XIV

da prevosto a leone
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02 settembre, 2024

Chung e gli olandesi a Rimini.

La serie dei Concerti Sinfonici della 75ma Sagra Musicale Malatestiana è stata aperta ieri sera, nella monumentale cornice del Teatro Galli, dalla prestigiosa Concertgebouworkest diretta da Myung-whun Chung.

Ad aprire il programma è stata eseguita l’Ouverture del Freischütz di Carl Maria vonWeber, un’opera che deve essere assai cara al Maestro coreano, che ne diresse l’ultima apparizione alla Scala, nell’ottobre del 2017.

Si tratta di una mirabile sintesi del cuore filosofico dell’opera, incentrato sulla lotta fra il bene e il male, che abitano l’animo umano nell’arcano scenario della natura, a sua volta splendente, maestosa oppure oscura e minacciosa.

Inizia con un cupo motivo in DO (prima dalla tonica, poi dalla dominante) caratterizzato da ottave ascendenti e successiva discesa, che apre la strada alla seducente melodia in DO maggiore dei quattro corni, a introdurre lo scenario profondamente romantico di boschi e montagne. Essa si chiude però in modo minore, su un sinistro tremolo degli archi, con rintocchi di timpano e di contrabbassi in pizzicato, che annunciano la presenza rabbrividente di Samiel, il demonio rappresentante (non cantante!) del male.

Compare quindi un riferimento all’aria di Max, dalla quarta scena del primo atto (Doch mich umgarnen finstre Mächte), un motivo agitato, poiché Max sta subendo l’influsso sinistro di Samiel. È immediatamente seguita dal terrificante motivo del malefico Caspar, che si udrà nella gola del lupo, alla fine del second’atto.

Dopo che i corni hanno fatto risentire i loro squilli, modulando dal DO minore, che aveva occupato la scena, alla relativa MIb maggiore, ecco che, su un tremolo degli archi, è il clarinetto che presenta un dolce motivo, che deriva dall’esclamazione di Max di fronte alla gola del lupo, alla fine del second’atto (Ha! Furchtbar gähnt der düstre Abgrund!) ma qui introduce il tema che rappresenta il bene, impersonato dalla pia Agathe, e la sua nobile aria dalla seconda scena del second’atto (Süß entzükt gegen ihm) che lei canta all’arrivo dell’amato Max.

Ma ecco tornare il DO minore, con il truce motivo di Caspar, poi ricomparire Agathe, ora in SOL maggiore, ma in un’atmosfera sospesa e poco rassicurante, che infatti lascia spazio ancora al DO minore dei motivi di Max e Caspar, e poi ancora alla sinistra presenza di Samiel.

Dopo un drammatico, interminabile silenzio, una colossale esplosione di DO maggiore dà inizio alla coda, che è ovviamente occupata dal motivo di Agathe, adesso in forma enfatica e trionfale, poi ancora ripreso a chiudere in gloria.

Strepitosa invero, e accolta da un uragano di applausi, l’esecuzione dei tulipani, che Chung ha guidato con il suo proverbiale (apparentemente distaccato) atteggiamento ascetico.

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Avrebbe dovuto toccare ad András Schiff di sedersi alla tastiera per interpretare quello che è comunemente ritenuto il più difficile dei cinque concerti beethoveniani: l’Op.58, in SOL maggiore. Purtroppo, il pianista ungherese ha dovuto dare forfait per improvvisa indisposizione, e così il suo posto è stato preso da un conterraneo del Direttore, il trentenne Seong-Jin Cho, vincitore nel 2015 del più prestigioso concorso pianistico del pianeta, quello intitolato a Chopin

E lui non ha mancato di dare la sua impronta fin dalle cinque battute con le quali si apre – nel silenzio generale – questo autentico capolavoro.

Per poi farsi un pisolino mentre l’orchestra suona da sola (per 68 battute!) i temi principali dell’esposizione.

Da qui però il simpatico quanto riservato Seong ha avuto modo di inebriarci con il suo tocco delizioso, facendo sgorgare dallo strumento mirabili cascatelle di note, culminate nella massacrante cadenza dell’iniziale Allegro moderato. Quasi espressionista la resa del centrale Andante con moto, e nuovamente liquido il conclusivo Rondò, che Chung ha accompagnato evitando eccessiva enfasi.   

Gran trionfo per lui, che ringrazia suonando, anzi sognando, un (Kinder) Schumann!

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Chiusura davvero in bellezza con Brahms e la sua ultima Sinfonia, l’Op. 90. Che Chung cesella da par suo, coniugando la severità del burbero amburghese con il suo confuciano distacco.

Ovazioni per il Maestro e per tutta la splendida Orchestra, che ci mandano a nanna (…) con un altro Brahms: la prima Danza magiara! 


17 settembre, 2020

La Cecilia fa gli ultimi bagni a Rimini

Inaugurare al Teatro Galli la stagione concertistica dell’edizione 2020 della Sagra Musicale Malatestiana è toccato a Cecila Bartoli, che si è esibita ieri sera, insieme all’Ensemble Les Musiciens du Prince-Monaco (emanazione dell’Opera voluta proprio dalla Cecilia e sostenuta dal Principe in persona) diretto dall’ottimo Gianluca Capuano, in un interessante programma che spaziava dal barocco a Rossini a romanze italiane e... altro ancora.

Arrivato in Romagna con un fuori-programma all’ultimo momento e non avendo quindi trovato posto in teatro, mi son dovuto accontentare della diffusione del concerto nell’antistante Piazza Cavour, trasformata per l’occasione in un unico grande bar all’aperto, con tavolini a far da distanziatori fra le sedie, pur esse contingentate come le poltrone del teatro.

20 minuti di ritardo sull’ora d’inizio (21:00) sono calmierati con musiche accattivanti (Boccherini, Beethoven 1 e 2 e altro); poi è il Sindaco Gnassi che non perde l’occasione per (auto-)celebrare i fasti della Rimini che due anni orsono (ma ne ha impiegati più di 70...) ha rimesso in sesto il Galli semidistrutto dalla guerra e quest’anno ha combattuto da par suo il virus, riuscendo persino a proporre (pur smagrita) la ormai storica Sagra.

Finalmente ecco Capuano attaccare il Te Deum di Charpentier come verosimilmente lo si ascoltava a suo tempo... (Molti avranno ancora nelle orecchie la gloriosa sigla italiana dell’Eurovisione, suonata manco fosse Tannhäuser.)

Poi arriva la diva (che si cambierà d’abito non meno di 3 volte in 90 minuti) a proporre il suo prediletto barocco di Händel.

Torna la sola orchestra introducendo la (prima) sessione rossiniana, con Cenerentola, Temporale e Sinfonia) ad alternarsi con la mirabile aria del salice da Otello e il Nacqui all’affanno.

Dopo la Sinfonia del Bruschino, che Capuano fa eseguire a folle velocità (ma anche nella Cenerentola non aveva scherzato in proposito...) ecco una prima variante alla locandina: ascoltiamo subito le quattro romanze italiche.

A questo punto torna Rossini con il posposto peccatuccio La Danza, dove Cecilia si accompagna con un tamburello. E prosegue con il primo fuori-programma, protagonista il riminese d’adozione Bruno Praticò, che accompagna la Cecilia nel duetto del biglietto dal Barbiere.

Poi un altro intermezzo barocco, con la Cecilia a gareggiare in virtuosismi e... apnee con il trombettista dell’Ensemble, fino ad un arrivederci all’estate con Summertime; e il concerto si muta definitivamente da malatestiana a sagra paesana, con un quasi rituale Romagna mia, che manda in visibilio spettatori dentro e fuori il teatro.

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Interessante (ahimè non potrò godermela) la chiusura di questa prima sezione della Sagra, il 19 settembre con Gergiev e i suoi di SanPietroburgo, che qui sono già stati graditi ospiti più volte, come minimo da un quarto di secolo...

04 settembre, 2019

A Rimini un po’ di Rotterdam


Il glorioso e centralissimo Teatro Amintore Galli di Rimini - che aveva ospitato nel 1857 la prima rappresentazione nientemeno che di un’opera di Giuseppe Verdi (Aroldo) - a seguito dei bombardamenti della seconda guerra mondiale era caduto praticamente nel dimenticatoio. Fino a quando (pochi mesi orsono) è finalmente stato riportato al suo antico splendore: Cecilia Bartoli lo ha re-inaugurato nell’ottobre 2018.

Così ora può ospitare, oltre a rappresentazioni di opere, anche i concerti della Sagra musicale malatestiana (arrivata quest’anno alla 70ma edizione) che si tenevano tradizionalmente nelle sale alquanto anonime dei Palazzi dei Congressi (vecchio e poi nuovo) della periferica via della Fiera. Quest’anno la Sagra ha già ospitato Riccardo Muti (spostatosi di pochi chilometri dalla sua casa di Ravenna) e la London Symphony con Simon Rattle.

Ieri sera è stata la volta della prestigiosa Rotterdam Philharmonic, in tournèe estiva, proveniente da Gstaad e poi diretta (domani) a Verona ad offrire ad un pubblico folto quanto entusiasta un interessante programma otto-novecentesco.

Lahav Shani, trentenne israeliano pupillo di Mehta, fresco di nomina a Direttore musicale dell’Orchestra - uno che dirige fcendo uso assai parco della mano sinistra - ha presentato dapprima le musiche dallo stravinskiano Petruška, che hanno consentito ai professori della sua Orchestra di mettere in luce le loro grandi qualità, i fiati e le percussioni in particolare.

Poi la bella e brava 33enne violinista norvegese Vilde Frang ha interpretato quell’autentico distillato e concentrato di romanticismo virtuosistico che risponde al nome di Concerto op.26 di Max Bruch. E lei ne ha fatto emergere proprio il lato più dolciastro (detto nel bene e nel male) mentre Shani, quando era l’Orchestra a prendere la scena, ha un po’ troppo esagerato con il fracasso. Ma il successo non è mancato e i due protagonisti si sono poi esibiti in un bis di duo piano-violino.

Ha chiuso la serata ufficiale il Walzeraccio di Ravel, dove ancora Shani ha lasciato briglia sciolta all’Orchestra, davvero compatta e dal suono tagliente, proprio adatto ad esaltare le impertinenze di questa bizzarra partitura raveliana. Per mandarci a letto contenti, l’Orchestra ha offerto una bis... sognante.

Fra poche settimane toccherà a Jordi Savall, che proporrà un insolito - fino a poco tempo fa, per lui - programma beethoveniano: 3-5; e poi - a dicembre - alla Santa Cecilia (con Dudamel) chiudere il ciclo dei 5 concerti sinfonici della Sagra-70.

01 settembre, 2017

La prestigiosa Academy a Rimini


Purtroppo orfana del suo leggendario fondatore, la prestigiosa Academy of St.Martin in the Fields ha inaugurato la serie dei concerti sinfonici della 68a edizione della riminese Sagra musicale malatestiana, una delle proposte estive più longeve nel panorama italico (è infatti più anziana della stessa Academy!) Da qualche anno qui si suona e si ascolta nella Sala della Piazza del (quasi) nuovo Palazzo dei Congressi, all’interno del quale è pure presente un auditorium ad anfiteatro, che evidentemente ha però una capienza di meno di un terzo di quella dell’enorme stanzone che ospita i concerti della Sagra, che gli viene quindi preferito.

Il programma – come è di prammatica in queste occasioni, che sanno molto di kermesse - non poteva non essere dei più abbordabili, presentando due pezzi inflazionati come pochi. Ma l’altoparlante ne ha annunciato un terzo, che ha aperto fuori locandina la serata: Egmont-Ouverture (si comincia quindi come si dovrebbe finire - ma non si finirà... - con Beethoven).

L’Orchestra è la dimostrazione di come si possano suonare anche pezzi difficili senza un Direttore: così tocca al leader, Harvey de Souza, dare il LA ai colleghi per un’esecuzione di tutto rispetto. La compagine è assai ridotta: fiati quanto basta e archi all’osso (6 violini primi, 4 celli e 2 bassi, per dire...) ma mostra di saper anche produrre le eroiche sonorità beethoveniane.

Ecco poi Daniel Hope arrivare per il più classico dei concerti per violino, l’Op.64 di Mendelssohn. Che lui esegue proprio con la leggerezza degli elfi del Sogno, quasi sfiorando le note del capolavoro del genio di Lipsia. Esecuzione davvero straordinaria, la sua. Poi, al momento del bis, l’omaggio di un cittadino del Commonwealth alla Principessa più amata in Albione, nell’anniversario della tragica scomparsa: così il bis (la raveliana Kaddish) è in sua memoria.

Ha chiuso degnamente la serata ufficiale la Pastorale di Beethoven (sempre senza Direttore, con l’Orchestra trascinata da de Souza). Sonorità vuoi delicatissime (primi due tempi) vuoi tonitruanti (il temporale) e infine nobili e quasi religiose (il finale ringraziamento). Una sesta come capita davvero raramente di ascoltare.

de Souza ringrazia in italiano e concede anche un bis con i soli archi: il walzerino dalla Serenata op.48 di Ciajkovski (qui Marriner a 9’15”). Poi saluta col classico cenno della bevuta, tutte le coppie si abbracciano come nelle migliori famiglie e noi ce ne torniamo a casa contenti.      


05 settembre, 2016

Gergiev riporta il Marinsky in vacanza a Rimini

  
Non è la prima volta che la Sagra riminese ospita l’Orchestra del Marinsky guidata dal suo ormai storico capo Valery Gergiev. Ricordo la loro prima ed ormai lontanissima visita (era l’epoca del funerale dell’URSS!) per una strepitosa Sesta di Mahler. Qui Gergiev racconta dei suoi precedenti rapporti con la Sagra, senza risparmiare critiche all’andazzo tutto italiano che caratterizza la musica cosiddetta colta.  

Ieri il programma era tutto patriottico, pur con le due facce del patriottismo: il russo Ciajkovski che guardava all’occidente come ad un modello, e l’ukraino Prokofiev che si era illuso – poveretto! - che il modello fosse invece l’Unione Sovietica di Stalin...
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Si apre con 5 numeri che Gergiev ha estratto dalle prime due Suite di Romeo&Giulietta, ciascuna delle quali comprende 7 numeri, in sequenza difforme da quella dell’azione del balletto dal quale detti numeri sono presi con piccole manipolazioni; chi è interessato ad una tabella di corrispondenza fra numeri delle suite e numeri del balletto la può trovare all’interno di questo mio precedente commento; lo specchietto che segue riassume invece ciò che si è potuto ascoltare ieri:

titolo
suite–n°
balletto–n°-titolo
Montecchi e Capuleti
2 – 1a
     1b
 7 (Il Principe emana l’ordine) +
13 (Danza dei Cavalieri)
Frate Lorenzo
2 - 3
28 (Romeo e Frate Lorenzo)
Maschere
1 - 5
12 (Maschere)
Romeo alla tomba di Giulietta
2 – 7a
     7b
51 (Funerale di Giulietta)
52 (Morte di Giulietta) incipit
Morte di Tebaldo
1 – 7a
     7b
     7c
33 (Tebaldo e Mercuzio lottano) +
35 (Romeo decide di vendicare la morte di Mercuzio) + 36 (Finale Atto II)

Ribadisco una mia convinzione già più volte espressa: si tratta di musica talmente bella che qualunque mix ci si inventi (anche pescando a caso fra i 52 numeri del balletto) il risultato è garantito. Ciò spiega il proliferare di incisioni ed esecuzioni che ciascun Direttore personalizza a suo piacimento.

Il brano serve proprio come biglietto da vista per gli ex-leningradesi, tutti, maestro in testa, in tenuta... vacanziera (camiciole scure fuori dai pantaloni) con l’unica eccezione del Konzertmeister che, per farsi riconoscere, come non bastasse la sua candida e sferica capigliatura, ha anche indossato camicia bianca e giacca nera.
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Alexander Buzlov ha vinto lo scorso anno il prestigioso Premio Ciajkovski, quindi è quanto meno un astro emergente nel panorama violoncellistico, che nel mondo russo-sovietico ha annoverato stelle di prima grandezza, a cominciare dal sommo Rostropovich. E le Variazioni Rococò sono senza dubbio un test più che arduo, prova ne sia che fu un famoso violoncellista (Wilhelm Fitzenhagen, dedicatario dell’opera e docente, quindi collega di Ciajkovski, al Conservatorio di Mosca) a darle la forma che storicamente è divenuta quella standard.

In anni recenti è però tornata alla ribalta la versione originale (chi fosse interessato ad una breve disamina delle differenze - non piccole, in effetti, che mostrano diversi pro-e-contro - fra le due versioni può dare un’occhiata a quanto scrissi in proposito qualche anno fa) versione che, a giudicare dalla presentazione sul booklet della Sagra, pareva dovesse essere quella scelta anche da Buzlov. Il quale invece è andato sul sicuro, fidandosi più di Fitzenhagen che di Ciajkovski, soprattutto perchè la versione del primo si chiude con la variazione più virtuosistica e trascinante, il che garantisce sempre grandi applausi ed ovazioni. Così è stato anche ieri e così Buzlov - che vi ha sciorinato tutto il suo talento - e l’orchestra, l’hanno ripetuta come bis.
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Il gran finale del concerto era occupato dalla Quinta di Prokofiev (qui gli stessi interpreti di ieri). Sinfonia composta in piena guerra (1944, prima esecuzione sabato 13 gennaio 1945) e carica di significati scoperti e ambigui insieme. Gergiev, che l’ha diretta come ormai sua abitudine con lo... sfarfallìo delle dita, ne ha messo in risalto tutti i minimi dettagli e i suoi lo hanno bellamente assecondato, dai momenti sereni a quelli cupi, a quelli esilaranti.   

Siamo ancora in estate e così per mandarci a nanna ci viene propinato come bis lo Scherzo del mendelssohn-iano Sogno!
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Bene, per quanto mi riguarda finisce qui l’estate romagnol-marchigiana, principiata nell’ormai lontano giugno (a ben pensarci era ancora primavera!) a Ravenna e passata poi per il ferragostano ROF: ora si rientra nella metropoli e (purtroppo per me) non in tempo per godere della visita dei bavaresi con Petrenko-Damrau alla Scala... pazienza, al Piermarini si tornerà la prossima domenica per (speriamo) godere di un’altra visita ormai abituale a inizio settembre, quella de laVERDI!

31 agosto, 2016

La Rotterdam Philharmonic a Rimini


In una Rimini ancora immune dal grande contro-esodo (spiagge e alberghi tuttora in assetto quasi-ferragostano... vuoi vedere che il PIL sta crescendo?) ha aperto ieri i battenti – in una sala di 1500 posti del Palacongressi piacevolmente gremita di pubblico - la stagione concertistica della 67a Sagra Musicale Malatestiana, ospiti (per un ritorno a tre anni di distanza) la prestigiosa Rotterdam Philharmonic, guidata dal suo Direttore Yannick Nézet-Séguin, e la premiata coppia Renaud&Gautier Capuçon.

Essendo giornata di lutto nazionale, a Orchestra accordata e Direttore sul podio viene osservato un minuto di silenzio in memoria delle vittime del terremoto che ancora sta sconvolgendo zone d’Italia non troppo lontane da qui.

Il concerto è aperto da un’autentica primizia: l’Ouverture di un’opera semi-sconosciuta e rarissimamente rappresentata di Josephus Haydn, L’isola disabitata (libretto del Metastasio) composta sul modello di Gluck (recitativi sempre accompagnati). Una specie di variante molto, molto semplificata ed edulcorata del mozartiano Ratto, con il quale ha in comune la presenza di due coppie che sono protagoniste del quartetto che chiude l’opera con un classico lieto fine.
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L’Ouverture (qui eseguita dal venerabile Harnoncourt con i suoi del Concentus) si apre in SOL minore con un’introduzione di 22 battute in tempo Largo di 3/4 e ambientazione cupa; introduzione che chiude adagiandosi sulla dominante RE. Segue (1’33”) un Vivace assai (4/4, sempre SOL minore) dove viene esposto il tema principale. Dopo un breve ponte ecco che, alla battuta 47 (2’05”) il tema viene riproposto, variato e sviluppato, nella tonalità relativa di SIb maggiore, sulla quale entra poi - a battuta 76 (2’41”) - un controsoggetto, sempre in SIb, di sapore più elegiaco. A battuta 95 (3’13) sempre in SIb, udiamo una nuova variante del tema, che dopo un ulteriore sviluppo torna al SOL minore d’impianto che prepara (battuta 132, 4’00”) la ricomparsa del tema nella sua forma originaria, tema che viene ulteriormente sviluppato e sfocia in una cadenza sulla dominante RE. Essa prelude all’attacco in 3/4 di un Allegretto in SOL maggiore, che si configura come un Trio in due sezioni (entrambe ripetute): la prima (battuta 165, 4’44”) e la seconda (battuta 176, 5’15”) più lunga. Il trio si chiude da battuta 197 (6’27”) con una coda che porta (battuta 214, 7’05”) alla ripresa del Vivace assai (4/4) con il tema in SOL minore, che chiude rapidamente l’Ouverture.  
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Pregevole l’esecuzione dei filarmonici olandesi, schierati qui in organico ridotto di fiati (1 flauto, 2 oboi, 1 fagotto, 2 corni) e invece con ampia sezione di archi, che l’imparruccato Haydn certo non aveva a disposizione quel lontano giovedì 6 dicembre 1779, quando l’opera andò per la prima volta in scena in occasione dell’onomastico del suo “patron” Nicholaus Esterházy.
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Ecco poi il Doppio Concerto di Brahms, interpretato dai due Capuçon: Renaud al violino e Gautier al cello (fra i due corrono meno di 6 anni, e il primo ne ha poco più di 40). I due si sono presentati in abbigliamento da perfetti... baristi (smile!): oltretutto nessuno direbbe mai che siano fratelli, tanto diversi sono i loro aspetti esteriori.

Però, accipicchia, hanno dato gran prova di sè, in questo concerto difficile e ostico per chi lo ascolta e ancor più – immagino - per chi lo esegue. Da incorniciare, in particolare, l’Andante centrale, dove i due solisti sono in grande evidenza e dove i due fratelli hanno saputo cavar fuori dai loro strumenti pregevoli sonorità, sempre ben spalleggiati dall’Orchestra, che il Direttore guida con gesto forse un po’ troppo plateale, ma evidentemente efficace.
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Chiusura magniloquente con la tardo-romantica Seconda Sinfonia di quel gran consumatore di alcool che rispondeva al nome di Jan (Jean) Sibelius. Ispirata dalla natura di Rapallo (evidentemente quel mare fa bene alla fantasia dei musicisti, visto il precedente di Wagner che a Lerici inventò il Preludio del Rheingold) è, con la Quinta, la più eseguita del finnico. Sul suo contenuto ho già espresso un personalissimo parere non proprio... edificante in occasione di una sua precedente proposta de laVERDI con Marshall.

I Rotterdamer e Nézet-Séguin fanno di tutto per farcene apprezzare anche il lato poco... apprezzabile, così ne è uscita un’esecuzione vibrante, carica di chiaroscuri e di contrasti, dove i fiati in particolare (tutti eccezionali poi gli ottoni: corni, trombe, tromboni, tuba) hanno recitato la parte del leone.

Ripetute chiamate finchè il Direttore mima una bevuta con successiva dormita per convincere il pubblico che si è fatto tardi ed è ora di rincasare. Quindi, niente bis, ecco.

28 agosto, 2013

Aperta la Sagra Musicale Malatestiana


Yannick Nézet-Séguin alla testa della prestigiosa Rotterdam Philharmonic ha aperto l’edizione n°64 della Sagra riminese.

Programma di gran tradizione, incentrato su Ciajkovski ma con una corposa spruzzata wagneriana (siamo pur sempre nel 2013…)

Concerto aperto da Romeo&Giulietta, la versione seconda (1880) e largamente la più eseguita dell’Ouverture-fantasia (qui Gergiev). La prima versione del 1869 (nella quale mise un pesante zampino anche Balakirev) è decisamente più… rozza e immatura (per constatarlo, eccone un’esecuzione di Geoffrey Simon).

In particolare nella versione ultima Ciajkovski sostituì completamente il tema dell’introduzione, invero banalotto, con un corale assai più nobile e di chiara ispirazione russa, seguito da una cadenza arpeggiante in minore che verrà ripresa in maggiore poco prima della chiusa; eliminò poi la prima timida e scipita comparsa del tema dell’amore (che chiudeva sulla dominante, invece che sulla sesta abbassata); espunse un’enfatica e velleitaria ripresa del motivo dell’introduzione all’interno della seconda esposizione del tema della guerra civile; e soprattutto introdusse un paio di sviluppi in cui i tre temi principali (Lorenzo, guerra, amore) si contrappuntano mirabilmente, mentre nella prima versione compaiono quasi semplicemente giustapposti; infine ingentilì anche la finale cadenza sul tema dell’amore.

Nézet-Séguin ne ha dato un’interpretazione caratterizzata da forti chiaroscuri, esagerando forse in lentezza nell’introduzione e poi scatenando l’orchestra nel tema della guerra Capuleti-Montecchi. Apprezzabile ed emozionante l’attacco delle viole sul tema dell’amore. Qualche apparente compenso, almeno a giudicare da chi come me stava verso il fondo della sala, fra i piani sonori delle diverse sezioni è forse da attibuire all’acustica non ottimale di questo enorme spazio (che non a caso hanno chiamato la Piazza!)

E penso che questa sia anche la causa della scarsa udibilità della voce di Anna Caterina Antonacci (che non è propriamente una vocina) che ci ha proposto successivamente i cinque Wesendonk-Lieder di Wagner. I testi della bella e giovane Mathilde Luckemeyer, maritata con Otto Wesendonk e con lui trasferitasi dalla Germania a Zurigo per ragioni di business, non sono certamente di qualità eccelsa: nessuno se ne curerebbe se Wagner non li avesse rivestiti con le sue note, tutte impregnate di abbondante tristanismo, misto a qualche eco di motivi del Ring, ciclo che proprio in quel periodo (1857-58) il nostro aveva momentaneamente accantonato nel bel mezzo del Siegfried per dedicare le sue morbose attenzioni contemporaneamente al Tristan e alla sua ispiratrice (oltre che ricchissima mecenate).

La quale a sua volta trasse ispirazione dai testi del Tristan, che Wagner le aveva letto in anteprima e così Der Engel (L’Angelo… custode) sembra proprio una dichiarazione d’amore di Mathilde per il musicista: un angelo venuto dal cielo su piume lucenti per sollevare in alto il suo spirito (!)

Stehe still (Resta immobile… sembra il Tell) vorrebbe fermare il tempo per assaporare attimi di estasi. Versi come Aug’ in Auge sembrano proprio mutuati da Herz an Herz dir, Mund an Mund del celebre duetto del second’atto del Tristan.

Im Treibhaus (Nella serra, esplicitamente definito da Wagner Studio per Tristan und Isolde) lascia emergere concetti quali il vuoto chiarore del giorno e Chi veramente soffre si ammanta nel buio del silenzio, che non lasciano dubbi sulla sua ascendenza tristaniana!

Schmerzen (Dolori) sembra far da contraltare al Tristan: qui il sole (che muore, tramontando, ma rinasce ogni mattino) fa accettare tutti i dolori che la natura riserva all’essere umano.

In Träume (Sogni, anche questo indicato da Wagner come Studio per Tristan und Isolde) troviamo versi come Allvergessen, Eingedenken, che paiono venire proprio dal duetto del Tristan.

Apprezzabile (anche se… flebile, smile!) l’interpretazione della Antonacci, ben supportata dall’orchestra (assai ridotta nei ranghi) che il Direttore ha dosato con la dovuta parsimonia.

In chiusura di serata la celeberrima Patetica. Essendo un’opera nota quanto e più del Danubio blu, ecco che ogni direttore si sente in dovere, per distinguersi, di metterci parecchio di suo. E anche Nézet-Séguin non fa eccezione, infarcendo la sua interpretazione di arbitrari interventi su dinamica e agogica (forse accentuati, ancora una volta, dall’acustica del luogo…) Il pubblico, che è rimasto in silenzio alla fine del movimento iniziale, applaude al termine dell’Allegro con grazia, così il Direttore, al termine del poderoso tatata-tà di SOL maggiore dell’Allegro vivace (dove è quasi normale che il pubblico si scateni) non lascia a nessuno nemmeno il tempo di battere le palpebre, e attacca subito l’Adagio lamentoso, effettivamente condotto, questo, come si deve.

Alla fine buon successo e applausi da parte del pubblico assai folto e che, come è un po’ di prammatica in questi festival vacanzieri, costringe tutti ad un indebito quarto d’ora accademico prima che si possa iniziare.

La Sagra prosegue fino al 15 settembre con altri 4 concerti (Fedoseyev, Valcuha, Mehta, Salonen).
 

19 settembre, 2011

Pappano con la Cecilia a Rimini


Il quarto e penultimo concerto della Sagra musicale malatestiana ha avuto come prestigiosi ospiti la migliore Orchestra italiana, guidata dal suo campione Antonio Pappano e la solista Hélène Grimaud. Accoglienza di pubblico adeguata al rango degli ospiti e Palacongressi ancora una volta stracolmo. Programma d'epoca, come d'epoca erano i bolidi che sfrecciavano ieri mattina borbottando sul lungomare, per il Gran Premio Nuvolari.


È Hélène Grimaud ad aprire la serata con il Primo concerto di Brahms. Già dalla lunga introduzione orchestrale si fa sentire il suono pulito, bellissimo, della Santa Cecilia (archi compatti come il pacchetto di mischia degli All-blacks e corni strepitosi) che obbedisce come un cagnolino al gesto – un po' sporco, se vogliamo, ma evidentemente efficace – di Pappano. Che detta un tempo per me quasi perfetto per il Maestoso (che è segnato da Brahms con 58 minime puntate) che, partendo da SIb, passando per LA e poi per RE maggiore, prepara l'ingresso in RE minore del solista. La bell'Hélène (smile!) mi è parsa voler depurare questo Brahms da ogni languidezza crepuscolare, per offrircene una interpretazione misurata e austera, cosa che personalmente condivido. Anche nell'Adagio e nel conclusivo Allegro non troppo (dove Brahms ha fornito solo indicazioni agogiche qualitative) ha staccato tempi piuttosto stretti, senza cadere in facili sdolcinature o in eccessi velocistici, rispettivamente. Calorosa accoglienza per lei, ripetutamente chiamata dal pubblico, che convince la francesina a regalarci un (in)solito bis.

Poi ecco la Scheherazade, uno dei capolavori di Rimski-Korsakov (qui qualche nota a margine di un'esecuzione de laVerdi). È la storia della bella principessa che, per sfuggire alla morte decretata dal suo sultano – un tizio poco raccomandabile, che applicava alle mogli la sbrigativa pratica dell'usa&getta - si inventa ogni notte una favola con cui distrarre il fetentone dalle sue poco simpatiche intenzioni. Anche noi oggigiorno abbiamo un pipistrello che cerca di sfangarsela – dai magistrati, nella fattispecie - inventando storielle a ripetizione: La piccola fiammiferaia Ruby, I due orfanelli tarantini, Il battello sulla Vitola, Ali Papa e i 40 spioni, I tre monti del milanese, Il segreto di bunga-bunga, Il colluttorio miracoloso di sorella Nicole, e così via fantasticando sulle 1000-e-1-notte-di-Arcore. Il celebre compositore Apicella sta scrivendo al proposito una suite, intitolata Beherluscazade

Ma bando alla deprimente attualità politica, e veniamo all'esecuzione dei ceciliani. Sugli scudi ovviamente le parti solistiche, quindi in primo luogo il Konzertmeister Carlo Maria Parazzoli, chiamato ad interpretare il ruolo della principessa; ma poi gli strumentini, che Rimski impegna spesso e volentieri in passaggi addirittura bestiali. Ma queste eccellenze non sono che diamanti incastonati in un gioiello meraviglioso, qual'è proprio l'intera compagine orchestrale. Non saprei cosa lodare di più di questa performance, che ha valorizzato al massimo tutte le bellezze di questa partitura – forse non sufficientemente apprezzata - che per me è davvero uno dei capolavori assoluti della musica. E quando Pappano, dopo aver messo a dormire prima il sultano e poi la principessa, abbassa le braccia sull'accordo perfetto di MI maggiore, impreziosito dal MI sovracuto in armonici del violino principale, è un uragano che si scatena in quel gran capannone che è il vecchio Palacongressi. Ripetute chiamate e non uno, ma due bis: l'Intermezzo pucciniano dalla Lescaut e la scatenata conclusione delle Ore ponchielliane. Insomma, una serata da tenere a memoria.

E così, dopo essere arrivati a Rimini (su un convoglio del loro socio fondatore Ferrovie Italiane, per caso guidato dall'AD Moretti? presente in sala…) sotto un soffocante garbino (32°) e con l'acqua del mare che pareva un brodo, i ceciliani se ne vanno lasciando dietro di sé temporali, acquazzoni e 10° in meno di temperatura: che l'estate stia finendo?
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06 settembre, 2011

La messa cantata di Mahler a Rimini


Dopo l'esordio a Torino, dove ha aperto il MITO-2011 (con presenza di Radio3) il mio illustre concittadino Gianandrea Noseda da Sesto (San Giovanni) si è spostato armi e… musicanti in Adriatico per replicarvi l'esecuzione di quella gigantesca quanto nobile mappazza che risponde al nome di Sinfonia dei Mille.

L'eventuale riferimento ai 150 anni dalla nascita del BelPaese è nella fattispecie del tutto fallace, datosi che quei mille nulla hanno di garibaldino, né di italico (questa l'ha raccontata anche Bossini alla radio…) Essendo il prodotto più genuino e d.o.c. della cultura musicale mitteleuropea dell'ottocento-novecento, qui da noi piuttosto snobbata, ai tempi, se non proprio irrisa. Poi, come spesso accade, si assiste al fenomeno opposto, quello della renaissance, che spesso ha presupposti extra-artistici e aspetti più vicini alla moda che al gusto estetico. Ma tutto fa brodo, e che Mahler oggi si esegua (o registri) con grande frequenza è di sicuro un bene; caso mai sta a ciascuno di noi decidere in quali dosi fruirne, onde evitare possibili intossicazioni.

L'Ottava è uno dei tanti esempi di rimescolamento – per gli scettici: di imbastardimento - delle forme musicali operato da Mahler, costantemente alla ricerca di strumenti nuovi con i quali dare espressione alla sua estetica e alla sua personale visione del mondo. Sinfonia? Messa? Oratorio? Cantata? Fantasia corale? Poema sinfonico con voci? Nulla di tutto ciò, ma allo stesso tempo un po' tutto di ciò. E il nostro aveva cominciato così - quando ancora non aveva vent'anni - con il velleitario Das klagende Lied (non per nulla bocciato senza pietà da tale Brahms): poi, a più di 25 anni di distanza e all'apice del successo, cuocerà insieme Hrabanus Maurus e Goethe in un brodo di MI bemolle di ordinanza, per propinarci questo suo sesquipedale minestrone monumento.

Nel quale si ritrovano reminiscenze del passato (motivi, incisi, a volte sfumature, già uditi in una qualche precedente sinfonia o lied) e novità che ricompariranno in seguito. (In fondo, non si dice forse che la musica di Mahler è sempre uguale a se stessa?)

Il Veni creator in effetti è (quasi) una messa, dove i cori la fanno da padroni, mentre ai solisti sono riservate parti poco… solistiche, anche se estremamente impegnative. Presenta già dei temi che – variati, invertiti, trasposti – ricompaiono poi nella seconda parte, a sua volta poggiante su alcuni motivi che vengono impiegati in scenari diversi e con varianti diverse.

Ad esempio, quello esposto da flauti e clarinetti alla battuta 4 diviene la base per diversi interventi dei soli e del coro:

O ancora, il motivo che udiamo cantato prima dal Pater Profundus e quindi dal Doctor Marianus – dopo essere stato introdotto dagli ottoni isolati al termine della prima parte - altro non è che l'anticipazione del dolcissimo tema che accompagna l'apparizione della Mater Gloriosa:
Un altro motivo portante dell'opera è di chiara ascendenza parsifaliana:
E, proprio come nel dramma wagneriano, questa caratteristica scala ascendente ritorna ad ogni pie' sospinto, e significativamente a supportare il conclusivo zieht uns hinan.

Ma l'Ottava (in specie la seconda parte) è costruita – in contrasto con i canoni sinfonici, che prevedono l'esposizione di pochi temi, ben delineati – come un meccano, a partire da alcuni frammenti di base, di volta in volta montati in configurazioni diverse. O, per usare un termine della forma-sonata, è come un solo, lungo e gigantesco sviluppo.

La seconda sezione pone in musica - escludendo il solo intervento del Pater seraphicus - gran parte del Bergschluchten (l'ultima scena del Faust II, atto V). Alla fine del quale, dal goethiano Ewig-Weibliche (l'eterno femminino) Mahler estrapola, per reiterarlo più e più volte, quell'Ewig che qui ha il sapore dell'eternità (cristiana?) oltre che quello dell'ottimismo, vissuto dal compositore nel momento di piena realizzazione dei suoi obiettivi (e sogni) esistenziali ed artistici. Pochi mesi dopo il completamento dell'Ottava arriveranno però impietosi i tre colpi di martello con cui Mahler - nella sua pretenziosa quanto discussa sesta - aveva simbolizzato il destino che abbatte l'uomo. Ecco così che un altro Ewig tornerà a farsi ripetutamente udire – gänzlich ersterbend - come ultima parola, significante serena e laica (meglio: confuciana) rassegnazione, a chiudere l'ultimo canto musicato dal piccolo-grande boemo.
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Ai quasi 1500 spettatori che assiepano la vasta platea del Palacongressi (quello vecchio… ancora) si presenta un impressionante colpo d'occhio sull'ipertrofico complesso degli interpreti: non 1000 - come effettivamente furono alla prima di Monaco, 101 anni orsono, il prossimo lunedì - ma quasi 400, come ci ha precisato una delle voci fiorentine dei cori. Gli strumentisti devono essere in numero adeguato a fronteggiare le masse corali (due cori misti del Regio e del Maggio e due cori di voci bianche, del Regio e del Conservatorio di Torino) e ciò giustifica l'impiego cooperativo di due orchestre (RAI e Regio). Mahler qui non si serve dei suoi cari campanacci da mucca (che pure sarebbero in sintonia con lo scenario materiale, quantomeno nella parte goethiana) forse ritenendo la cosa irrispettosa dello scenario spirituale… e quindi, per evocare le atmosfere rarefatte, si accontenta (si fa per dire) delle sonorità di pianoforte, celesta, arpe, mandolini e glockenspiel…

Il pacchetto di ottoni che suonano isolati a chiusura dei due tempi della sinfonia si posiziona, al momento opportuno, sul fondo della sala, proprio nel corridoio di ingresso, mentre la Mater Gloriosa, che verso la fine dovrebbe far udire la sua voce aus höhern Sphären, entra a fianco del secondo coro.

Rispetto alla formazione annunciata da tempo ci sono due sostituzioni: Erika Sunnegårdh al posto di Violeta Urmana (Soprano I e Magna Peccatrix) e Bernarda Bobro al posto di Julia Kleiter (Soprano, Mater Gloriosa). Gli altri sei solisti sono Elena Pankratova (Soprano II e Una Poenitentum), Yvonne Naef (Contralto I e Mulier Samaritana), Maria Radner (Contralto II e Maria Aegyptiaca), Stephen Gould (Tenore, Doctor Marianus), Detlef Roth (Baritono, Pater Estaticus) e Christof Fischesser (Basso, Pater Profundus). Solisti disposti davanti al coro, a sinistra del podio e dietro violini, arpe, piano e celesta: il che richiede a loro grande sforzo per passare, e al Direttore grande cura nel non coprirli.

Garibaldi non c'entrerà, ma Noseda tira in ballo i bersaglieri per l'attacco del Veni Creator: una cosa travolgente, e del resto in linea con le indicazioni agogiche di Mahler (Allegro impetuoso)!

Emozionante poi l'attacco dell'Accende lumen, dove il direttore crea il silenzio fra Ac… e …cende, forse andando al di là delle stesse indicazioni di Mahler, che prescrive – con il segno dell'apostrofo - una evidente (entschiedene) pausa di respiro.

La direzione di Noseda (che ha momentaneamente abbandonato la bacchetta, dall'inizio del Faust e fino alla seconda entrata dei cori, dirigendo con… le dita, alla maniera del suo vecchio maestro Gergiev) non sarà magari stata memorabile, per via di una certa meccanicità e asciuttezza nell'esposizione (mi viene in mente il motivo dell'apparizione della Mater Gloriosa, messo in scarso rilievo) magari spiegabile col desiderio di evitare eccessi enfatici e retorici; ma in complesso il mio concittadino va elogiato non fosse altro che per aver saputo tenere insieme con grande autorità quel po' po' di esercito di musicanti.

Elena Pankratova mi è parsa la migliore dei solisti: voce potente, intonatissima e di grande espressività. Erika Sunnegårdh ha una voce meno penetrante (non è la Urmana!) ma in complesso non ha demeritato. Entrambe sono chiamate ad alcuni DO acuti, che hanno sfoderato con sicurezza.

Yvonne Naef e Maria Radner hanno mostrato belle voci (più chiara la prima, più brunita la seconda) e sostenuto dignitosamente i rispettivi ruoli. Bernarda Bobro deve cantare pochi versi e ciò ha fatto con diligenza.

Stephen Gould ha una voce dal timbro profondo (più da baritono o addirittura da basso che da tenore) per me poco adatta al ruolo di Doctor Marianus; in più fatica tremendamente sugli acuti (già dal SOL): l'unico SI naturale cui è chiamato (peraltro opzionalmente) lo ha dovuto emettere… impiccandosi.

Buono Detlef Roth, che ha esposto con grande sicurezza il suo Ewiger Wonnebrand e discreto Christof Fischesser, eremita… mangiapesci (smile!)

Grande la prestazione dei cori di Claudio Fenoglio e Piero Monti, così come quella dei professori: a dimostrazione che in Italia esistono risorse di livello assoluto, che meritano di essere valorizzate e sostenute. Questo e non altro hanno detto gli applausi che per lunghissimi minuti il pubblico ha tributato loro, dopo lo schianto del MIb conclusivo.

Fuori – dopo due giorni di nuvolaglia e di afa - ci accoglie una serata limpida e tiepida: qui l'estate ancora non è finita…

PS: il dolore per la morte di Licitra ha trovato spazio anche qui.
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