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07 novembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#10

L’Orchestra ospite per questa puntata del Festival era la Haydn di Bolzano&Trento, guidata dal suo Direttore Principale, Ottavio Dantone.

Ecco quindi, proseguendo il mahleriano pellegrinaggio in rigorosa sequenza, la Settima. Sicuramente la Sinfonia meno eseguita (e quindi meno conosciuta e amata dal pubblico) forse per colpa del sistema mediatico di divulgazione, che deve sempre trovare qualunque stereotipo – extramusicale, si badi bene! - atto a colpire l’immaginazione dell'ascoltatore.

Così, ad esempio: Mahler, il titano che trionfa nella Prima e poi viene sepolto e risorge nella Seconda, quindi viene bastonato (anzi… martellato) nella Sesta; o il Mahler sdolcinato e fischiettabile della Quarta; oppure quello ipertrofico e sesquipedale della Terza e dell’Ottava; o quello supposto decadente (Adagietto della Quinta) che viene impropriamente strumentalizzato da Visconti; o quello disperato che sente il suo cuore perder colpi e tirare gli ultimi (Lied von der Erde e Nona…)   

Insomma, per la Settima il marketing non trova un posto adeguato in tale agiografia, e così l’opera finisce direttamente – quanto immeritatamente - nel dimenticatoio… (E allora mi permetterò di proporne una mia velleitaria analisi, con citazione illustre...)      

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Devo dire che l’esecuzione della Haydn mi ha convinto a metà: Dantone (che ha diretto a mani nude, come Angius la Sesta) ha mostrato di padroneggiare assai bene questa sbifida partitura (in fondo è un Mahler che si picca di rivaleggiare con… Bach, che il Direttore conosce come le sue tasche). L’orchestra invece ha avuto qualche défaillance, in specie negli ottoni: anche il Tenor-Horn ha sbucciato proprio l’entrata… un vero peccato, poiché in seguito si è riscattato alla grande. E poi l’amalgama tra le sezioni non sempre mi è parso ottimale. 

Ma, come accaduto per le altre Orchestre ospiti, anche la Haydn è stata accolta dal folto pubblico dell’Auditorium con vivaci manifestazioni di consenso. Il che, per Orchestra e Direttore, rappresenta comunque un buon viatico per le due riprese… a casa loro, di giovedi e venerdi.

08 settembre, 2022

Matrimoni alla Scala

Off-topic: tanto per semplificare la vita al pubblico pagante, il Teatro – a partire da questo settembre – si serve di due diversi provider per la vendita (online ma non solo) dei titoli di ingresso:

- Ticket1 per i biglietti (di opera, balletto e concerti);

- Vivaticket per tutti gli abbonamenti.

La piattaforma Vivaticket ritorna quindi (per ora in… concubinaggio) come fornitore del Teatro dopo esserne stata allontanata alcuni anni fa, quando fu sostituita (dopo travagliato passaggio con ripetute false partenze e rinvii) appunto da quella di Ticket1.

Ovviamente le due piattaforme non si parlano e quindi i dati anagrafici (password incluse) vanno aggiornati separatamente a cura dell’utente.

Si stenta a credere che tale Jeff Bezos non abbia ancora messo gli occhi su questo lucroso business, offrendo biglietti e abbonamenti corredati (sinergie sponsorie) da ricche parure per le ladies e preziosi orologi per i gentlemen accompagnatori.
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Dopo soli (!) 42 anni il Teatro ripropone l’opera più famosa di Domenico Cimarosa, Il matrimonio segreto. La prima recita è stata sottratta (senza diritto a sconti, hahaha) agli abbonati delle… prime dall’anticipo al 5 settembre della recita Under30 (programmata in origine come ultima, il 22/9): un po’ come si fa a SantAmbrogio, ecco…

La penultima (a questo punto) recita del dramma giocoso risaliva a venerdi 6 giugno 1980, con la regìa di Lamberto Puggelli e la bacchetta di Bruno Campanella. Dal ‘49 al ’63 la regìa era stata del grande Giorgio Strehler. A partire dal 1955, l’opera era stata ospitata dall’allora nuovissima (e ahinoi defunta nel 1983 e mai abbastanza rimpianta) Piccola Scala.

Il Teatro affida questa ripresa al Progetto Accademia, dando così modo a giovani cantanti e strumentisti di rompere il ghiaccio con il vasto pubblico. L’unico fuori-quota (per le due prime recite) è il veterano Pietro Spagnoli, nei panni del presuntuoso (e pure sordo) padrone di casa. Sul podio (e al continuo) va il collaudato Ottavio Dantone, mentre la regìa è affidata alla parigina - figlia d'arte - Irina Brook.

Pubblico non oceanico, ma abbastanza ben disposto ad apprezzare i futuri talenti sfornati dall’Accademia: tutti i numeri dell’opera (16, esclusi i finali) e la sinfonia hanno ricevuto applausi di consenso, che alla fine si sono ulteriormente irrobustiti.

Personalmente associo tutti i cantanti in un unico giudizio positivo e… incoraggiante, segnalando un mia predilezione per la Carolina di Aleksandrina Mihaylova e il Conte di Jorge Martinez.

Dantone ha guidato da par suo (anche dalla tastiera, affiancata da quella di Eric Foster) i cantanti sul palco e – in buca - l’accademica Orchestra che si è distinta per il suono trasparente e di colore davvero settecentesco, con stilemi e contenuti che richiamano scopertamente Mozart (più che Gluck…) e anticipano il primo Rossini (che emetteva i primi vagiti precisamente 22 giorni dopo il trionfo viennese del Matrimonio…)
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Spettacolo di alto, se non altissimo, gradimento. La Brook (che inspiegabilmente non è uscita - nonostante Spagnoli si sbracciasse a chiamarla - a raccogliere quelli che sarebbero stati meritatissimi applausi) ha proposto un’ambientazione moderna (smartphone e tablet, per dire, con una moderata razione di Kitsch) grazie a scene spartane e costumi appariscenti di Patrick Kimmonth, ben illuminati da Marco Filibeck.  

Qualche… ehm, caduta di stile in un paio di scene osè (per educande) le può essere perdonata. Così come la dubbia efficacia della presentazione - durante l’esecuzione della Sinfonia - di antefatti (vedi il rapporto Paolino-Carolina) o… postfatti (Conte-Elisetta).  

Insomma, a conti fatti mi pare una proposta più che dignitosa per ripartire dopo le ferie: ci aspettano ora una Fedora (dopo 18 anni…) e uno Shakespeare rivisitato in chiave moderna. Poi sarà ancora SantAmbrogio, con Musorgski (CoPaSiR permettendo…)

08 aprile, 2019

Xerxes a Modena


Al Pavarotti di Modena è andata in scena ieri la seconda recita del Serse di Händel, già collaudato a ReggioE. la scorsa settimana e in procinto di approdare a Piacenza la prossima e a Ravenna in futuro.

Queste 15 battute, che introducono l’arioso di Serse (Ombra mai fu...) sono con tutta probabilità - insieme alle 38 batture che seguono (appunto l’arioso) - fra le più conosciute di tutta la storia della musica. Ma la loro notorietà è pari soltanto alla totale ignoranza che il vasto pubblico ha dell’Opera in quanto tale, finita per due secoli nel dimenticatoio, dopo le rappresentazioni del 1738, ed ancor oggi di rara riproposizione.

Per di più, questo famoso ed orecchiabile brano viene suonato e cantato proprio all’inizio dell’Opera, col che fa l’effetto (scusate se scendo ai bassi livelli) di un’eiaculatio-precox (in latino suona meno volgare) dopo la quale seguono due ore e mezza di... noia.

No, effettivamente stavo un filino esagerando, e devo dire che i quasi 50 numeri che seguono (salvo tagli di prammatica) non sono certo da buttare alle ortiche: si tratta pur sempre di Händel, in fin dei conti! 

Il soggetto, tratto dal compositore da fonti non meglio precisate, anche se ipotizzabili, stanti alcuni precedenti lavori di compositori italiani del ‘6-‘700, è un risottone che non saprei se definire più ridicolo o deprimente. A leggere il titolo si sarebbe indotti a pensare ad un grande affresco storico, corredato da imprese guerresche, relazioni fra sovrani, atti di patriottismo (o di tradimento) e scenari consimili. E invece no, la trama tratta esclusivamente di complicati e contorti rapporti sentimentali fra due fratelli (Serse e Arsamene) e due sorelle (Romilda e Atalanta, figlie del comandante Ariodate) più una quinta incomoda (Amastre)... L’unico accenno a problematiche pubbliche riguarda un fantomatico ponte eretto a collegare Asia ed Europa, che però crolla miseramente sotto una tempesta (pare il Morandi, accidenti ai Benetton!) 

Lo schemino che segue sintetizza - semplificando al massimo - le relazioni sentimentali in essere; la tabella va letta entrando a sinistra sul personaggio e salendo in alto al personaggio relazionato: 


Serse
Arsamene
Romilda
Amastre
Atalanta
Serse


concupisce
promesso a

Arsamene


ama

concupito da
Romilda
concupita da
ama



Amastre
promessa a




Atalanta

concupisce




Le due coppie di celle colorate rappresentano la stabilizzazione finale dei rapporti interpersonali: come si nota, in questa particolare versione del gioco dei quattro-cantoni, è la povera Atalanta a restarci in mezzo, mentre quelle che si formano alla fine (Serse-Amastre e Arsamene-Romilda) sono le due coppie già di fatto destinate ad unirsi fin dall’inizio. In mezzo, la trama dell’opera presenta le azioni destabilizzanti di Serse e Atalanta e le mille peripezie - intrighi, falsi ideologici, calunnie, tentati suicidi e molte altre nefandezze, con qualche rara buona azione - che portano alla normalizzante conclusione. 
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La struttura musicale completa comprende complessivamente 51 numeri (più l’Ouverture e due Sinfonie) così distribuiti nei tre atti ai sette personaggi e al coro:


aria
arietta
arioso
duetto
recitativo
coro
tot
tot
Serse
2-2-2
1-0-0
1-1-0
0-2-0
1-0-0

5-5-2
12
Romilda
1-3-1
2-0-0
1-0-0
0-1-1
0-1-0

4-5-2
11
Arsamene
2-2-1

0-1-0
0-0-1


2-3-2
7
Atalanta
2-3-0
0-0-1
0-1-0



2-4-1
7
Amastre
1-2-0
0-0-1
1-1-0
0-1-0


2-4-1
7
Elviro

1-2-0
0-1-0



1-3-0
4
Ariodate  
1-0-1





1-0-1
2
Coro





1-1-2
1-1-2
4
tot
9-12-5
4-2-2
3-5-0
0-2-1
1-1-0
1-1-2
18-23-10
51
tot
26
8
8
3
2
4
51


La colonna dal titolo recitativo riporta soltanto il numero di recitativi accompagnati. Ma l’opera include anche una gran massa di recitativi secchi: 14, 15 e 8 rispettivamente, nei tre atti.

Dalla tabella si deduce come Serse e Romilda siano i personaggi più ricchi complessivamente di numeri, mentre le singole arie sono più equamente distribuite anche ad Arsamene ed Atalanta (5, come Romilda, contro le 6 di Serse): quanto alla loro struttura, su 26 totali, in ben 21 (7-10-4) è presente il classico da-capo.

Le voci. In assenza dei castrati, che spopolavano ai tempi di Händel, già dall’800 (vedi le edizioni critiche di Friedrich Chrysander) i ruoli dei fratelli Serse e Arsamene furono assegnati a voci femminili (soprani e/o mezzosoprani) en-travesti. E così avviene anche in questa produzione.

Lo specialista Ottavio Dantone (che - more solito - ha anche smanettato al clavicembalo, dirigendo spesso con le... spalle) ha sforbiciato non poco, a cominciare da un certo numero di recitativi secchi; poi, non avendo in cast il coro, ha eliminato 3 dei 4 brani ad esso assegnati, per fortuna recuperando l’ultimo (e anche il più corposo, che oltretutto sigilla il lieto-fine) affidato assai intelligentemente alle 7 voci soliste. Quanto ad arie e consimili ha effettuato i seguenti sconti ai cantanti: nel primo atto la seconda strofa e la ripresa dell’aria di Serse Più che penso; nel secondo un breve arioso di Atalanta (A piangere ogn’ora); poi ha soppresso la seconda strofa e il conseguente da-capo dell’aria di Atalanta Dirà che non m’amò; quindi l’arioso di Arsamene (Per dar fine alla mia pena) e la successiva aria (con da-capo) Sì la voglio; infine l’aria con da-capo che chiude l’atto (Chi cede al furore, di Romilda); nel terz’atto la seconda strofa e il da-capo dell’aria di Serse (Per rendermi beato).

Ecco perchè le circa 2h50’ nette di un’esecuzione integrale qui si riducono a 2h40’ includendo anche i 20 minuti dell’intervallo, il che significa almeno mezz’ora di musica lasciata per strada. Ma tanto avevo cominciato col dire che, dopo l’Ombra era tutta una noia, giusto? Ovviamente no, scherzavo e devo dire che questi tagli sono sempre dolorosi, anche se (e proprio perchè) ciò che si è suonato, cantato e ascoltato merita largo apprezzamento e giustifica ampiamente (almeno per le mie tasche) il costo di ingresso e trasferta.

La durata ridotta dello spettacolo ha suggerito ovviamente di dividerlo in due anzichè in tre parti: così l’unico intervallo si ha a circa metà del second’atto, dopo l’aria di Romilda (É gelosia). Al termine del primo atto solo una breve sosta, più che altro per consentire ai bravissimi strumentisti dell’Accademia Bizantina di rimettere a punto l’accordatura degli archi (che su strumenti d’epoca è sempre problematica).

Fra le voci metto su tutti la bravissima Monica Piccinini, una convincente Romilda, e con lei l’autorevole Serse di Arianna Vendittelli e il fratellino Arsamene di Marina De Liso. Ma bene han fatto anche gli altri quattro: efficaci i due bassi Luigi De Donato (Ariodate) e Biagio Pizzuti (che come Elviro fa anche il buffo...); discrete l’Atalanta di Francesca Aspromonte e l’Amastre di Delphine Galou (cui alzerei il voto se lei alzasse di più la... voce!)
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Gabriele Vacis firma la regìa, coadiuvato da Roberto Tarasco per scene, costumi e luci, e dal suo aiuto Danilo Rubeca. Contrariamente ad altre opere di barocco-magico, qui nel Serse c’è poca o nulla azione e nessun mirabolante avvenimento, se si esclude il crollo del famigerato ponte, di cui si fatica a giustificare la presenza (e infatti in questa produzione è convenientemente cassato).

Per di più la ridotta presenza (qui poi annullata del tutto) di cori priva il regista del classico strumento utile a movimentare la scena. Così la regìa diventa un’impresa non da poco, e Vacis ricorre ad una soluzione di fatto semi-scenica: orchestra sollevata quasi al livello del proscenio, dove sono schierati i cantanti che - invece di entrare e uscire dalle quinte come si fa di solito in caso di rappresentazioni in forma concertante - restano lì in bella vista, ma accomodati quasi fossero nei loro camerini, davanti a toilettes e specchiere.

La mancanza di azione viene affrontata facendo intervenire, ad un livello assai più alto (almeno 2 metri) rispetto al palcoscenico, dei ragazzi figuranti che riempiono lo spazio con movimenti e spostamenti di oggetti più o meno (soprattutto meno, direi) relazionati con ciò che i protagonisti si stanno raccontando in musica. Di tanto in tanto lo schermo che separa i cantanti da ciò che li sovrasta serve a proiettarvi immagini suggestive, come quella del gigantesco platano che Vacis ha scovato a Torino e che pare abbia precisamente la stessa età del Serse! 

Insomma, trovate se non altro poco invasive e disturbanti per ravvivare la scena. I simpatici costumi e l’efficace l’impiego delle luci hanno contribuito a rendere più che godibile lo spettacolo, accolto alla fine dai convinti applausi del pubblico che affollava il Pavarotti in ogni ordine di posti.

11 febbraio, 2019

Alla Scala una Cenerentola sempre giovane


Proseguendo la serie dei revival di produzioni ormai catalogabili come storiche (domanda: nel 2060 si riprenderà ancora la Traviata di Cherniakov?) la Scala ha ospitato ieri la prima della Cenerentola della premiata coppia Abbado-Ponnelle, ripresa a 46 anni di distanza dalla sua originaria comparsa nel 1973. Produzione già riproposta da allora in diverse stagioni (74, 75, 82, 01, 05) e oggi affidata alle esperte mani di Grischa Asagaroff, ben coadiuvata da Marco Filibeck alle luci. Immortalata anche in DVD (con altri interpreti rispetto al ’73, e con riprese fatte in studio e in play-back) nel 1981. E proprio a Claudio Abbado, a 5 anni dalla scomparsa, è dedicata questa ripresa. Che mantiene, più o meno, anche i (consueti) tagli: qualche recitativo secco e i due contributi di Luca Agolini (coro di apertura atto secondo e aria di sorbetto di Clorinda). Cassata anche l’altra componente agoliniana (Alidoro) in favore del Rossini autentico.

Nel progettare la loro Cenerentola, il librettista Ferretti e Rossini si erano posti un obiettivo assai chiaro: sfrondare il racconto di Perrault da ogni e qualsivoglia componente favolistica, magica, miracolistica, bambinesca (aspetti che si reputavano sgraditi se non addirittura offensivi per l’evoluto pubblico romano di allora) per mettere più che altro in risalto - pur in un contesto giocoso - gli aspetti drammatici, sociologici ed etici del racconto, primo fra tutti quello che oggi chiameremmo come pari-opportunità. (Lo stesso Barbiere, di un anno precedente, dietro la maschera del buffo poneva problemi mica da poco, quali l’avvento della borghesia alla guida della società.) Quindi niente comari-fatine, zucche-carrozze e topi-cavalli che appaiono dal nulla, ma solo un po’ di alone arcano col quale rivestire un illuminato filosofo (Alidoro, precettore del principe Don Ramiro, una specie di Marco Pannella ante-litteram) che procura alla povera Angelina i mezzi per godere, appunto, delle pari-opportunità, negatele dal retrivo padre e dalle sorellastre viziate.

E Ponnelle(-Asagaroff) interpreta alla perfezione l’approccio degli Autori, facendone passare il messaggio col mettere in ridicolo gli aspetti più retrivi della società. Niente miracoli, ma nemmeno avanspettacolo: le gag sono limitate allo stretto necessario e tutto viene mantenuto entro i confini del buon gusto. E per questo l’allestimento resiste alla grande anche in tempi di regie fatte solo per far parlare del regista, ma di fatto prodotti usa-e-getta.
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Che dire poi della prestazione musicale?

Intanto si apprende dal curatissimo libretto della Scala che Angelina-Cenerentola è diventata improvvisamente soprano, come pure la Tisbe, e che Alidoro ha innalzato la sua tessitura a quella di tenore... evabbe’, è il progresso, bellezza! (Il testo pubblicato nel 2005 riportava correttamente le tessiture dei ruoli... o forse è Alberto Zedda che ha inviato dall’aldilà un aggiornamento alla sua edizione critica, chissà.)

Marianne Crebassa per fortuna canta da mezzosoprano qual è e quale l’ha voluta Rossini. La sua è stata una prestazione non strepitosa, tuttavia il personaggio è uscito discretamente bene: un po’ legata all’inizio, è poi cresciuta nel corso della recita, arrivando ben rodata in tempo per la sua finale aria strappalacrime, che ha anche strappato... applausi a scena aperta, applausi che per la verità hanno accolto tutti i principali numeri dell’opera.  

Don Ramiro è una parte non propriamente impossibile (peraltro nell’aria del second’atto presenta diversi DO sovracuti...) e lo smilzo Maxim Mironov l’ha padroneggiata assai bene (a proposito di acuti, ha esagerato anche con un RE): peccato che la sua voce non abbia sufficiente potenza per diffondersi adeguatamente in spazi come quelli del Piermarini altrimenti, invece di un più che discreto, si meriterebbe un più che buono...   

Dandini è Nicola Alaimo (credo che Cenerentola fosse anche il suo debutto in carriera); personalmente lo ricordo in questa parte già al ROF nel 2010... direi che da allora, anche grazie al passaggio su terreni diversi, vedi Falstaff, ha imparato a meglio controllare l’emissione, a giudicare dall’assenza di sguaiatezze e schiamazzi.

Carlos Chausson è un più che convincente Don Magnifico, gran potenza e rotondità di voce, ha brillantemente superato gli scogli della sua parte (anche quantitativamente) assai impegnativa. Subito in spolvero con i rampolli femminini, ha poi ben cantato  l’aria del second’atto e ha contribuito alla riuscita del duetto-di-bassi a suon di scioglilingua con Alaimo.

Erwin Schrott (anche lui non ha velleità tenorili...) - da qualche anno (esordio nel Turco al ROF-2016) si dedica a Rossini - è un ottimo Alidoro, personaggio cui conferisce appropriatamente quell’arcano aplombe soprannaturale che ne caratterizza la figura. Pregevole la sua interpretazione dell’aria del primo atto, quella di Rossini e non di Agolini.  

Le due sbifide sorellastre vengono dalla scaligera Accademia e devo dire che si sono ben portate, la Capitelli in primo luogo, ma anche la Giorgadze. Prezioso il loro contributo agli ensemble, in particolare al sestetto del second’atto.

Il coro è impegnato solo al maschile, e per di più senza grandi difficoltà, quindi Casoni ha fatto il suo dovere, e basta così.

Ottavio Dantone, di professione barocchista, ha riportato saldamente questo Rossini nel ’700, il che non è affatto un demerito, tutt’altro. Apprezzabile la sua concertazione, in specie negli insiemi, dove basterebbe poco a trasformare le mirabilia di Rossini in puro e semplice caos sonoro.
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Pubblico meno folto rispetto a quello della recente Traviata, ma prodigo di applausi per tutti.