parte specifica fra 10’32” e 11’25” del video). Più recentemente (2019) a Seul Romanovsky ha invece eseguito la seconda (da 10’22” a 12’04” in questo video). Che ha scelto anche ieri sera.

Inutile dire della sua interpretazione, invero strepitosa, coadiuvata da un’orchestra che lo ha supportato nel migliore dei modi. L’oceanico pubblico dell’Auditorium (davvero, nonostante il nubifragio che ha flagellato Milano) è andato letteralmente in visibilio, tributandogli una lunghissima standing ovation, che lui ha ricambiato con due bis: una versione pianistica (in DO# minore) di Vocalise e il Momento Musicale n°4.

16 aprile, 2023

laVerdi 22-23. 25 (Rach2/4)

Il programma della seconda giornata del Rach-Festival fa precedere il Secondo Concerto dalla versione orchestrale degli Études-Tableaux, predisposta da Ottorino Respighi nel 1929 in risposta ad un’iniziativa del vulcanico Koussevitsky che aveva chiesto a Rachmaninov di orchestrare per la BSO alcuni dei brani delle due opere pianistiche (la 33 del 1911 e la 39 del 1916).

Ne è uscita questa raccolta di 5 Studi, così selezionati da Rachmaninov e messi da Respighi in sequenza concordata con l’Autore:

La mer et les mouettes (Il mare ed i gabbiani) – (Op.39, n°2)

La foire (La fiera) – (Op.33, n°6)

Marche funèbre (Marcia funebre) – (Op.39, n°7)

La chaperon rouge et le loup (Cappuccetto Rosso e il lupo) – (Op.39, n°6)

Marche (Marcia) – (Op.39, n°9)

Mah, forse qui c’è troppo Respighi… sono convinto che altro effetto avrebbe fatto l’esecuzione di Romanovsky al pianoforte!
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Ecco quindi il di gran lunga più famoso ed eseguito Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra in Do minore op. 18.

Opera nata proprio all’inizio del XX secolo (1900) a valle di una stagione davvero penosa per Rachmaninov, dalla quale uscì proprio sfornando questo lavoro che gli darà, oltre a grande notorietà, anche il carburante per tutta la sua successiva attività di compositore e soprattutto di concertista.

Concerto che da sempre ha sollevato discussioni fra i critici (meno nel pubblico, di norma entusiasta, va detto) dove si distinguono i giudizi lusinghieri sull’ispirazione e la vena melodica, e quelli invece negativi, se non stroncanti, che ci vedono null’altro che un comodo riflusso di Rachmaninov verso canoni estetici superati e contenuti di fin troppo facile presa sull’ascoltatore. Ho personalmente inquadrato l’origine e le principali caratteristiche del Concerto in uno scritto consultabile qui.     

Romanovsky lo ha già eseguito numerose volte (qui lo vediamo a Seul 9 anni orsono) e anche oggi ha sciorinato tutte le sue straordinarie qualità tecniche ed interpretative. Questa partitura comporta facili rischi di scivolate sul miele o sulla marmellata, ma il nostro ha saputo dosare alla perfezione gli ingredienti del manicaretto; forse (ma non è colpa sua) in alcune parti del primo movimento Flor non ha bene dosato le dinamiche, finendo per coprire il suono del pianoforte. Straordinario invece l’Adagio, dove Romanovsky è stato davvero ispirato. Travolgente poi il finale.

Pubblico (Auditorium praticamente preso d’assalto, oggi pomeriggio) in delirio e chiamate a ripetizione, ricambiate da due bis (il primo sempre Rachmaninov).

Giovedi prossimo il Rach3

14 aprile, 2023

laVerdi 22-23. 24 (Rach1/4)

Claus Peter Flor (oggi Direttore Emerito dell’Orchestra Sinfonica di Milano) e Alexander Romanovsky (39enne ukraino trapiantato a Bologna…) hanno ieri dato il via al Rach-Festival, che propone (fino a domenica 23/4) l’integrale dei 4 Concerti pianistici di Sergei Rachmaninov (più altre sue e non sue composizioni).

Il programma della prima giornata è aperto da due lavori di autori francesi contemporanei di Rachmaninov, lavori che hanno in comune il fatto di essere nati per il pianoforte a 4 mani e di essere poi stati trascritti per l’orchestra. Meno stretti sono i loro legami con il Concerto di Rachmaninov: la cui versione originale è di poco posteriore al lavoro di Debussy, mentre quello di Ravel è coevo addirittura del Rach3. Ma anche la versione definitiva del Rach1 non parrebbe influenzata dalle opere dei due compositori francesi.  

Ascoltiamo quindi per prima la Petite Suite in 4 movimenti che Claude Debussy compose nel 1889 per pianoforte a 4 mani, ispirandosi (per i primi due brani) a poesie di Paul Verlaine. Solo 8 anni più tardi sarà un allievo di Ernest Guiraud (quello che aveva… bistrattato la Carmen) di nome Henri Büsser a trascrivere la Suite per grande orchestra.

Seguono poi i Cinq pièces enfantines, che recano il titolo Ma mère l'oye (raccolta di poesie di Charles Perrault che ispirano i due primi pezzi) e che Maurice Ravel compose nel 1909 per pianoforte a 4 mani e orchestrò nel 1910, per poi ampliare a balletto nel 1912.
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Questo antipasto è servito più che altro a mettere in evidenza la distanza fra le avanguardie francesi e la… retroguardia russa rappresentata da Rachmaninov e dal suo Concerto n.1 per pianoforte e orchestra in Fa diesis minore op.1.

Di cui si è eseguita (come ormai quasi sempre accade) la versione definitiva approntata dall’Autore nel 1917, ben 26 anni dopo la stesura originale del 1891. Una mia breve storia ed esegesi della composizione, inclusi alcuni riferimenti alle novità introdotte dalla versione definitiva, è consultabile a questo link.  

Romanovsky la affronta con gran cipiglio, martellando sulla tastiera le poderose terzine in ottava a due mani che coprono le battute 3-8 del Vivace di apertura. Poi mette tutta la sua sensibilità nel presentare i due temi (espressivo e cantabile) che innervano l’esposizione. Ispirata la lunga cadenza che porta alla chiusura.

Lo spirito romantico del concerto viene mirabilmente interpretato da Romanovsky nell’Andante, condotto con nobile semplicità… a dispetto del relativo appesantimento apportato da Rachmaninov in questa versione agli interventi dell’orchestra.

Anche l’Allegro vivace conclusivo, come rimaneggiato nel 1917, acquista una brillantezza piuttosto… gratuita, ecco. Romanovsky fa del suo meglio perché la voce del pianoforte non venga troppo oscurata dai rumorosi interventi dell’orchestra.

Alla fine grande apprezzamento per lui (e per tutti, ovviamente) ricambiato da ben due bis: il primo e più famoso Preludio di Rachmaninov (in DO# minore, op.3 n°2, che si riverbera anche nel Concerto appena ascoltato) e poi il 12° Studio dell’op.8 di Scriabin, nella bizzarra tonalità di RE# minore! 

Domenica il Rach2. 

02 luglio, 2020

Romanovsky apre la BeethovenSummer


Alexander Romanovsky ha dato il via ieri sera a questa stagione estiva del tutto particolare per laVerdi. Auditorium di Largo Mahler sottoposto a smagrimento per ottemperare alle normative anti-Covid19: file di platea addirittura rimosse e rispettoso distanziamento fra gli spettatori; un ambiente davvero insolito, che di primo acchito ti dà l’impressione piuttosto sgradevole di un luogo semideserto...

Ma ecco che, banditi i discorsi di circostanza (che la Presidente Redaelli e il DG Jais hanno affidato alle pagine del programma di sala) la serata ha vissuto subito il suo momento più emozionante, all’ingresso sul palco dei 36 ragazzi dell’Orchestra: quando, dai rari-nantes sparsi qua e là è partito un applauso interminabile, direi proprio accorato, come a testimoniare un senso di liberazione, dopo l’altrettanto interminabile (4 mesi!) attesa di potersi nuovamente incontrare, attesa che ormai sembrava doversi prolungare all’infinito.

La prima giornata della serie - si replica questa sera a Milano e poi domani a Lecco - poggia interamente sul monumentale Quinto Concerto. Che oggi ascoltiamo come probabilmente lo ascoltavano i viennesi più di due secoli fa, quanto meno dal punto di vista dell’organico strumentale, ridotto a dimensioni... settecentesche.

Suonando con le spalle rivolte al pubblico (pianoforte disposto ortogonalmente rispetto al proscenio) l’ormai italiano Romanovski (36 anni fra poche settimane, ben più della metà trascorsi qui da noi...) ha sciorinato la sua grande tecnica, ma ha anche dato a questo Beethoven eroico una vena quasi... russa. E non per nulla, dopo aver ringraziato laVerdi ricordando che la cultura, e la musica, non sono un privilegio, ma un bisogno per ciascuno di noi, ha onorato l’Orchestra dirigendola nel Vocalise di Rachmaninov. Infine si è congedato con il suo amato Scriabin.


12 settembre, 2019

MITO-2019 - Chung-Romanovsky agli Arcimboldi


Ieri sera il vasto anfiteatro degli Arcimboldi - riempito più di un uovo! - ha ospitato la Filarmonica scaligera per un concerto tutto russo. Sul podio il redivivo orientale-estremo Myung-Whun Chung e alla tastiera l’orientale-semplice (ma svezzato qui da noi, nel bolognese) Alexander Romanovsky.

É curioso ricordare il diverso atteggiamento tenuto (ai suoi tempi) verso i due brani in programma da tale Gustav Mahler. Il quale, nel 1911 a New York, si adoperò allo spasimo per ribadire il successo al nuovissimo Terzo concerto di Rachmaninov con la NY Philharmonic, un paio di mesi dopo la prima eseguita dalla NY Symphony con Damrosch sul podio. Lo stesso Autore (e interprete) rimase stupefatto dal rigore e dal perfezionismo di Mahler, che non esitò a strapazzare gli orchestrali, costringendoli ad un super-lavoro nelle prove per raggiungere l’eccellenza nell’esecuzione.

Ecco invece come lo stesso Mahler, nell’estate di 10 anni avanti, a Vienna, aveva descritto a Guido Adler la Patetica ciajkovskiana:

Si tratta di un lavoro superficiale e senza profondità. Anche il colore dovrebbe darci qualcosa di più di se stesso, altrimenti rimane un mero ornamento e polvere negli occhi! Osservandolo da vicino, non ne resta poi gran cosa. Questi arpeggi, che vanno dal grave all’acuto, queste concatenazioni armoniche insignificanti non possono dissimulare il vuoto e l’assenza di invenzione.

Apperò!
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Dopo il consueto pistolotto (in senso non salviniano!) della maestrina Gaia Varon, che è incorsa in un tipico lapsus da lateral-thinking (attribuendo l’idea di appiccicare alla Sesta il titolo di Patetica a Modest... ehm, Musorgski) il 35enne ukraino si è quindi cimentato con il famigerato Rach3, da lui caricato di tutto il possibile tardo-decadente-romanticismo, che da sempre suscita nel pubblico e nei critici ampie divisioni, fra ammiratori estasiati e detrattori nauseati. Ma il ragazzo (non sembra cambiato molto dal lontano 2001 quando si impose al Premio Busoni) ha una tal carica espressiva, coniugata con una innata modestia (temprata dagli anni duri che lui e famiglia passarono dopo l’emigrazione) da garantirsi un successo clamoroso e ripetute chiamate, alle quali risponde dapprima con un altro Rachmaninov e poi con un Bach... adulterato!      
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Chiusura quindi in grande con la Patetica, dove Chung ha avuto modo di smentire ampiamente il velenoso giudizio di Mahler, mettendo in risalto di questa ormai inflazionata partitura il carattere di sguardo-all’indietro (come sarà, ma guarda un po’ la nemesi, la Nona mahleriana) a ripercorrere una vita artistica accidentata e costellata di grandezze - lo spontaneo applauso arrivato alla fine dell’Allegro molto vivace ne è stato testimone - e di miserie, destinata inesorabilmente a chiudersi nel silenzio, dopo le ultime battute della triade di SI minore esalate dagli archi bassi, sull’indicazione Molto ritenuto (e non... Morendo, come la simpatica Gaia ha inventato, anche qui parlando di Mahler!)   

Pubblico entusiasta e prodigo di battimani e ovazioni per Direttore e Professori.

08 maggio, 2012

Rachmaninov per giovani con la Filarmonica della Scala


Una vera Indigestione di Rachmaninov (in prima e per interposta persona…) nel concerto di ieri sera della Filarmonica della Scala. E con tre giovani (o giovanissimi) protagonisti: il ragazzino Andrea Battistoni (25 anni) il suo quasi coetaneo Alexander Romanovsky (28) e il loro fratello maggiore Matteo Franceschini (33).

Del quale ultimo (cui l’opera è stata commissionata dall’Orchestra) si inizia con una prima assoluta: Ja sam.

Dato che l’Autore afferma di voler impiegare il coro di voci bianche come fosse uno strumento dell’orchestra, ecco che ad esso viene riservato uno spazio sulla destra del palco (per chi guarda) spostando per l’occasione i contrabbassi a sinistra.

Cosa c’entra qui Rachmaninov? C’entra come ispiratore del brano (una cosa corposa, quasi mezz’ora, come un poema sinfonico di Strauss, per dire…) con la sua Prima Sonata per pianoforte in RE minore (in particolare l’iniziale Allegro moderato). Che Franceschini prende a modello rispettandone la struttura di forma-sonata fino nei dettagli quantitativi (357 battute e relativa suddivisione in esposizione-sviluppo-ripresa).

Non ci si aspetti però di trovare nella sua composizione delle citazioni letterali e nemmeno vaghe (almeno io al primo ascolto non le ho percepite…) Come ammette l’Autore stesso (nelle note pubblicate sul programma di sala) la Sonata del russo è stata essenzialmente di stimolo per la sua creatività.

Successo – come si dice in queste circostanze – di stima, con ripetute chiamate per Autore e Interprete. Meritatissimi gli applausi per le ragazzine del coro e il loro Maestro Casoni.

Poi arriva Alexander Romanovsky, immigrato ucraino e oggi cittadino italiano (cosa che immagino infastidirà i residui leghisti, smile!) per proporci le Variazioni su un tema di Paganini dello sdolcinato Sergei.

Il quale – imitatore e scimmiottature di natura (Ciajkovski ne sa qualcosa) – compì un’operazione analoga a quella già inventata da Liszt con la campanella e da Brahms con il medesimo tema sull’ultimo dei 24 capricci del genovese: comporvi un pezzo velleitario, una specie di concerto in 24 variazioni. Nel quale immancabilmente infila, indovinate un po’… anche il Dies Irae (un’autentica fissazione la sua!)

Romanovsky mostra qui tutta la sua grande tecnica e propone – alle mie orecchie perlomeno – una specie di coca-cola-light del brano, togliendogli parecchio dello zucchero. Assecondato da Battistoni, che ad esempio non calca per nulla la mano nel celebre quanto volgare Andante cantabile (n°18) in REb maggiore.

Gran successo per Romanovsky, che si cimenta anche in un paio di bis.

Ha chiuso la pesante razione di Rachmaninov la Seconda Sinfonia, che a Milano si è potuta ascoltare con una certa (direi preoccupante, smile!) frequenza negli ultimi tempi: dalla stessa Filarmonica con Pappano, poi da laVerdi con Xian, indi ancora da Noseda all’Arcimboldi con l’Orchestra del Regio di Torino.

A me è parsa un’esecuzione più che accettabile, con un’orchestra in buona forma e un Direttore che sarà pure giovane e magari, come si dice in gergo, se la tira un po’ troppo (mai un sorriso, accipicchia, e atteggiamenti iper-formali) però non sembra proprio un tipo catapultato da qualcuno sul podio, e che cerca di seguire col gesto un’orchestra che tanto suona per i fatti suoi…

Al contrario, a me dà l’impressione di uno che conosce bene il suo mestiere (poi bisognerebbe chiedere ai professori se lo trovano una guida carismatica o soltanto un montato). Certe stroncature lette dopo le sue Nozze a me sembrano il classico contrappasso fatto pesare su un incolpevole per controbilanciare peana sconsiderati rivolti in precedenza ad altri giovani più o meno meritevoli (e/o raccomandati) di lui.