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consulta e zecche rosse

17 luglio, 2013

Il Ballo scaligero, della serie: le regìe inutili (ma costose)


Dopo la prima, alcune reazioni abbastanza… premeditate parlavano di una montagna di volgarità, violenza gratuita, degrado materiale e morale dispensati a piene mani: tutti ingredienti che con la poetica di Verdi farebbero semplicemente a cazzotti. Un Ballo inventato di sana pianta, rivoltando l’originale come un calzino, da un regista che si crede un genio. Una roba vomitevole che grida vendetta! Puro trash da teatrini underground. Da denuncia penale per scempio di opera d’arte! E a nulla serviva ricordare a mo’ di giustificazione scempi anche peggiori, come così… o cosà!

Poi, dalla seconda in avanti, e anche ieri sera per la quarta (in un Piermarini con vasti spazi vuoti) tutto è rientrato nella più grigia normalità: successo tiepido o caldino in dipendenza dei gusti, nessuno scandalo, nessuna denuncia, nulla di nulla.

Comincio dalla parte più importante, cioè da Verdi (Michieletto mi perdonerà se lo tratto dopo). Le cose qui, almeno secondo il mio modestissimo parere, non sono andate poi così male come si era stigmatizzato in precedenza.

Daniele Rustioni (beato lui) non è ancora Toscanini e chissà se lo diventerà mai. Però, eccettuato qualche eccesso di irruenza che lo ha portato in un paio di occasioni ad esagerare con il fracasso, nel complesso giudicherei la sua direzione fra il sufficiente e il discreto, avendo mostrato una apprezzabile dimestichezza con questa partitura fra le più difficili di Verdi. Ecco, se volessimo proprio fare una classifica basata sul demerito, allora lui verrebbe dopo colleghi come Battistoni e Wellber, tanto per far due nomi di giovani comparsi in tempi recenti sul podio scaligero.

Avendo Álvarez datala buca, è stato Piero Pretti (secondo cast) a ripetersi dopo un sol giorno di riposo nel ruolo chiave. Che dire? La voce non è propriamente di quelle che lasciano il segno, e probabilmente la parte ancora non gli è entrata, come dire, nel sangue: ha alternato cose interessanti a momenti di chiara difficoltà, soprattutto all’inizio. Nei duetti con Amelia ha dovuto soccombere, sovrastato dalla voce di lei.

La quale lei era Sondra Radvanovsky, una che ha un vocione da far tremare i palchi, anche se la capacità di controllarlo non sembra delle più sviluppate. Però nei momenti topici o critici in cui deve fare accapponare (in senso positivo, sia chiaro) la pelle dello spettatore, lei è splendidamente riuscita nell’impresa. Uno su tutti, il Miserere d’un povero cor, con quella sbudellante salita al DO acuto, che le ha meritato un’autentica ovazione a scena aperta.

Zeljko Lucic ha una voce sguaiata proprio di natura, adatta magari a brutti ceffi wagneriani come Hunding o Hagen, per dire. Il suo Renato è francamente troppo truce. Alla vita che t’arride dovrebbe in effetti… arridere un po’ più di dolcezza; a Eri tu un po’ più di cuore esacerbato. Invece, sempre un piglio da energumeno.

L’Ulrica di Marianne Cornetti è abbastanza convincente: l’esperienza, anche nel ruolo specifico, garantisce sempre prestazioni all’altezza.

Non così dicasi di Patrizia Ciofi, un Oscar piuttosto incolore e con pochi decibel. Fernando Rado e Simon Lim, così come Alessio Arduini perlomeno si son fatti sentire chiaramente anche dal loggione.

In conclusione – sto ripetendomi come un disco rotto, lo so - una prestazione complessiva sufficiente erogata però da un fornitore di fascia alta, anzi (secondo lui) al top. Come se la Lexus, al prezzo e con la prosopopea della Lexus, ti rifilasse una… Tata (smile!)
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Ed ora passo a Michieletto, che qualcuno sostiene – anche con plausibili argomenti – essere stato vittima di vili attacchi premeditati e di complotti di palazzo (leggasi appunto: loggione…)

Intanto, leggendo questa intervista, qualcuno potrebbe addirittura trovarvi la confessione del reato, il distillato più puro ed esiziale di quella degenerazione della professione di portatore in scena di opere musicali che va sotto il nome di Regietheater:

(per il regista è quindi) importante trovare un racconto che serva il dramma.

Eccola là: il regista deve inventare un soggetto suo proprio – ecchissenefrega se l’originale va a farsi benedire - per giustificare la sua salata parcella messinscena di un’opera d’arte! Ciò si configurerebbe come adulterazione o, se si preferisce, come commercio di prodotti contraffatti: reati puniti dalle vigenti leggi, come lo spaccio di Rolex, o Lacoste, o vanGogh falsi.

E poi, perché mai si dovrebbe spostare l’ambientazione rispetto all’originale? Ecco qua:

Cambiare l'ambientazione ha come obbiettivo potenziare il dramma, renderlo più efficace, creare le circostanze per una messa in scena più vivida rispetto all'etichetta di un conte del 1600 con cui oggi nessuno di noi può condividere nulla.

Quindi quei sentimenti, quelle pene, quegli amori, quegli odi, quei sospetti e quelle ipocrisie del 1600 che, nobilitati e poetizzati dall’arte di Verdi, sarebbero stati perfettamente comprensibili e condivisibili dal pubblico di ben 250 anni dopo (= 150 anni fa) al punto che ne andava in delirio, oggi farebbero solo cadere le braccia a noi scafati del terzo millennio? E invece tornerebbero a toccarci il cuore e a commuoverci se appiccicati a qualche tamarro dei giorni nostri? Senza cambiare una virgola di parole e musica?
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Però, si sa, le interviste che pubblicano i quotidiani sono sempre da prendere con le molle: non sai mai se ciò che è messo in bocca all’intervistato sia uscito per davvero dalla bocca sua, o non da quella dell’intervistatore, se non addirittura da quella del redattore dell’articolo (per dire, il 99% di ciò che si scrive abbia detto Berlusconi viene regolarmente smentito il giorno dopo dal diretto interessato… smile!)

Così, per meglio accertare le idee e l’approccio del regista, proviamo a scorrere un’altra intervista, che però ha tutti i crismi dell’autorevolezza (Franco Pulcini) e soprattutto ha avuto verosimilmente la piena certificazione da parte dell’interessato, essendo ciò che si può leggere sul Programma di sala (le parti cui farò riferimento sono trascritte verbatim).

E qui Michieletto parte davvero con il piede giusto, quando afferma:

Un regista deve servire il racconto, la sua drammaturgia, l’archetipo narrativo.

Beh, intanto si ammetterà che è un filino diverso da quel trovare un racconto che serva il dramma

Ora, non tutte le opere si prestano all’individuazione di archetipi narrativi, ma certamente ci si presta molto bene il Ballo, quindi fin qui tutto OK: Michieletto a) si propone di derivare, dal racconto particolare di Somma&Verdi, l’archetipo (cioè un modello universale, astratto) per poi b) da questo far scaturire la sua personale versione di quel racconto originale, versione che sia più e meglio godibile dal pubblico di oggi. Se l’archetipo è derivato correttamente, per conseguenza anche la sua nuova materializzazione (se a sua volta correttamente desunta dall’archetipo) sarà coerente con l’originale.

Ora, da dove cominciamo? Beh, direi dalla figura del protagonista, leggendo ciò che ne dice Michieletto:

Riccardo è un leader politico occidentale, idolatrato da alcuni e odiato da altri. Tipico di chi gestisce il potere. Del resto ai due congiurati ha fatto uccidere il fratello e sequestrato un castello. Per alcuni quindi è un criminale che si è sporcato le mani, un uomo senza scrupoli che per salire al potere ha compiuto delitti e soprusi; per altri invece, sedotti anche dalla propaganda, è un salvatore da amare ed adulare (vengono descritti come “una servil genìa che sta lambendo l’idolo e che non sa il perché”). Come leader politico, Riccardo ha bisogno delle conferme, del consenso. Da queste riflessioni ho cominciato a pensare a lui come a un importante politico occidentale alla vigilia della sua rielezione, durante la campagna elettorale, nel momento della massima tensione nervosa.

Certo, ad una lettura superficiale, parrebbe una descrizione abbastanza fedele del protagonista del dramma. Ma basta un minimo-minimo di approfondimento per far scricchiolare questa vision del regista.

Tanto per cominciare, Riccardo non è un leader politico, eletto dal popolo (anzi, da una parte, e nemmeno maggioritaria, se parliamo degli USA, di esso). E quindi non è né poco né tanto condizionato dalla maggioranza (o peggio, minoranza) che lo ha eletto. È una pubblica autorità, nominata da Sua Maestà Britannica come Governatore di una provincia coloniale (non dimentichiamo che in origine era addirittura un RE!) Io deggio su’ miei figli vegliar, perché sia pago ogni voto, se giusto… Quindi, una persona investita di un’autorità che le viene dall’alto, non da una parte del popolo, ma che ha come fine primo e ultimo il bene dell’intero popolo che gli è stato affidato. (I governanti eletti dal popolo affermano la stessa cosa, ma in realtà fanno interessi di parte, o di classe, o di lobby, cosa del resto assolutamente legittima, in democrazia perlomeno…)   

Ancora: proprio perché a Riccardo il potere viene dall’alto, l’insinuazione che Michieletto prospetta, interpretando i casi personali di Sam&Tom (per salire al potere ha compiuto delitti e soprusi) appare quanto meno azzardata. Primo: lui non ha dovuto affatto salire al potere, ma vi è sceso (nel senso che ci è stato messo da una decisione superiore). Secondo: dal contesto si dovrebbe evincere che condanne a morte e sequestri di beni altro non fossero che regolari sentenze di tribunali, che il Governatore ha semplicemente controfirmato, non avendo ragioni per cassarle. La prova di ciò? L’atteggiamento di Riccardo che rifiuta di controfirmare la sentenza di bando per Ulrica, che testimonia della sua magnanimità e serenità di giudizio: non dimentichiamo che tale era la personalità di Gustavo III, l’archetipo (smile!) del personaggio di Somma&Verdi.

A proposito della maga-santona-imbonitrice, suvvia: nessun uomo politico farebbe mai visita - in campagna elettorale poi - al suo show, né a viso aperto, né in incognito (sai il rischio!) E di certo non prenderebbe quell’occasione per comunicarle la grazia e consegnarle un bell’assegno come risarcimento, chiudendo la puntata con una manifestazione di propaganda (della serie: come perdere le elezioni)! Invece, ancora una volta, un sovrano o un suo nominato dotato di un minimo di humor se lo può benissimo permettere, non dovendo temere di perdere voti ma – qui, più che al ballo – potendosi mostrare come governante illuminato e benigno.

Quindi la campagna elettorale e la conseguente tensione nervosa c’entrano con la vicenda di Riccardo narrata da Somma&Verdi proprio come i cavoli a merenda (ahi, ahi, caro Damiano!) E una conseguenza di ciò è la natura stessa del ballo. Leggiamo cosa si inventa al proposito Michieletto:

Nella mia idea, questo “ballo splendidissimo” è il party conclusivo della campagna elettorale: un momento di esaltazione dell’immagine pubblica di Riccardo, sintetizzato dallo slogan da lui dichiarato nel primo atto (“Incorrotta gloria”).

E nella citata intervista così si era espresso:

La necessità di consenso lo porta (Riccardo) a organizzare un party elettorale che catalizzi su di sè l'attenzione, e una campagna mediatica condotta a colpi di slogan promozionali, che nello spettacolo diventano simboli scenici importanti.

Conclude il nostro, sempre a proposito del ballo:

La solita storia propagandistica: un potere per il popolo, per chi soffre, per chi non riesce ad arrivare alla fine del mese… Quella scritta s’incendia alla fine. L’epitaffio conclusivo “Notte d’orrore” non è solo la sua fine, ma anche la fine della sua immagine, col crollo delle sue sagome, che cadono a terra con lui.

Anche qui purtroppo il nostro inventore di personaggi e di soggetti (inventore è peraltro eccessivo: i mega-poster di contenuto politico li ha già usati tale Vick nel suo recente Macbeth fiorentino…) ha preso un bell’abbaglio. Intanto, il ballo del Governatore (come quello del RE che lo ispirò) non è una manifestazione di parte o di partito (tipo una festa dell’unità sotto elezioni o una convention elettorale americana). Al contrario, è una manifestazione di popolo (cui certo non è estraneo il desiderio dell’autorità di dare lustro alla propria immagine di potere illuminato); anzi, è fatta proprio per il popolo, è un (piccolo o grande) regalo che il Governatore fa ai suoi governati; lui non ha bisogno di essere rieletto, né di raccogliere fondi per la sua campagna elettorale, al contrario spende risorse pubbliche per far contento il popolo intero. E lui parrebbe nemmeno volervi intervenire, al ballo: se lo fa, è per sfidare i presunti congiurati (Renato è il primo ad essere scettico sulla di lui presenza) e per rivedere Amelia, non certo per mettersi in bella mostra davanti ai suoi… sudditi. Insomma: il ballo è una specie di appuntamento tradizionale, sia pure nell’ambito del panem et circenses che caratterizza lo scenario descritto e musicato da Somma&Verdi.

Ma soprattutto il finale di Somma&Verdi è le mille miglia lontano dal proporci il crollo di Riccardo e la fine della sua immagine: è vero esattamente il contrario, my dear Michieletto!  

Sulla personalità di Riccardo così si esprime il regista:

Inoltre è un uomo in conflitto fra il suo essere pubblico e la sua sfera privata. C’è il Riccardo che sta sotto ai riflettori, brillante e sorridente mentre firma autografi e distribuisce strette di mano. Poi c’è il Riccardo che vediamo quando i riflettori sono spenti: la sera arriva per tutti, e Riccardo, spente le luci della ribalta, è un uomo solo; questo il suo dramma di potente. Ama la donna del suo migliore amico, annulla nella risata il suo nervosismo, tradisce un certo forzato esibizionismo, è un narcisista pieno di sé, con tratti infantili.

Mah, qui qualcosa di vero ci può stare, ma il libretto e la musica per la verità ci mostrano un uomo abbastanza genuinamente ottimista, sereno e disincantato; un poco esibizionista forse, ma per nulla nervoso. Di sicuro: nessuno stress da elezioni! Certo: innamorato e, come sempre, l’amore, in specie se è difficile, porta con sé le sue inevitabili pene.

Ecco, fin da qui purtroppo si deve rilevare come il processo tipo1->archetipo->tipo2 operato dal regista sia inficiato da qualche grande o piccola imprecisione, che finisce per rendere abbastanza incoerenti tipo1 (Somma&Verdi) e tipo2 (Michieletto).
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Veniamo ora alla figura di Amelia (e con lei a quella di Renato). Il punto cruciale si tocca nelle scene dell’atto secondo, che hanno suscitato le maggiori e più scomposte reazioni negative di una parte del pubblico della prima.

Intanto: il campo abbominato (quello dei patiboli, nell’originale) e l’erba miracolosa che vi cresce sono evidenti allegorie (anche senza dover scomodare Freud) che ciascuno può interpretare come crede. Allo stesso modo, il vaneggiamento di Amelia - che sente qualcuno piangere davanti a lei - e soprattutto l’apparizione (allo scoccare di mezzanotte) della testa di una delle persone giustiziate in quel campo, potrebbero avere mille significati, tranne però uno solo: essere delle presenze reali, da rappresentarsi con il più crudo verismo.

Tutta la scena dell’arrivo dei congiurati, con le due sorprese (quella di Sam&Tom di trovarsi di fronte Renato e non Riccardo e poi quella generale della rivelazione dell’identità di Amelia) è - parliamoci chiaro - la parte del libretto di Somma tra le più gratuite e le meno plausibili dell’intera opera (anche se ha dato modo a Verdi di comporci una delle più straordinarie pagine di musica). Sarà anche stata voluta così dal librettista (per irridere i carbonari mazziniani, essendo lui un monarchico simpatizzante per la Società Nazionale Italiana) ma è un fatto che sul piano della logica fa acqua da ogni punto la si guardi.

Se immaginiamo che i congiurati si convincano che Renato (e non Riccardo) fosse l’uomo che avevano inseguito, allo scoprire che la donna con lui è Amelia non avrebbero motivo per gridare (o cantare) allo scandalo: poiché sarà pure strano che due coniugi si trovino in piena notte in quel postaccio ma, visto che son lì da soli - del miele sulle rugiade (a) corcar(si) - fino a prova contraria non si vede perché il fatto in sé dovrebbe poi finire sulle prime pagine dei giornali (cosa che invece sarebbe plausibilissima se i congiurati – come è capitato a Renato - avessero colto in flagrante Amelia con Riccardo).

Se invece immaginiamo che i congiurati restino convinti che fino a poco prima lì ci fosse, con Amelia, proprio Riccardo, allora certamente avrebbero motivo per canzonare Renato e per far circolare lo scandalo (avente per oggetto le corna, null’altro, si badi bene) per la città. Ma in cambio non si capirebbe perché si accontentino dello scandalo, invece di inseguire in ogni dove la loro vittima, che non può certo essersi di molto allontanata…

Delle due versioni la seconda è quella diciamo… meno strampalata (e anche più accreditata): vero è che nell’atto terzo Renato non rivela a Sam&Tom la ragione del suo passaggio nelle loro file, ma chiunque sarebbe portato – a quel punto - ad ipotizzare che sia proprio la questione di corna.

Ora, che fa Michieletto? Intanto sposa decisamente una delle due alternative (e fin qui possiamo seguirlo): precisamente la prima, cioè la meno credibile, che comporta che i congiurati si convincano di aver preso un abbaglio, avendo scambiato il segretario per il Governatore. E che si chiedano perplessi cosa ci stessero a fare due coniugi in un posto come quello. Ed ecco che Michieletto pensa di migliorare il libretto mostrandoci una ragione più che plausibile perché si possa da ciò sollevare un grande scandalo, altrimenti davvero miserello e gratuito: siamo in un luogo frequentato da puttane e ai congiurati Amelia si rivela precisamente come una di loro, e il marito come un magnaccia! Ecco come il regista, nell’intento (lodevole?) di chiarire la situazione allo spettatore un po’ interdetto, si inventa la presenza delle prostitute:
 
Quando Renato presume di aver scoperto il tradimento da parte della moglie, ci sono tanto la gelosia e la rabbia per essere stato tradito proprio con un amico, quanto il fatto che i congiurati gli ridano in faccia per la situazione imbarazzante di essere stato scoperto con la consorte di notte in un luogo particolare, in una periferia tra le prostitute. Ecco lo scandalo. Vedrai domani, cantano, “che baccano sul caso strano e che commenti per la città”: finirai sui giornali, sarai sbeffeggiato, la tua immagine è finita. Amelia viene ridicolizzata perché sembra una delle prostitute che erano in quel luogo. Amelia infatti era stata rapinata della pelliccia e, per celare la sua identità, indossa l’impermeabile bianco della prostituta. Che ci stanno a fare lì, si chiedono i congiurati, quei due? Giochetti di scambisti? Una signora inquieta alla ricerca di novità eccitanti?

Qui il problema non è che Michieletto porti in scena delle luride battone (ciascuno di noi può avere la sua idea di come Verdi avrebbe giudicato la cosa) una delle quali rapina Amelia della pelliccia, lasciandole in cambio il suo soprabitino da sgualdrina. No, qui il problema è squisitamente artistico-estetico. Domanda: è il Ballo per caso un’opera verista? Ahinoi e ahilui, Michieletto – almeno per queste scene dell’atto secondo - pare proprio aver risposto di SI (!?) L’errore che il regista ha commesso qui è, per così dire, di aver voluto strafare, inserendo indebite componenti iper-realiste e veriste in una scena che è invece tutta pervasa da introspezione psicologica e da indecifrabile quanto comica ambiguità.

Per dire, un accenno alle prostitute (purchè fatto con… discrezione e senza farle intervenire nell’azione) avrebbe anche potuto indicare il senso di colpa di Amelia, che si sente (almeno spiritualmente) un’adultera; il che da lontano (ma plausibilmente, secondo un’analisi freudiana) potrebbe apparirle come il primo passo verso la prostituzione (ecco come finiscono le adultere, le suggerirebbe il suo subconscio…) Invece Michieletto si immagina una scena perfettamente e compiutamente verista – quindi totalmente estranea alla natura dell’opera – solo per raggiungere uno scopo tutto sommato secondario: spiegarci in modo più convincente di Somma il perché del riferimento allo scandalo fatto dai congiurati.

E senza accorgersi di aprire così un’autentica voragine sulla credibilità delle vicende successive del dramma. Sì perché, oltre ai congiurati, anche Renato non può non sospettare che la moglie fosse lì non per fargli le corna, ma nell’esercizio di un… secondo lavoro! Ma allora, accipicchia, il buon Riccardo non è più il suo cornificatore unico, bensì uno dei tanti utilizzatori finali delle prestazioni di quella troia di sua moglie! E perché quindi dovrebbe essere lui, e non lei, la prima e unica vittima della sua sete di vendetta? Insomma, il resto del Ballo qui va precisamente a… meretrici (smile!)

Il sospetto che tutto ciò sia quindi una premeditata provocazione del regista (perché Michieletto è di sicuro tutto fuorchè scemo) non mi pare proprio campato in aria. E se ne tira dietro un altro: che la frase dell’intervista citata all’inizio non fosse affatto un’invenzione dell’intervistatore…
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Il processo tipo1->archetipo->tipo2 relativo alla maga Ulrica doveva essere facile-facile, datosi che questa è, fra tutte, la figura indubbiamente più semplice da attualizzare: perché, in fondo, è essa stessa già un archetipo! Eppure Michieletto ha voluto anche qui esagerare, trasformando una veggente e lettrice di carte, di tarocchi e mani in una santona guaritrice di paralitici e di affetti da HIV. Roba da circo equestre! 

Quanto alla caratterizzazione di Oscar - cui Michieletto toglie la dignità di travesti, presentandolo proprio come una donna, e pure professionalmente super-attiva e diligente - mi pare che abbia più difetti che pregi: il personaggio finisce col perdere tutta la sua verve da Cherubino; e soprattutto la musica di cui Verdi lo riveste mi pare del tutto incoerente con l’immagine che ce ne dà il regista, della classica segretaria-racchia-tuttofare-innamorata-del-capo. Infine, si tenga presente che l’equivoco sul sesso di Oscar potrebbe essere, nell’originale, un raffinato accenno alle tendenze omosex di Gustavo III, un’allusione che il regista cancella del tutto.     

Bene, fin qui abbiamo fatto a Michieletto l’esame di teoria e – a mio modestissimo parere – il regista di Scorzè non se l’è cavata per nulla bene: dopo aver impostato correttamente il lavoro, ha finito per contravvenire alle sue stesse premesse, con una serie di scelte discutibili e incoerenti con i suoi presupposti e, ciò che più conta, con l’originale.
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Passiamo quindi all’esame di pratica.

La prima parte del primo atto è presentata con grande efficacia, non c’è che dire. Salvo per gli smaccati riferimenti alla campagna elettorale, che fatalmente gettano sull’ambiente di Riccardo una luce, come dire… faziosa: lì non c’è il popolo, cui il Governatore elargisce magnanimi favori, ma soltanto i fan del candidato che devono aiutarlo nella campagna (e magari qualcuno che invece gli vuol fare le scarpe…) Beh, la distanza dall’originale non è proprio da poco, si ammetterà.

La maga Ulrica, nell’originale, è di pelle nera (dell’immondo sangue dei negri scrive Somma, attirandosi sdegnate accuse di razzismo). Perché noi invece vediamo una megera bianchissima e biondissima? Cos’è, una specie di affirmative action alla rovescia? (smile!)

E poi, chi può mai pensare che uno show televisivo americano di un santone-predicatore venga introdotto da una sigla musicale fatta dalle prime 22 battute della scena sesta del primo atto? Sai quanti trafelati zapping di gente con le mani sui coglioni? (stra-smile!)

Qui mi permetto di fare un appunto tecnico a Michieletto: ad uno spettatore che non conosca bene il libretto risulta del tutto incomprensibile la scena in cui Silvano si ritrova… miracolato. Nessuno riesce a distinguere il momento in cui Riccardo (che è circondato da un nugolo di persone, e nemmeno si capisce quando entri in scena) scrive il biglietto da infilare nella tasca della giacca del suo marinaio. E anche poco dopo, quando Amelia è a colloquio con Ulrica, la presenza di parecchie altre comparse oltre a Riccardo fa perdere gran parte dell’efficacia drammatica di quella scena.

Nella scena del campo abbominato Michieletto si presta anche a critiche a buon mercato, del tipo: ma perché Riccardo, arrivato in BMW, non ci carica Amelia e se ne va, invece di scappare a piedi, lasciando lì la sua lussuosa auto e la sua amante in preda a malviventi? Qui ci si inoltra in uno stucchevole ginepraio di ipotesi, del tipo: sulla strada ci sono posti di blocco di congiurati e lui deve scappare a piedi per un sentiero fra roveti e immondizia (lei no, per via dei tacchi-13). Ma allora: possibile che i congiurati non riconoscano poi che quella è l’auto di Riccardo? Fosse così, andrebbe però a… meretrici (smile!) tutto il discorso sullo scandalo Renato-Amelia nella versione così alacremente  e ingegnosamente costruita dal regista. Risposta: sì, possibile, perché si tratta di una delle tante auto-blu della flotta del Governatore, a disposizione di tutto il suo staff… E via inventando un’obiezione e una giustificazione dopo l’altra, mentre la musica di Verdi… se ne va inascoltata!   

Poi, non contento della sua dettagliata spiegazione del libretto, Michieletto ci mostra apertamente il significato dei versi Ve’, se di notte qui colla sposa l’innamorato campion si posa, e come al raggio lunar del miele sulle rugiade corcar si sa! mostrandoci una simulazione di ciò che avviene in quel lurido luogo, mediante alcune effusioni finocchiose di congiurati sulla medesima BMW. Avanspettacolo puro!

L’estrazione del nome dell’assassino di Riccardo è un altro esempio di quel misto di velleitarismo e di ingenuità che caratterizza la messinscena di Michieletto. Sì, d’accordo, sappiamo bene che sono dei bambini ad estrarre le palline dei numeri vincenti del superenalotto e della lotteriaitalia, e di tutte le riffe di questo mondo. Ma qui il miserevole concetto che il regista ci trasmette è che le colpe dei padri (anzi delle madri) ricadono sui figli! Mammamia…

La scena finale, con tutte quelle sagome di Riccardo che mandano i congiurati in confusione, appare assai suggestiva e ben realizzata. L’idea di sdoppiare corpo (morto) e anima di Riccardo, facendone cantare l’anima nell’atto della lettura, da parte di Amelia, del dispaccio del Governatore è assai poetica e interessante. Senonchè lascia l’effetto che delle ultime volontà di Riccardo venga a conoscenza solo la donna, e non l’intero popolo.

Il che è coerente con l’idea portante di Michieletto (il crollo della figura di Riccardo, accompagnato dall’incendio dei poster elettorali) ma stride maledettamente con la musica di Verdi, che è invece un’autentica apoteosi per il Governatore ingiustamente ucciso. Il conclusivo Notte d’orror! non è certamente il pollice-verso del popolo contro il suo capo, al contrario, rappresenta l’esecrazione per un delitto odioso e per la fine immeritata della guida tanto amata (cui si associano, ipocritamente, anche gli stessi congiurati!)  
   
Ecco, anche l’esame di pratica non mi sembra proprio sia stato superato.

Insomma, una regìa che – come altre di Michieletto – parte da lodevoli presupposti, ma poi finisce per smentirli, poco o tanto, lungo la strada. Ecco perché personalmente non mi sento di promuoverla, pur non arrivando a stroncarla a prescindere. È semplicemente un’interpretazione che non arreca alcun valore aggiunto all’originale, ed anzi paradossalmente lo rende più astruso ed incomprensibile per lo spettatore medio.   

Caso mai, direi che il regista ha qui perso l’occasione per fare una bella profezia su qualche membro della… Casa Reale Britannica (stra-smile!!!)
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Adesso basta Scala per un po’ (conveniva forse che chiudesse per ferie dopo il successo del doppio Ring…) e proiettiamoci verso Pesaro (passando, via-radio, per Bayreuth).

2 commenti:

mozart2006 ha detto...

Da Repubblica di giovedì scorso.
Intervistato a proposito del Ballo in Maschera, Lissner sbotta: ” Ma chi contesta, a casa sua veste ancora come ai tempi di Giuseppe Verdi?”

Ma perchè monsieur Lissner, chi approva a casa sua ha l’ arredamento futurista?? (a Napoli si dice: “mettere le pezze a colore”)

Ciao cassamortaro che non sei altro (megasmile!)

daland ha detto...

@mozart2006

Intanto cassamortaro dillo a qualcun altro: io sto arrivando ai 70, mio padre compie fra qualche giorno i 101, ergo sono certo di campare almeno quanto – ma vorrei proprio almeno un giorno in più di - Berlusconi (120 assicurati): cassemorte… mai coverte! Come diceva quel tale? Non son più re, son… michieletto!

Del quale Michieletto a settembre la Scala proporrà – gioco di parole – una scala! Quella delle cucine Scavolini, importata dal ROF con anni di ritardo (ben oltre la scadenza indicata sulla confezione). Essendo una farsa e non un dramma, Michieletto ci si trova splendidamente a suo agio, te lo posso garantire avendone visto l’originale a Pesaro!

Ciao!
Ps: voi “tedeschi”, prima di criticare un baldanzoso giovine del nostro nord-est, dovreste rimandare in DDR (cioè all’aldilà) uno stuolo di loschi figuri da cui il povero nostro figlio è stato plagiato.