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23 agosto, 2017

ROF-XXXVIII live. Stabat Mater


È ormai tradizione per il ROF chiudere i battenti con un concerto – diffuso su schermo gigante in Piazza del Popolo - in cui si eseguono musiche non-operistiche del maestro oppure si propongono opere in forma di concerto (capitò in anni recenti con Zedda che presentò Barbiere, Tancredi e Donna). Le due composizioni del primo tipo che si spartiscono la torta sono solitamente la Petite Messe Solennelle (che infatti chiuderà il prossimo Festival, nella versione strumentata) e lo Stabat Mater, che ieri sera è tornato sulla scena dopo le due ultime apparizioni guidate da Michele Mariotti (2010 e 2015) con i suoi bolognesi.

Quest’anno è toccato alla OSN-RAI, al Coro Ventidio Basso e a Daniele Rustioni il privilegio di abbassare il sipario del Festival, coadiuvati da quattro voci che il pubblico pesarese conosce ormai benissimo: Salome Jicia e Dmitri Korchak che sono ormai di casa qui (Korchak già cantò lo Stabat nel 2006), Erwin Schrott (che esordì lo scorso anno nel Turco) e la rediviva dal secolo scorso Enkelejda Shkoza (fu Ernestina nientemeno che nel 1996, Marie nel ’97, Emilia nel ‘98 e Melibea nel ‘99).  
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La gestazione dello Stabat durò 9 mesi anni, quanti ne passarono fra una prima stesura frettolosa (1832, a fronte dell’impegno che Rossini aveva preso con Manuel Fernandéz Varela, un agiato prelato - tipo cardinal Bertone, per intenderci - di Madrid) e quella definitiva. Fretta che obbligò Rossini ad... appaltare per buona parte a terzi (nella fattispecie l’amico di studi Giovanni Tadolini da Bologna) la composizione della versione iniziale dell’opera, prima di stenderne (tutta di suo pugno) quella definitiva del 1841.

Una relazione assai dettagliata e documentata di quegli anni della vita di Rossini che videro la composizione dello Stabat si può leggere sul programma di sala del ROF, ed è a firma di Reto Müller (membro del Comitato Scientifico della Fondazione Rossini) il quale, oltre a fare chiarezza su molti approssimativi luoghi comuni riguardo all’opera, presenta anche una tabella comparativa delle due versioni, che mi sono permesso di sintetizzare qui sotto. L’originale rossiniano prevede una distribuzione del quartetto dei solisti abbastanza insolita: due soprani, tenore e basso; stante però la tessitura non impervia del secondo soprano (tocca al massimo il SOL#) è diventata ormai consuetudine affidare la relativa parte ad un contralto/mezzosoprano (cosa che è puntualmente avvenuta anche ieri sera) ristabilendo quindi il tradizionale quartetto SATB:


Come si può notare, Rossini compose originariamente l’introduzione e tutta la seconda parte dello Stabat (dalla strofa 11, parte che rimarrà inalterata) appaltando a Tadolini la prima parte; poi però – ritornatigli tempo e voglia - cassò tutti i numeri composti dall’amico per sostituirli, ristrutturandoli profondamente, con farina del suo sacco.

L’ultima strofa di Jacopone (Quando corpus morietur) è originariamente affidata al solo quartetto solistico (a cappella). Qui a Pesaro tuttavia è ormai invalsa l’usanza – confermata ieri sera - di affidarla al Coro, scelta arbitraria anche se non certo riprovevole, ma che non dà modo ai quattro solisti di sciorinare le loro qualità (e di accommiatarsi prima del finale) in questo brano assai impegnativo e di alta drammaticità. È un po’ come far suonare un quartetto ad un’intera orchestra d’archi... privata delle prime parti: è vero che alcuni famosi quartetti sono stati strumentati per ampio organico, ma si tratta di esercizi di studio. Personalmente trovo assai preferibile la soluzione originaria di Rossini.

In ogni modo l’esecuzione complessiva è stata di livello più che dignitoso: punte di diamante, fra i solisti, le due voci maschili, un Korchak impeccabile (per il quale alcuni spettatori hanno abbozzato un applauso a scena aperta – tanto meritato quanto inopportuno - dopo il Cuius animam, chiuso da uno squillante e stentoreo REb acuto) e poi il papà del primogenito della Netrebko, che ha sciorinato la sua voce scura e potente, in particolare nel Pro peccatis. Le due voci femminili (per me) un filino al di sotto: la Jicia deve meglio saper controllare le sue esuberanti doti naturali, che la portano a forzare gli acuti, che tendono a uscire stimbrati; la rediviva Shkoza ha esibito voce potente e scura, ma (mi) è parsa non perfettamente fluida, soprattutto nella sua cavatina.

Bene ancora il Coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina, distintosi nelle parti più religiosamente sommesse (come l’attacco del citato Quando corpus) sia in quelle (vedi il Finale) dove l’impegno anche fisico diventa proibitivo.

Sui suoi notevoli standard la OSN-RAI, dalla quale Daniele Rustioni ha saputo cavare sonorità vuoi delicate e struggenti, vuoi poderose e spettacolari.

Alla fine trionfo per tutti, con ripetute chiamate, in un Teatro Rossini (con pochissime poltrone vuote) che ha così salutato in bellezza la chiusura di questo ROF-38.
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La serata era però stata aperta dall’esecuzione del Preludio Religioso dalla Petite Messe Solennelle, orchestrato anni fa dal compianto Alberto Zedda, esecuzione preceduta da un indirizzo del Sovrintendente Mariotti che ha ricordato con evidente commozione la figura del Maestro che tanto ha dato per il ROF, e ha anche spiegato i razionali che portarono Zedda a decidere di orchestrare quel brano che Rossini aveva affidato al solo organo. È stato insieme un omaggio all’indimenticabile Direttore Artistico e un arrivederci al 2018, quando proprio la Piccola messa tornerà per porre il sigillo all’edizione numero 39 del Festival.

21 agosto, 2017

ROF-XXXVIII live. La pietra del paragone


Ritorno sotto le enormi valve dell’Adriatic Arena (parecchie anche ieri le poltroncine vuote, peraltro) per l’ultima recita de La pietra del paragone, la settima opera che portò al ventenne Rossini il successo e la notorietà sulla piazza milanese. In quel 1812 la Scala aveva in cartellone due opere che avevano avuto un discreto, se non grande, successo: il Ser Marcantonio del Pavesi e Le bestie in uomini del Mosca, che non erano proprio da buttar via, almeno a giudicare da qualche frammento recuperabile anche in rete (la Sinfonia del Pavesi e una scena-e-aria con corno obbligato del Mosca) che sembrano anzi dei modelli di riferimento per il Gioachino. Eppure la Pietra eclissò totalmente le due concorrenti: e il pubblico milanese in quell’autunno non volle più ascoltare altro che Rossini!

Su un libretto di Luigi Romanelli, assai raffinato nella forma quanto inverosimile nel contenuto (basti pensare ai due speculari travestimenti di Asdrubale e Clarice) Rossini compose quasi tre ore di musica che scorre via senza cadute di tensione o rilassamenti, una vera e propria abbuffata di numeri: cavatine, arie, duetti, terzetti, quartetti, quintetti, cori, un temporale e ovviamente i due concertati finali. Non mancano anche qui gli auto-imprestiti (in e out): dall’Equivoco stravagante (sua terza opera, che aveva fatto fiasco a Bologna) arrivano – rielaborati dal compositore - tre numeri della Pietra (coro di cacciatori, quintetto e aria di Clarice-Lucindo); la Sinfonia venne invece presa di peso e trasportata al Tancredi veneziano, il terzetto del duello andrà nella Gazzetta, il Temporale nell’Occasione e successivamente nel Barbiere. A testimonianza della disinvoltura (ma anche dell’acume e dell’intelligenza) che Rossini impiegava nel disporre della sua propria musica.

Compagnia di canto giovane, con parecchi ex-accademici che hanno mostrato le loro promettenti qualità, già emerse alla prima e all’ascolto radiofonico. Ma i mattatori della serata sono stati i due buffi: Paolo Bordogna che ha confermato (come Pacubio) la sua gran classe e ha strappato applausi, non solo con la bizzarra e parodistica Missipipì; con lui un ottimo Macrobio di Davide Luciano, autore di una prova maiuscola, per spiegamento dei suoi potenti mezzi naturali, oltre che per caratterizzazione del personaggio.

Maxim Mironov e Aya Wakizono (tenore e contralto, coppia di potenziali amanti certo meglio assortita – musicalmente – di quella Asdrubale-Clarice che invece godrà del lieto-fine) mi son parsi degni di apprezzamento: lui, ormai alla terza presenza al ROF (dopo 2006 e 2015) non è più da scoprire ed anzi pare fare progressi col passar degli anni, così ha sciorinato una splendida aria nel second’atto. Lei è alla prima presenza nel cartellone principale (fece da accademica il Viaggio nel 2014, prima di passare ad un’altra accademia, quella scaligera) e ha mostrato voce ben impostata e accenti adeguati al ruolo. Ad entrambi si può peraltro imputare la mancanza di qualche decibel, che ha un filino penalizzato le loro prestazioni.
   
A Gianluca Margheri era affidato il ruolo (Asdrubale) di grande impegno e difficoltà: che il nostro ha cercato di superare non senza qualche affanno, in specie nei virtuosismi cui Rossini chiama il protagonista, tuttavia mi sentirei di dargli un voto nettamente positivo.

Detto che William Corrò è stato un onesto Fabrizio, restano le due pettegole arriviste della compagnia: come già alla prima radiofonica, Marina Monzó e Aurora Faggioli non mi hanno particolarmente impressionato: comunque un filino meglio la prima, discreta nella sua arietta e meno... vetrosa e urlacchiante della seconda.

Il Coro (maschile, ieri) del Ventidio Basso di Giovanni Farina, impegnato in misura corposa, ha ancora sfoggiato affiatamento, precisione di attacchi e belle sonorità.

Per l’OSN-RAI non si possono ripetere che elogi ed apprezzamenti: con una partitura che non a caso viene definita tedesca (per la strumentazione lussureggiante, scritta per un’orchestra – quella della Scala del 1812 - agguerrita come le compagini del Nordeuropa) i nostri radiofonici vanno evidentemente a nozze. Daniele Rustioni li ha guidati con perizia e rigore: Orchestra e Direttore torneranno martedi a chiudere (in bellezza, c’è da esserne certi) questo ROF-38 con lo Stabat Mater.
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Pier Luigi Pizzi ha ripreso, con parecchi aggiornamenti, il suo simpatico allestimento che tre lustri non hanno per nulla invecchiato, anzi! La storiella improbabile di Romanelli si può perfettamente ambientare in spazio e tempo qualsivoglia, rappresentando a suo modo un archetipo di certa società benpensante e di ceti parassitari presenti sotto ogni latitudine e in ogni epoca.

Quello di quest’anno si ricorderà come il ROF-delle-passerelle: dopo Padrissa e Martone, anche Pizzi ne ha fatto uso (peraltro in modica quantità) come appendice alla sua scenografia riproducente un villino con piscina, ispirato al regista proprio da una sua casa al mare. Regista che si è presentato baldanzosamente sul palco a raccogliere applausi e ovazioni, meritati per lo spettacolo e insieme per la sua interminabile carriera.

Alla fine trionfo per tutti, con passerella generale accompagnata da Richard Barker al fortepiano.

11 agosto, 2017

ROF-XXXVIII. Le prime alla radio


La nuova produzione de Le Siège de Corinthe ha aperto a Pesaro il Festival rossiniano n°38. Per gli ascoltatori via etere hanno fatto gli onori di casa Guido Barbieri (da studio) e Oreste Bossini (in loco). Qualche discorso di circostanza (le doverose commemorazioni di Zedda e Gossett) poi la ormai ripetitiva auto-celebrazione di patron Mariotti-sr (il ROF come fucina di talenti canori e di innovative invenzioni registiche) e qualche sensata considerazione di Roberto Abbado sulla musica del Siège. Anche Carlus Padrissa ha avuto modo di spiegare ciò che nessuno aveva capito (!) della sua regìa, che dalle sue parole sembrerebbe piuttosto estranea allo spirito e all’estetica rossiniani... ma sarà meglio giudicare con l’approccio di SanTommaso.

Quanto alla musica, detto che si è impiegata l’edizione (critica?) di Damien Colas (che ha rispolverato da manoscritti conservati a Parigi un’estensione dell’aria di Pamira dell’atto II, un giro-extra di danze prima dell’Hymne, e ha fatto cantare nella chiusa dell’opera le donne greche) direi che Radio3 ci ha portato gradevoli sensazioni: l’OSN-RAI non si scopre oggi, mentre una buona impressione ha fatto l’esordiente coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina, che gioca un ruolo per nulla secondario in questo grande affresco a sfondo storico-patriottico.

Luca Pisaroni si è calato in modo convincente nei panni di quel Mahomet che storicamente era un autentico flagello, mentre Rossini lo ammanta di un’aura di nobiltà, mettendone in risalto i caratteri di uomo amante delle arti e di sincero innamorato: qualità che la voce chiara e baritonale di Pisaroni ha efficacemente interpretato. Nino Machaidze (mi) ha ben impressionato, avendo fatto emergere le due facce della personalità della protagonista: donna attirata dall’amore addirittura verso il nemico mortale della sua gente, ma poi eroina e patriota esemplare, fino all’estremo sacrificio. I due tenori del campo greco (il comandante John Irvin e l’eroico Sergey Romanovsky) hanno sfoggiato belle voci (forse troppo... simili, il primo dovrebbe essere più baritenore) e tecnica apprezzabile nei (pur non esagerati) virtuosismi cui Rossini chiama i due personaggi (Romanovsky ha anche sfoggiato un sicuro RE sovracuto). Efficace anche Carlo Cigni (come Hiéros) nel suo accorato ed autorevole appello del terz’atto. Oneste le prestazioni dei tre comprimari, tutti usciti dall’Accademia rossiniana: Cecilia Molinari (apprezzabile la sua ballade dell’atto II) Xabier Anduaga, e Iurii Samoilov.

Tutto sommato, un inizio abbastanza promettente.   
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Promesse direi proprio mantenute con La pietra del paragone, questa commedia brillante dal soggetto assurdo e strampalato, che il grande Gioachino ventenne ha saputo ricoprire con musica strepitosa, ancora una volta nobilitata dall’esecuzione impeccabile dell’OSN-RAI guidata da un sempre più convincente Daniele Rustioni.

Ma anche il cast, quasi interamente di provenienza dall’Accademia rossiniana, ha ben figurato, con punte di spicco in Maxim Mironov e Aya Wakizono. Accanto a loro un efficace Gianluca Margheri e il navigato Paolo Bordogna. Un filino sotto metterei le due babbione (!) Aurora Faggioli e Marina Monzó. Completano dignitosamente la squadra Davide Luciano e William Corrò, mentre il Coro del Ventidio Basso ha confermato il suo valore.

Stando ai suoni arrivati via etere, si direbbe di un caloroso successo di pubblico.
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E Torvaldo&Dorliska ha degnamente chiuso il primo turno delle recite rossiniane. Ascoltandola ci si stupisce sempre di come sia tuttora sottovalutata e negletta: poichè trattasi invece del miglior Rossini, con arie, duetti e concertati di prim’ordine, che impegnano al massimo livello il cast delle voci.

E quella messa in campo dal ROF è davvero una squadra di tutto rispetto, composta da veterani del Festival e da giovani e giovanissimi prodotti dell’Accademia. Fra i primi spiccano Carlo Lepore e Nicola Alaimo, veri trascinatori della squadra; in cui hanno ben meritato Dmitri Korchak, anche lui ormai di casa a Pesaro, e Salome Jicia, uscita dall’Accademia non più di due anni orsono e già al secondo ROF da protagonista, dopo il battesimo con Elena nel 2016. Bene anche Raffaella Lupinacci, tornata a tre anni di distanza dalla Publia dell’Aureliano, e Filippo Fontana, che ha completato il cast.

L’Orchestra Sinfonica G.Rossini - Provincia di Pesaro-Urbino ha supportato egregiamente cantanti e Coro della Fortuna di Mirca Rosciani; tutti ben concertati da Francesco Lanzillotta, esordiente al ROF, ma anche lui ormai entrato nel gruppo dei giovani Direttori italiani di talento.
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Ernesto Palacio, Direttore artistico del Festival, ha annunciato ai microfoni di Radio3 il palinsesto principale del ROF-39: Ricciardo&Zoraide, Adina, Viaggio e Barbiere, quattro nuove produzioni per festeggiare adeguatamente il 150° anniversario della scomparsa di Rossini.

16 marzo, 2015

Il turco in… Piemonte

 

Ieri pomeriggio il Regio torinese ha ospitato la terza rappresentazione de Il turco in Italia, in una co-produzione italo-franco-polacca.

Prima di parlare della regìa di Christopher Alden propongo un paio di considerazioni. Innanzitutto siamo in presenza di un soggetto buffo (o tragi-comico) che per sua natura poco si presta a dissacrazioni o stravolgimenti iconoclasti (tipo l’Aida dello stesso regista ambientata in un collegio di religiose…) Anzi, rivisitazioni anche profonde, se fatte con un minimo di gusto, possono arrecarvi valore aggiunto, cosa che mi sento di sottoscrivere per questo allestimento.

Secondo, sarà bene ricordare quale fu la genesi del libretto di Felice Romani (cui senza dubbio mise le mani lo stesso compositore), cominciando col dire che esso fu scopiazzato da quello che Caterino Mazzolà aveva scritto per Il Turco in Italia di F.J.Seydelman rappresentato a Dresda nel 1788 e replicato nel 1789 a Vienna, dove assai verosimilmente fu visto dalla coppia Mozart-DaPonte. I quali altrettanto assai verosimilmente si ispirarono a quel testo, e in particolare alla figura del poeta Prosdocimo, per mettere in piedi la loro Così fan tutte, protagonista il filosofo DonAlfonso. Dopodichè, con modalità perfettamente reciproche, accadde che nel 1814 la coppia Rossini-Romani, che stazionava a Milano per il suo Turco, assai verosimilmente potè assistere ad una rappresentazione alla Scala - indovina indovinello? – proprio del mozartiano-dapontiano Così!

Insomma, fra i tre testi (i due Turchi e il Così) ci dev’essere stata più di un’influenza. Nel merito va riconosciuto che il libretto di DaPonte supera ampiamente per profondità quello – pure intelligente – di Romani. E lo fa proprio sul terreno del confronto fra le due personalità di DonAlfonso e di Prosdocimo. Il primo (che non per nulla è un filosofo…) si impone al centro della vicenda, determinandone ogni svolgimento, anche nei minimi dettagli: il suo assunto (di natura tipicamente scettica) viene alla fine dimostrato proprio a spese delle due coppie protagoniste, ma tutto sommato anche a loro vantaggio (ammesso che siano capaci in futuro di trarre partito dalla morale della favola). Viceversa il Prosdocimo di Romani è per gran parte dell’opera niente più che un agente passivo degli avvenimenti, nei quali cerca disperatamente di scovare un soggetto per un suo nuovo dramma teatrale. E soltanto dopo averlo trovato decide di pilotarne la conclusione reale secondo le proprie convinzioni etiche, che non sono affatto quelle del dapontiano Così! Essendo esse quanto di più reazionario si possa concepire, con la tremenda (davvero tragica) punizione di Fiorilla, costretta ad una resa senza condizioni alle ipocrite e antifemministe regole della società, che lei così spavaldamente e velleitariamente aveva preteso di infrangere. E – per quanto riguarda i turchi (Selim e Zaida) – comportando un atteggiamento del tipo: tornatevene a casa vostra e non venite qui a rubarci le mogli (Selim) e a fare i rom (Zaida). Proprio un Salvini ante-litteram!!!   

Quindi: una distanza davvero abissale rispetto al messaggio dapontiano-mozartiano.
 
Ecco, fatta questa necessaria premessa, possiamo adesso avvicinarci alla vision che Alden ha posto alla base del suo allestimento dell’opera. Il controverso regista americano fa ruotare l’intera vicenda attorno alla figura di Prosdocimo, trasformandolo appunto nel DonAlfonso di DaPonte-Mozart, motore unico e dominus dell’azione.

L’idea ha comportato qualche disallineamento rispetto al libretto, inevitabile quando si inverte letteralmente il nesso causa-effetto tra un fatto reale e il comportamento dell’osservatore. In sostanza, ci vengono presentati come effetti del copione scritto dal Poeta fatti e notizie che viceversa, nell’originale, sono cause che determinano i contenuti di tale copione. Faccio un esempio infimo, ma significativo: nel libretto di Romani Prosdocimo scopre, informato da Geronio, l’identità del turco che, appena sbarcato, ha già invaso la casa di Fiorilla e dello stesso Geronio; ecco, Alden ribalta la circostanza, mostrandoci Prosdocimo che informa di ciò Geronio, passandogli da leggere un foglio del suo copione.

Un altro riferimento (non certo originale) riscontrabile nella regìa di Alden riguarda Pirandello (i Sei personaggi in cerca d’autore): che si materializza quando alcuni interpreti dell’opera rifiutano il copione propostogli da Prosdocimo e se lo scrivono come pare e piace a loro.

In ogni caso si tratta, a mio parere, di scompensi del tutto sopportabili, un modesto prezzo da pagare ad una visione del soggetto dell’opera che ne valorizza la freschezza e ne facilita la godibilità, sfruttando poi l’efficacia e i colori di scene, luci e costumi, e soprattutto la bravura di tutti gli interpreti (coristi inclusi) nel muoversi per realizzare al meglio le idee del regista.
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Sul fronte musicale, va detto che l’opera è stata eseguita nella sua interezza (il che significa tre ore nette di spettacolo, equamente distribuite nei due atti) recitativi inclusi; anzi, di più, essendo state eseguite anche quelle parti (solitamente espunte) che vengono catalogate come varianti: nell’atto I l’aria di Narciso Un vago sembiante, seguita dal recitativo Di Fiorilla il carattere; e soprattutto l’aria dell’atto II (Se ho da dirla) che mette a dura prova le capacità scioglilinguistiche del Geronio di turno.

Daniele Rustioni, sempre col sorriso sulle labbra, mi è parso dirigere con sufficiente autorevolezza, cura del dettaglio e attenzione a non coprire le voci, evitando eccessivi fracassi. L’orchestra lo ha seguito diligentemente, suono sempre chiaro e pulito. Al fortepiano era Luca Brancaleon, che si è sobbarcato la gran mole dei recitativi, come detto assolutamente non tagliati.

Quanto alle voci, direi bene del terzetto dei basso-buffo: a partire da Paolo Bordogna, un Geronio efficace e bravo a non trasformare i velocissimi scioglilingua (non solo quello del second’atto) in incomprensibili grammelot; poi Simone del Savio, un convincente Prosdocimo; infine Carlo Lepore, che ha efficacemente interpretato la figura del Turco.

Decisamente meno bene i due tenori: persistendo il forfait dell’influenzato Siragusa, Narciso era ancora una volta Edgardo Rocha, che ha mostrato tutti i limiti della sua voce, piccola ma anche sgradevole e poco impostata; appena un filino-filino meglio Enrico Iviglia nei panni di Albazar.

Sul fronte femminile, accettabile la prova di Nino Machaidze come Fiorilla: però non basta staccare gli acuti, RE inclusi, per meritarsi l’eccellenza: la voce è penetrante nell’ottava alta, ma sempre con timbro metallizzato, e ha volume scarso nella prima ottava; posso dire solo, per quel che conta, che l’ho trovata un filino migliorata rispetto all’ultima sua esibizione che mi è capitato di seguire dal vivo circa un anno fa. Samantha Korbey non mi ha proprio convinto, voce piccola, anonima e poco passante.

Bene come sempre il coro di Claudio Fenoglio, eccellente anche nei movimenti da avanspettacolo richiestigli da Alden. 

Calorosa accoglienza per tutti in un teatro ancora una volta affollatissimo.

19 febbraio, 2014

Un Trovatore… trovatello?

 

No, il titolo non è farina del mio sacco, ma qualcuno lo coniò ai tempi di Muti, ultimo a proporre l’opera in Scala nell’ormai lontano 2000 (ma l’allestimento è proprio quello ripreso oggi).

 

Certo, se era un trovatello quello di Muti con Nucci-Frittoli-Urmana-Licitra (tutti al loro top, ai tempi) allora per quello di oggi si dovrebbe inventare un nomignolo davvero imbarazzante! Invece, dopo la prima semi-burrascosa (a leggere in giro) di sabato scorso, ieri la seconda è passata (come da cliché, che vuole la Scala trasformarsi in MET) non solo senza danni, ma in modo più che positivo. Però in un teatro che purtroppo presentava numerosi vuoti: brutto segno, trattandosi della riproposta dopo anni di uno dei titoli che dovrebbero immancabilmente fare cassetta.

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Come si sa, Salvadore Cammarano scrisse il libretto ispirandosi all’omonimo dramma in versi in cinque giornate di Antonio García Gutiérrez. Protagonisti sono due uomini (il Conte di Luna e Manrico) che fino alla fine non sanno di essere fratelli e sono innamorati della stessa donna (Leonora). Ecco, riguardo i due personaggi il buon librettista si prese una non marginale libertà rispetto all’originale ispanico, come vado a spiegare.


Sappiamo che il Conte fa la parte del cattivone: viene risparmiato da Manrico in un duello rusticano (a proposito di Leonora) e per tutta… riconoscenza più tardi lo ferisce quasi mortalmente in battaglia; poi vuole conquistare Leonora - che non lo ama affatto - a tutti i costi e con tutti i mezzi, proprio come fosse un oggetto (Leonora è mia!) Ergo gli viene affibbiata, secondo i sacri crismi del melodramma, la tessitura vocale di baritono. A Manrico – buono, disinteressato, amorevole e soprattutto… riamato da Leonora (soprano) – tocca ovviamente, secondo gli stereotipi della lirica, la voce di tenore.

Ne consegue che il Conte (laido, protervo e libidinoso) deve apparire anche piuttosto attempato, se non proprio vecchio; Manrico (puro, eroico e idealista) giovine. E infatti il libretto di Cammarano ci conferma che il Conte è il fratello maggiore; infatti Ferrando racconta, proprio all’inizio della prima parte, le vicende dei due fratelli ed esclama: fida nutrice del secondo nato dormia presso la cuna. E il secondo nato è appunto quello poi scomparso e sospettato di essere stato sequestrato e quindi mandato arrosto dall’infernale Azucena (mezzosoprano) per vendetta contro la messa al rogo della di lei madre, ad opera del padre dei due fratelli.

Bene, qual è la libertà che si è preso Cammarano? Semplice: invertire l’età dei due personaggi! In Gutiérrez Manrique è infatti il maggiore, e Nuño (il Conte) è più giovane di due anni. Racconta infatti Jimeno: Don Nuño, el menor de entrambos. Per conferma, aggiunge poco dopo: Una noche penetró hasta la cámara propia del mayor, una gitana harapienta y quintañona.

Insomma, il rispetto delle regole del gioco del melodramma imponeva persino di falsificare i certificati di nascita dei protagonisti!

E anche di addolcire certe …ehm, spigolosità del linguaggio di Gutiérrez: nelle ultimissime battute del cui dramma Azucena grida al Conte: él es... tu hermano, imbécil!  
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Ora vediamo come mi è parsa la recita di ieri.


Maria Agresta si conferma cantante di gran talento: una Leonora convincente, proprio in virtù della sua voce, che non è da soprano drammatico spinto, e quindi è aderente a questo personaggio verdiano, lontano assai dalle Abigaille e consimili. Piccola pecca la scarsa penetrazione (negli ampi spazi scaligeri) del registro basso.   

 

Ekaterina Semenchuk mi è parsa musicalmente un po’ troppo… zingarella (smile!) Nel senso di non avere un chiaro indirizzo di casa, quanto ad approccio interpretativo. Però la voce c’è, e tanta: andrà (se lei lo vorrà e saprà fare) meglio coltivata.

 

Marcelo Álvarez si è difeso con mestiere, distribuendo bene le sue (non esuberanti) energie per arrivare sano e salvo alla fine. (Mi chiedo ancora perché, per le parti da eseguire fuori scena - qui sono due - il cantante venga seppellito chissà dove, cosicchè la voce pare arrivi dall’aldilà…) Quanto alla pira, anche lui ha scelto la soluzione (relativamente) più conservativa: intanto si è scontato la ripetizione, poi non volendo rinunciare a far colpo sul pubblico, con lo sparo della tonica finale (invece di fermarsi, come scrive Verdi, alla più comoda dominante) e nel contempo evitare figuracce (il DO è pur sempre un azzardo…) è prudentemente degradato sul SI, come del resto hanno fatto e fanno spesso anche i tenori più titolati. Per curiosità, ecco dove si trova il bivio che porta o al DO o al SI:

Se il tenore, sul fi-glio, invece di salire al LA naturale, si ferma al LAb (cosa musicalmente plausibile, chè non crea alcun problema agli orecchi dell’ascoltatore) è fatta: da lì in avanti tutto il resto è abbassato di un semitono, cabaletta compresa…

Franco Vassallo così e così: chissà, forse per cercare di conquistare Leonora, lui prova a cantare come… Manrico (stra-smile!) Quello che ne esce fuori è un Luna…tico (!)

Chi ha fatto la sua bella figura (ma pochi avevano dubbi, data la caratura del basso coreano) è Kwangchul Youn: un Ferrando assolutamente di alto livello.

Marzia Castellini (Ines) e Massimiliano Chiarolla (Ruiz) bene nelle loro piccole parti. Come sempre onesti comprimari l’immarcescibile Ernesto Panariello e Giuseppe Bellanca.

Il Coro di Casoni in queste opere si trova proprio a casa sua e non si è smentito.

Che dire di Daniele Rustioni? Che non sarà il migliore, ma nemmeno il peggiore del pacchetto di ggiovani che in questi ultimi anni la Scala ha deciso di mandare… allo sbaraglio. Per prudenza, si è portato sul leggìo una seconda bacchetta di scorta (non si sa mai…) Così anche lui – piuttosto contestato, così si racconta, alla prima – ha ricevuto, come tutti, solo applausi e pure qualche bravo!
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Quanto alla messinscena (di Hugo De Ana, a.d. 2000) è di quelle – magari fin troppo - serie e rassicuranti (qualità ai giorni nostri sempre meno reperibili in natura e sempre più vituperate dalle élite che contano).

In definitiva, un trovatello (smile!) non proprio disprezzabile.

17 luglio, 2013

Il Ballo scaligero, della serie: le regìe inutili (ma costose)


Dopo la prima, alcune reazioni abbastanza… premeditate parlavano di una montagna di volgarità, violenza gratuita, degrado materiale e morale dispensati a piene mani: tutti ingredienti che con la poetica di Verdi farebbero semplicemente a cazzotti. Un Ballo inventato di sana pianta, rivoltando l’originale come un calzino, da un regista che si crede un genio. Una roba vomitevole che grida vendetta! Puro trash da teatrini underground. Da denuncia penale per scempio di opera d’arte! E a nulla serviva ricordare a mo’ di giustificazione scempi anche peggiori, come così… o cosà!

Poi, dalla seconda in avanti, e anche ieri sera per la quarta (in un Piermarini con vasti spazi vuoti) tutto è rientrato nella più grigia normalità: successo tiepido o caldino in dipendenza dei gusti, nessuno scandalo, nessuna denuncia, nulla di nulla.

Comincio dalla parte più importante, cioè da Verdi (Michieletto mi perdonerà se lo tratto dopo). Le cose qui, almeno secondo il mio modestissimo parere, non sono andate poi così male come si era stigmatizzato in precedenza.

Daniele Rustioni (beato lui) non è ancora Toscanini e chissà se lo diventerà mai. Però, eccettuato qualche eccesso di irruenza che lo ha portato in un paio di occasioni ad esagerare con il fracasso, nel complesso giudicherei la sua direzione fra il sufficiente e il discreto, avendo mostrato una apprezzabile dimestichezza con questa partitura fra le più difficili di Verdi. Ecco, se volessimo proprio fare una classifica basata sul demerito, allora lui verrebbe dopo colleghi come Battistoni e Wellber, tanto per far due nomi di giovani comparsi in tempi recenti sul podio scaligero.

Avendo Álvarez datala buca, è stato Piero Pretti (secondo cast) a ripetersi dopo un sol giorno di riposo nel ruolo chiave. Che dire? La voce non è propriamente di quelle che lasciano il segno, e probabilmente la parte ancora non gli è entrata, come dire, nel sangue: ha alternato cose interessanti a momenti di chiara difficoltà, soprattutto all’inizio. Nei duetti con Amelia ha dovuto soccombere, sovrastato dalla voce di lei.

La quale lei era Sondra Radvanovsky, una che ha un vocione da far tremare i palchi, anche se la capacità di controllarlo non sembra delle più sviluppate. Però nei momenti topici o critici in cui deve fare accapponare (in senso positivo, sia chiaro) la pelle dello spettatore, lei è splendidamente riuscita nell’impresa. Uno su tutti, il Miserere d’un povero cor, con quella sbudellante salita al DO acuto, che le ha meritato un’autentica ovazione a scena aperta.

Zeljko Lucic ha una voce sguaiata proprio di natura, adatta magari a brutti ceffi wagneriani come Hunding o Hagen, per dire. Il suo Renato è francamente troppo truce. Alla vita che t’arride dovrebbe in effetti… arridere un po’ più di dolcezza; a Eri tu un po’ più di cuore esacerbato. Invece, sempre un piglio da energumeno.

L’Ulrica di Marianne Cornetti è abbastanza convincente: l’esperienza, anche nel ruolo specifico, garantisce sempre prestazioni all’altezza.

Non così dicasi di Patrizia Ciofi, un Oscar piuttosto incolore e con pochi decibel. Fernando Rado e Simon Lim, così come Alessio Arduini perlomeno si son fatti sentire chiaramente anche dal loggione.

In conclusione – sto ripetendomi come un disco rotto, lo so - una prestazione complessiva sufficiente erogata però da un fornitore di fascia alta, anzi (secondo lui) al top. Come se la Lexus, al prezzo e con la prosopopea della Lexus, ti rifilasse una… Tata (smile!)
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Ed ora passo a Michieletto, che qualcuno sostiene – anche con plausibili argomenti – essere stato vittima di vili attacchi premeditati e di complotti di palazzo (leggasi appunto: loggione…)

Intanto, leggendo questa intervista, qualcuno potrebbe addirittura trovarvi la confessione del reato, il distillato più puro ed esiziale di quella degenerazione della professione di portatore in scena di opere musicali che va sotto il nome di Regietheater:

(per il regista è quindi) importante trovare un racconto che serva il dramma.

Eccola là: il regista deve inventare un soggetto suo proprio – ecchissenefrega se l’originale va a farsi benedire - per giustificare la sua salata parcella messinscena di un’opera d’arte! Ciò si configurerebbe come adulterazione o, se si preferisce, come commercio di prodotti contraffatti: reati puniti dalle vigenti leggi, come lo spaccio di Rolex, o Lacoste, o vanGogh falsi.

E poi, perché mai si dovrebbe spostare l’ambientazione rispetto all’originale? Ecco qua:

Cambiare l'ambientazione ha come obbiettivo potenziare il dramma, renderlo più efficace, creare le circostanze per una messa in scena più vivida rispetto all'etichetta di un conte del 1600 con cui oggi nessuno di noi può condividere nulla.

Quindi quei sentimenti, quelle pene, quegli amori, quegli odi, quei sospetti e quelle ipocrisie del 1600 che, nobilitati e poetizzati dall’arte di Verdi, sarebbero stati perfettamente comprensibili e condivisibili dal pubblico di ben 250 anni dopo (= 150 anni fa) al punto che ne andava in delirio, oggi farebbero solo cadere le braccia a noi scafati del terzo millennio? E invece tornerebbero a toccarci il cuore e a commuoverci se appiccicati a qualche tamarro dei giorni nostri? Senza cambiare una virgola di parole e musica?
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Però, si sa, le interviste che pubblicano i quotidiani sono sempre da prendere con le molle: non sai mai se ciò che è messo in bocca all’intervistato sia uscito per davvero dalla bocca sua, o non da quella dell’intervistatore, se non addirittura da quella del redattore dell’articolo (per dire, il 99% di ciò che si scrive abbia detto Berlusconi viene regolarmente smentito il giorno dopo dal diretto interessato… smile!)

Così, per meglio accertare le idee e l’approccio del regista, proviamo a scorrere un’altra intervista, che però ha tutti i crismi dell’autorevolezza (Franco Pulcini) e soprattutto ha avuto verosimilmente la piena certificazione da parte dell’interessato, essendo ciò che si può leggere sul Programma di sala (le parti cui farò riferimento sono trascritte verbatim).

E qui Michieletto parte davvero con il piede giusto, quando afferma:

Un regista deve servire il racconto, la sua drammaturgia, l’archetipo narrativo.

Beh, intanto si ammetterà che è un filino diverso da quel trovare un racconto che serva il dramma

Ora, non tutte le opere si prestano all’individuazione di archetipi narrativi, ma certamente ci si presta molto bene il Ballo, quindi fin qui tutto OK: Michieletto a) si propone di derivare, dal racconto particolare di Somma&Verdi, l’archetipo (cioè un modello universale, astratto) per poi b) da questo far scaturire la sua personale versione di quel racconto originale, versione che sia più e meglio godibile dal pubblico di oggi. Se l’archetipo è derivato correttamente, per conseguenza anche la sua nuova materializzazione (se a sua volta correttamente desunta dall’archetipo) sarà coerente con l’originale.

Ora, da dove cominciamo? Beh, direi dalla figura del protagonista, leggendo ciò che ne dice Michieletto:

Riccardo è un leader politico occidentale, idolatrato da alcuni e odiato da altri. Tipico di chi gestisce il potere. Del resto ai due congiurati ha fatto uccidere il fratello e sequestrato un castello. Per alcuni quindi è un criminale che si è sporcato le mani, un uomo senza scrupoli che per salire al potere ha compiuto delitti e soprusi; per altri invece, sedotti anche dalla propaganda, è un salvatore da amare ed adulare (vengono descritti come “una servil genìa che sta lambendo l’idolo e che non sa il perché”). Come leader politico, Riccardo ha bisogno delle conferme, del consenso. Da queste riflessioni ho cominciato a pensare a lui come a un importante politico occidentale alla vigilia della sua rielezione, durante la campagna elettorale, nel momento della massima tensione nervosa.

Certo, ad una lettura superficiale, parrebbe una descrizione abbastanza fedele del protagonista del dramma. Ma basta un minimo-minimo di approfondimento per far scricchiolare questa vision del regista.

Tanto per cominciare, Riccardo non è un leader politico, eletto dal popolo (anzi, da una parte, e nemmeno maggioritaria, se parliamo degli USA, di esso). E quindi non è né poco né tanto condizionato dalla maggioranza (o peggio, minoranza) che lo ha eletto. È una pubblica autorità, nominata da Sua Maestà Britannica come Governatore di una provincia coloniale (non dimentichiamo che in origine era addirittura un RE!) Io deggio su’ miei figli vegliar, perché sia pago ogni voto, se giusto… Quindi, una persona investita di un’autorità che le viene dall’alto, non da una parte del popolo, ma che ha come fine primo e ultimo il bene dell’intero popolo che gli è stato affidato. (I governanti eletti dal popolo affermano la stessa cosa, ma in realtà fanno interessi di parte, o di classe, o di lobby, cosa del resto assolutamente legittima, in democrazia perlomeno…)   

Ancora: proprio perché a Riccardo il potere viene dall’alto, l’insinuazione che Michieletto prospetta, interpretando i casi personali di Sam&Tom (per salire al potere ha compiuto delitti e soprusi) appare quanto meno azzardata. Primo: lui non ha dovuto affatto salire al potere, ma vi è sceso (nel senso che ci è stato messo da una decisione superiore). Secondo: dal contesto si dovrebbe evincere che condanne a morte e sequestri di beni altro non fossero che regolari sentenze di tribunali, che il Governatore ha semplicemente controfirmato, non avendo ragioni per cassarle. La prova di ciò? L’atteggiamento di Riccardo che rifiuta di controfirmare la sentenza di bando per Ulrica, che testimonia della sua magnanimità e serenità di giudizio: non dimentichiamo che tale era la personalità di Gustavo III, l’archetipo (smile!) del personaggio di Somma&Verdi.

A proposito della maga-santona-imbonitrice, suvvia: nessun uomo politico farebbe mai visita - in campagna elettorale poi - al suo show, né a viso aperto, né in incognito (sai il rischio!) E di certo non prenderebbe quell’occasione per comunicarle la grazia e consegnarle un bell’assegno come risarcimento, chiudendo la puntata con una manifestazione di propaganda (della serie: come perdere le elezioni)! Invece, ancora una volta, un sovrano o un suo nominato dotato di un minimo di humor se lo può benissimo permettere, non dovendo temere di perdere voti ma – qui, più che al ballo – potendosi mostrare come governante illuminato e benigno.

Quindi la campagna elettorale e la conseguente tensione nervosa c’entrano con la vicenda di Riccardo narrata da Somma&Verdi proprio come i cavoli a merenda (ahi, ahi, caro Damiano!) E una conseguenza di ciò è la natura stessa del ballo. Leggiamo cosa si inventa al proposito Michieletto:

Nella mia idea, questo “ballo splendidissimo” è il party conclusivo della campagna elettorale: un momento di esaltazione dell’immagine pubblica di Riccardo, sintetizzato dallo slogan da lui dichiarato nel primo atto (“Incorrotta gloria”).

E nella citata intervista così si era espresso:

La necessità di consenso lo porta (Riccardo) a organizzare un party elettorale che catalizzi su di sè l'attenzione, e una campagna mediatica condotta a colpi di slogan promozionali, che nello spettacolo diventano simboli scenici importanti.

Conclude il nostro, sempre a proposito del ballo:

La solita storia propagandistica: un potere per il popolo, per chi soffre, per chi non riesce ad arrivare alla fine del mese… Quella scritta s’incendia alla fine. L’epitaffio conclusivo “Notte d’orrore” non è solo la sua fine, ma anche la fine della sua immagine, col crollo delle sue sagome, che cadono a terra con lui.

Anche qui purtroppo il nostro inventore di personaggi e di soggetti (inventore è peraltro eccessivo: i mega-poster di contenuto politico li ha già usati tale Vick nel suo recente Macbeth fiorentino…) ha preso un bell’abbaglio. Intanto, il ballo del Governatore (come quello del RE che lo ispirò) non è una manifestazione di parte o di partito (tipo una festa dell’unità sotto elezioni o una convention elettorale americana). Al contrario, è una manifestazione di popolo (cui certo non è estraneo il desiderio dell’autorità di dare lustro alla propria immagine di potere illuminato); anzi, è fatta proprio per il popolo, è un (piccolo o grande) regalo che il Governatore fa ai suoi governati; lui non ha bisogno di essere rieletto, né di raccogliere fondi per la sua campagna elettorale, al contrario spende risorse pubbliche per far contento il popolo intero. E lui parrebbe nemmeno volervi intervenire, al ballo: se lo fa, è per sfidare i presunti congiurati (Renato è il primo ad essere scettico sulla di lui presenza) e per rivedere Amelia, non certo per mettersi in bella mostra davanti ai suoi… sudditi. Insomma: il ballo è una specie di appuntamento tradizionale, sia pure nell’ambito del panem et circenses che caratterizza lo scenario descritto e musicato da Somma&Verdi.

Ma soprattutto il finale di Somma&Verdi è le mille miglia lontano dal proporci il crollo di Riccardo e la fine della sua immagine: è vero esattamente il contrario, my dear Michieletto!  

Sulla personalità di Riccardo così si esprime il regista:

Inoltre è un uomo in conflitto fra il suo essere pubblico e la sua sfera privata. C’è il Riccardo che sta sotto ai riflettori, brillante e sorridente mentre firma autografi e distribuisce strette di mano. Poi c’è il Riccardo che vediamo quando i riflettori sono spenti: la sera arriva per tutti, e Riccardo, spente le luci della ribalta, è un uomo solo; questo il suo dramma di potente. Ama la donna del suo migliore amico, annulla nella risata il suo nervosismo, tradisce un certo forzato esibizionismo, è un narcisista pieno di sé, con tratti infantili.

Mah, qui qualcosa di vero ci può stare, ma il libretto e la musica per la verità ci mostrano un uomo abbastanza genuinamente ottimista, sereno e disincantato; un poco esibizionista forse, ma per nulla nervoso. Di sicuro: nessuno stress da elezioni! Certo: innamorato e, come sempre, l’amore, in specie se è difficile, porta con sé le sue inevitabili pene.

Ecco, fin da qui purtroppo si deve rilevare come il processo tipo1->archetipo->tipo2 operato dal regista sia inficiato da qualche grande o piccola imprecisione, che finisce per rendere abbastanza incoerenti tipo1 (Somma&Verdi) e tipo2 (Michieletto).
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Veniamo ora alla figura di Amelia (e con lei a quella di Renato). Il punto cruciale si tocca nelle scene dell’atto secondo, che hanno suscitato le maggiori e più scomposte reazioni negative di una parte del pubblico della prima.

Intanto: il campo abbominato (quello dei patiboli, nell’originale) e l’erba miracolosa che vi cresce sono evidenti allegorie (anche senza dover scomodare Freud) che ciascuno può interpretare come crede. Allo stesso modo, il vaneggiamento di Amelia - che sente qualcuno piangere davanti a lei - e soprattutto l’apparizione (allo scoccare di mezzanotte) della testa di una delle persone giustiziate in quel campo, potrebbero avere mille significati, tranne però uno solo: essere delle presenze reali, da rappresentarsi con il più crudo verismo.

Tutta la scena dell’arrivo dei congiurati, con le due sorprese (quella di Sam&Tom di trovarsi di fronte Renato e non Riccardo e poi quella generale della rivelazione dell’identità di Amelia) è - parliamoci chiaro - la parte del libretto di Somma tra le più gratuite e le meno plausibili dell’intera opera (anche se ha dato modo a Verdi di comporci una delle più straordinarie pagine di musica). Sarà anche stata voluta così dal librettista (per irridere i carbonari mazziniani, essendo lui un monarchico simpatizzante per la Società Nazionale Italiana) ma è un fatto che sul piano della logica fa acqua da ogni punto la si guardi.

Se immaginiamo che i congiurati si convincano che Renato (e non Riccardo) fosse l’uomo che avevano inseguito, allo scoprire che la donna con lui è Amelia non avrebbero motivo per gridare (o cantare) allo scandalo: poiché sarà pure strano che due coniugi si trovino in piena notte in quel postaccio ma, visto che son lì da soli - del miele sulle rugiade (a) corcar(si) - fino a prova contraria non si vede perché il fatto in sé dovrebbe poi finire sulle prime pagine dei giornali (cosa che invece sarebbe plausibilissima se i congiurati – come è capitato a Renato - avessero colto in flagrante Amelia con Riccardo).

Se invece immaginiamo che i congiurati restino convinti che fino a poco prima lì ci fosse, con Amelia, proprio Riccardo, allora certamente avrebbero motivo per canzonare Renato e per far circolare lo scandalo (avente per oggetto le corna, null’altro, si badi bene) per la città. Ma in cambio non si capirebbe perché si accontentino dello scandalo, invece di inseguire in ogni dove la loro vittima, che non può certo essersi di molto allontanata…

Delle due versioni la seconda è quella diciamo… meno strampalata (e anche più accreditata): vero è che nell’atto terzo Renato non rivela a Sam&Tom la ragione del suo passaggio nelle loro file, ma chiunque sarebbe portato – a quel punto - ad ipotizzare che sia proprio la questione di corna.

Ora, che fa Michieletto? Intanto sposa decisamente una delle due alternative (e fin qui possiamo seguirlo): precisamente la prima, cioè la meno credibile, che comporta che i congiurati si convincano di aver preso un abbaglio, avendo scambiato il segretario per il Governatore. E che si chiedano perplessi cosa ci stessero a fare due coniugi in un posto come quello. Ed ecco che Michieletto pensa di migliorare il libretto mostrandoci una ragione più che plausibile perché si possa da ciò sollevare un grande scandalo, altrimenti davvero miserello e gratuito: siamo in un luogo frequentato da puttane e ai congiurati Amelia si rivela precisamente come una di loro, e il marito come un magnaccia! Ecco come il regista, nell’intento (lodevole?) di chiarire la situazione allo spettatore un po’ interdetto, si inventa la presenza delle prostitute:
 
Quando Renato presume di aver scoperto il tradimento da parte della moglie, ci sono tanto la gelosia e la rabbia per essere stato tradito proprio con un amico, quanto il fatto che i congiurati gli ridano in faccia per la situazione imbarazzante di essere stato scoperto con la consorte di notte in un luogo particolare, in una periferia tra le prostitute. Ecco lo scandalo. Vedrai domani, cantano, “che baccano sul caso strano e che commenti per la città”: finirai sui giornali, sarai sbeffeggiato, la tua immagine è finita. Amelia viene ridicolizzata perché sembra una delle prostitute che erano in quel luogo. Amelia infatti era stata rapinata della pelliccia e, per celare la sua identità, indossa l’impermeabile bianco della prostituta. Che ci stanno a fare lì, si chiedono i congiurati, quei due? Giochetti di scambisti? Una signora inquieta alla ricerca di novità eccitanti?

Qui il problema non è che Michieletto porti in scena delle luride battone (ciascuno di noi può avere la sua idea di come Verdi avrebbe giudicato la cosa) una delle quali rapina Amelia della pelliccia, lasciandole in cambio il suo soprabitino da sgualdrina. No, qui il problema è squisitamente artistico-estetico. Domanda: è il Ballo per caso un’opera verista? Ahinoi e ahilui, Michieletto – almeno per queste scene dell’atto secondo - pare proprio aver risposto di SI (!?) L’errore che il regista ha commesso qui è, per così dire, di aver voluto strafare, inserendo indebite componenti iper-realiste e veriste in una scena che è invece tutta pervasa da introspezione psicologica e da indecifrabile quanto comica ambiguità.

Per dire, un accenno alle prostitute (purchè fatto con… discrezione e senza farle intervenire nell’azione) avrebbe anche potuto indicare il senso di colpa di Amelia, che si sente (almeno spiritualmente) un’adultera; il che da lontano (ma plausibilmente, secondo un’analisi freudiana) potrebbe apparirle come il primo passo verso la prostituzione (ecco come finiscono le adultere, le suggerirebbe il suo subconscio…) Invece Michieletto si immagina una scena perfettamente e compiutamente verista – quindi totalmente estranea alla natura dell’opera – solo per raggiungere uno scopo tutto sommato secondario: spiegarci in modo più convincente di Somma il perché del riferimento allo scandalo fatto dai congiurati.

E senza accorgersi di aprire così un’autentica voragine sulla credibilità delle vicende successive del dramma. Sì perché, oltre ai congiurati, anche Renato non può non sospettare che la moglie fosse lì non per fargli le corna, ma nell’esercizio di un… secondo lavoro! Ma allora, accipicchia, il buon Riccardo non è più il suo cornificatore unico, bensì uno dei tanti utilizzatori finali delle prestazioni di quella troia di sua moglie! E perché quindi dovrebbe essere lui, e non lei, la prima e unica vittima della sua sete di vendetta? Insomma, il resto del Ballo qui va precisamente a… meretrici (smile!)

Il sospetto che tutto ciò sia quindi una premeditata provocazione del regista (perché Michieletto è di sicuro tutto fuorchè scemo) non mi pare proprio campato in aria. E se ne tira dietro un altro: che la frase dell’intervista citata all’inizio non fosse affatto un’invenzione dell’intervistatore…
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Il processo tipo1->archetipo->tipo2 relativo alla maga Ulrica doveva essere facile-facile, datosi che questa è, fra tutte, la figura indubbiamente più semplice da attualizzare: perché, in fondo, è essa stessa già un archetipo! Eppure Michieletto ha voluto anche qui esagerare, trasformando una veggente e lettrice di carte, di tarocchi e mani in una santona guaritrice di paralitici e di affetti da HIV. Roba da circo equestre! 

Quanto alla caratterizzazione di Oscar - cui Michieletto toglie la dignità di travesti, presentandolo proprio come una donna, e pure professionalmente super-attiva e diligente - mi pare che abbia più difetti che pregi: il personaggio finisce col perdere tutta la sua verve da Cherubino; e soprattutto la musica di cui Verdi lo riveste mi pare del tutto incoerente con l’immagine che ce ne dà il regista, della classica segretaria-racchia-tuttofare-innamorata-del-capo. Infine, si tenga presente che l’equivoco sul sesso di Oscar potrebbe essere, nell’originale, un raffinato accenno alle tendenze omosex di Gustavo III, un’allusione che il regista cancella del tutto.     

Bene, fin qui abbiamo fatto a Michieletto l’esame di teoria e – a mio modestissimo parere – il regista di Scorzè non se l’è cavata per nulla bene: dopo aver impostato correttamente il lavoro, ha finito per contravvenire alle sue stesse premesse, con una serie di scelte discutibili e incoerenti con i suoi presupposti e, ciò che più conta, con l’originale.
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Passiamo quindi all’esame di pratica.

La prima parte del primo atto è presentata con grande efficacia, non c’è che dire. Salvo per gli smaccati riferimenti alla campagna elettorale, che fatalmente gettano sull’ambiente di Riccardo una luce, come dire… faziosa: lì non c’è il popolo, cui il Governatore elargisce magnanimi favori, ma soltanto i fan del candidato che devono aiutarlo nella campagna (e magari qualcuno che invece gli vuol fare le scarpe…) Beh, la distanza dall’originale non è proprio da poco, si ammetterà.

La maga Ulrica, nell’originale, è di pelle nera (dell’immondo sangue dei negri scrive Somma, attirandosi sdegnate accuse di razzismo). Perché noi invece vediamo una megera bianchissima e biondissima? Cos’è, una specie di affirmative action alla rovescia? (smile!)

E poi, chi può mai pensare che uno show televisivo americano di un santone-predicatore venga introdotto da una sigla musicale fatta dalle prime 22 battute della scena sesta del primo atto? Sai quanti trafelati zapping di gente con le mani sui coglioni? (stra-smile!)

Qui mi permetto di fare un appunto tecnico a Michieletto: ad uno spettatore che non conosca bene il libretto risulta del tutto incomprensibile la scena in cui Silvano si ritrova… miracolato. Nessuno riesce a distinguere il momento in cui Riccardo (che è circondato da un nugolo di persone, e nemmeno si capisce quando entri in scena) scrive il biglietto da infilare nella tasca della giacca del suo marinaio. E anche poco dopo, quando Amelia è a colloquio con Ulrica, la presenza di parecchie altre comparse oltre a Riccardo fa perdere gran parte dell’efficacia drammatica di quella scena.

Nella scena del campo abbominato Michieletto si presta anche a critiche a buon mercato, del tipo: ma perché Riccardo, arrivato in BMW, non ci carica Amelia e se ne va, invece di scappare a piedi, lasciando lì la sua lussuosa auto e la sua amante in preda a malviventi? Qui ci si inoltra in uno stucchevole ginepraio di ipotesi, del tipo: sulla strada ci sono posti di blocco di congiurati e lui deve scappare a piedi per un sentiero fra roveti e immondizia (lei no, per via dei tacchi-13). Ma allora: possibile che i congiurati non riconoscano poi che quella è l’auto di Riccardo? Fosse così, andrebbe però a… meretrici (smile!) tutto il discorso sullo scandalo Renato-Amelia nella versione così alacremente  e ingegnosamente costruita dal regista. Risposta: sì, possibile, perché si tratta di una delle tante auto-blu della flotta del Governatore, a disposizione di tutto il suo staff… E via inventando un’obiezione e una giustificazione dopo l’altra, mentre la musica di Verdi… se ne va inascoltata!   

Poi, non contento della sua dettagliata spiegazione del libretto, Michieletto ci mostra apertamente il significato dei versi Ve’, se di notte qui colla sposa l’innamorato campion si posa, e come al raggio lunar del miele sulle rugiade corcar si sa! mostrandoci una simulazione di ciò che avviene in quel lurido luogo, mediante alcune effusioni finocchiose di congiurati sulla medesima BMW. Avanspettacolo puro!

L’estrazione del nome dell’assassino di Riccardo è un altro esempio di quel misto di velleitarismo e di ingenuità che caratterizza la messinscena di Michieletto. Sì, d’accordo, sappiamo bene che sono dei bambini ad estrarre le palline dei numeri vincenti del superenalotto e della lotteriaitalia, e di tutte le riffe di questo mondo. Ma qui il miserevole concetto che il regista ci trasmette è che le colpe dei padri (anzi delle madri) ricadono sui figli! Mammamia…

La scena finale, con tutte quelle sagome di Riccardo che mandano i congiurati in confusione, appare assai suggestiva e ben realizzata. L’idea di sdoppiare corpo (morto) e anima di Riccardo, facendone cantare l’anima nell’atto della lettura, da parte di Amelia, del dispaccio del Governatore è assai poetica e interessante. Senonchè lascia l’effetto che delle ultime volontà di Riccardo venga a conoscenza solo la donna, e non l’intero popolo.

Il che è coerente con l’idea portante di Michieletto (il crollo della figura di Riccardo, accompagnato dall’incendio dei poster elettorali) ma stride maledettamente con la musica di Verdi, che è invece un’autentica apoteosi per il Governatore ingiustamente ucciso. Il conclusivo Notte d’orror! non è certamente il pollice-verso del popolo contro il suo capo, al contrario, rappresenta l’esecrazione per un delitto odioso e per la fine immeritata della guida tanto amata (cui si associano, ipocritamente, anche gli stessi congiurati!)  
   
Ecco, anche l’esame di pratica non mi sembra proprio sia stato superato.

Insomma, una regìa che – come altre di Michieletto – parte da lodevoli presupposti, ma poi finisce per smentirli, poco o tanto, lungo la strada. Ecco perché personalmente non mi sento di promuoverla, pur non arrivando a stroncarla a prescindere. È semplicemente un’interpretazione che non arreca alcun valore aggiunto all’originale, ed anzi paradossalmente lo rende più astruso ed incomprensibile per lo spettatore medio.   

Caso mai, direi che il regista ha qui perso l’occasione per fare una bella profezia su qualche membro della… Casa Reale Britannica (stra-smile!!!)
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Adesso basta Scala per un po’ (conveniva forse che chiudesse per ferie dopo il successo del doppio Ring…) e proiettiamoci verso Pesaro (passando, via-radio, per Bayreuth).