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30 marzo, 2025

Una divertente opera seria alla Scala

Splendido debutto scaligero (a distanza di soli… 256 anni dalla nascita!) per L’opera seria di Gassmann-Calzabigi, questo melodramma settecentesco che fa un poco da cerniera fra Gluck e Mozart.

Merito di chi decise di proporcelo (tale Meyer…) e di chi ce lo ha servito in tavola scena come meglio non si potrebbe: la premiata coppia Christophe Rousset / Laurent Pelly.

Dico subito che gli inevitabili tagli alla musica riguardano quasi esclusivamente recitativi secchi, mentre gli accompagnati e le arie/concertati (della serie: prima la musica…) sono sostanzialmente rispettati. Rousset (che ha anche accompagnato al cembalo) coadiuvato dall’Orchestra mista Scala – Les Talents Lyriques (24 + 11 elementi) ha apportato pochi ritocchi alla partitura, come l’anticipo dell’aria di Passagallo (I miei balli son tanti miracoli) all’inizio del terz’atto, trasformando quindi la scena marziale del ritorno di Nasercano in un gustoso balletto da avanspettacolo; ha poi sfrondato il finale delle esternazioni singole dei vari protagonisti, chiudendo con il coro Noi giuriamo.

Pelly, da parte sua, ha proposto scene (di Massimo Troncanetti) piuttosto scarne: il primo atto con un semplice fondale a parete con porte dalle quali entrano ed escono i protagonisti che si aggirano in uno spazio vuoto; nel secondo compaiono anche pareti laterali (sempre con porte) a chiudere la scena della prova dell’opera seria; nell’atto conclusivo la prima parte ad Agra ha un’ambientazione esotica orientaleggiante, con palme, tende e la sagoma di un elefante sul quale entra Rossanara, più pochi orpelli che al momento opportuno crolleranno miseramente, provocando l’interruzione dello spettacolo (il cui fiasco è quindi attribuito a regista e scenografo, più che ad autori e cantanti…)

A sipario chiuso si svolge il cambio scena (accompagnato da suoni di arpa che ricordano quelli degli intervalli RAI anni ‘70, con pecorelle e affini) che ci porta nel retro del teatro, dove ritroviamo solo la parete di fondo con le tre porte dei camerini delle primedonne, dalle quali sortiranno anche le rispettive madri per la caotica scena finale.  

Lionel Hoche anima le coreografie, con partecipazione di ballerini (scena ad Agra) e mimi vestiti come diavolacci neri a rappresentare metaforicamente sciagure, imprevisti e contrattempi che affliggono l’ambiente del teatro, oltre che i militari che arrivano alla fine del second’atto a sedare il tumulto creatosi durante la prova.

I costumi, dello stesso Pelly, sono a loro volta una parodia del ‘700, con abiti tutti di color chiaro e forme esageratamente bizzarre, con pochi elementi atti a distinguere fra loro i vari personaggi. Unica eccezione il povero Fallito, abbigliato come un teatrante di oggi (ma con calzoni alla zuava….) Efficaci le luci di Marco Giusti ad illuminare (o oscurare) le varie scene. 

Quanto alla compagnia di canto, mi sento di accomunare tutti indistintamente in un unico giudizio di piena approvazione. Cosa che ha fatto anche il pubblico (folto all’inizio e poi abbastanza smagritosi – affar loro – nei due intervalli) che, rimasto freddino nel primo atto, ha cominciato ad applaudire le arie nel secondo e più ancora nel terzo. Per poi gratificare tutti di almeno 10 minuti di applausi ed ovazioni alla fine dello spettacolo.

Insomma, una proposta di ottimo livello che dà lustro a questa stagione scaligera di transizione.

 

12 maggio, 2024

È tornato alla Scala il DonPasquale di Livermore

Dopo un gradevole aperitivo beethoveniano con l’Orchestra Giovanile di Milano, eccomi all’affollatissima Scala dove, poco dopo il dittico verista, è andata in scena un’altra ripresa di una recente produzione (2018): il donizettiano DonPasquale ideato da Davide Livermore.

Rispetto al 2018 cambiano: il podio (Evelino Pido’ al posto di Chailly); il Maestro del Coro (Bruno Casoni > Alberto Malazzi) e due dei cinque interpreti: Norina (Rosa Feola > Andrea Carroll) ed Ernesto (Renè Barbera > Lawrence Brownlee). Rimangono impavidi al loro posto e ai loro ruoli il protagonista Ambrogio Maestri, il Dottor Malatesta Mattia Olivieri e il Notaro Andrea Porta.

Ricordo – purtroppo - di non essermi affatto entusiasmato sei anni orsono: uno Chailly piuttosto pesantuccio e un Livermore già allora abbastanza ripetitivo. Le premesse non erano quindi troppo allettanti, ma alla fine devo dire che nel complesso lo spettacolo non mi ha poi totalmente deluso. Certo, l’allestimento dell’ex-tenore piemontese non è che sia invecchiato bene, come un buon dolcetto d’Alba, ma insomma non si è neanche… ehm, maderizzato, ecco!

Parte del merito dell’ampia sufficienza che mi sento di garantire a questa ripresa va alla parte musicale, in particolare agli interpreti. Ambrogio Maestri è ovviamente una sicurezza ed è stato giustamente, e prevedibilmente, il mattatore della serata. Ma anche gli altri tre interpreti principali (più il comprimario Porta) hanno ben meritato: Andrea Carroll da Bethesda ha sfoggiato una vocina pungente e – per me, almeno – adatta al personaggio della Norina, una ragazza un po’ gattina morta e un po’ cinica femminista. Il rotondetto afroamericano Lawrence Brownlee è stato un Ernesto ingenuo e patetico come da copione, e lo ha rivestito dalla sua bella voce acuta e penetrante… rossiniana. Mattia Olivieri a sua volta ha riscosso ampi consensi per la sua prestazione solida e senza sbavature.

Bene anche il coro di Alberto Malazzi, pur nella limitatezza (solo terzo atto) del compito cui è chiamato. Quanto alla direzione/concertazione del navigato Pidò, gli rimprovero qualche eccesso bandistico, per il resto la definirei di onesta routine, ecco.

Tutto sommato, una ripresa che mi sento di giudicare dignitosa, ma non di più.

17 aprile, 2024

Il dittico verista di Martone ripreso alla Scala

Dopo la produzione originale del 2011 (parzialmente ripresa nel 2014, senza Pagliacci e poi nel 2015) la Scala ripropone il classico dittico con la messinscena di Mario Martone e con Giampaolo Bisanti sul podio (calcato ai tempi da un giovine Harding). A differenza di 13 anni fa, la sequenza di presentazione è quella che si può considerare standard: prima Mascagni, poi Leoncavallo.

Liquido subito la regìa, riproponendo per filo e per segno le mie impressioni originali (diciamo… sostanzialmente positive, ma con qualche perplessità, ecco) che questa ripresa non mi ha certo convinto a modificare.  
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Giampaolo Bisanti ha confermato le ottime prove delle sue recenti (22-23) apparizioni in Scala (Adriana, Ballo e Macbeth) guidando con autorevolezza la buca e il palcoscenico: equilibrio nelle dinamiche, attenzione a dettagli, colori e sfumature. Incomprensibile un isolatissimo buh arrivatogli dal loggione all’uscita finale, in mezzo a convinti applausi (di un pubblico non proprio oceanico…)

Sempre sui suoi (alti) livelli il coro di Alberto Malazzi, particolarmente in Mascagni.       

In Cavalleria, detto dell’ennesima, miracolosa prestazione dell’inossidabile nonna Zilio, su tutti la Santuzza di Elīna Garanča, encomiabile nello scolpire questo personaggio di donna alla mercè dei pregiudizi di una società patriarcale (oggi siamo ancora lì?)

IL Turiddu di Brian Jagde ha ben meritato: voce squillante, con buona proiezione, acuti puliti e otttima presenza scenica; per lui un debutto scaligero più che lusinghiero.

Onesta ma non eccezionale invece la prestazione di Francesca Di Sauro, che mi è parso aver messo poca grinta (a dispetto della voce… robusta) nell’interpretare l’enigmatica personalità di Lola.

Alfio era Amartuvshin Enkhbat. Lo avevo sentito solo in Rigoletto e devo confermare il mio giudizio: vocione poderoso ma ancora da mettere bene sotto controllo, ecco. Il giudizio vale anche per il Tonio nei Pagliacci, ovviamente. Il pubblico lo ha comunque accolto con molto calore, il che speriamo lo spinga a migliorarsi ancora.

In Pagliacci metto davanti a tutti il Canio di Fabio Sartori, la cui professionalità garantisce sempre il risultato!  

Irina Lungu ha messo la sua ormai più che ventennale esperienza – voce e presenza scenica - al servizio del controverso personaggio di Nedda: anche per lei solo applausi.

Bene anche Mattia Olivieri, che ha rivestito ll personaggio di Silvio (che Martone trasforma da contadinotto in tamarro…) con la sua calda voce baritonale.

Applausi infine anche per il Peppe di Jinxu Xiahou, che conferma le sue ottime doti, già manifestate nelle sue recenti presenze in Scala.
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In conclusione, una piacevole serata di musica!    
   

23 febbraio, 2020

Il Turco (svizzero) convince Milano


In un Piermarini non proprio stipato (chissà... lo sbifido virus, si son visti spettatori con tanto di mascherina) la prima del Turco in Italia in salsa svizzera (Fasolis) è passata con un franco successo ed ha così rialzato la media della qualità della stagione scaligera, che un Trovatore-così-così aveva un filino abbassato.

Merito della coppia Fasolis-Andò, che ha confezionato uno spettacolo assai godibile e soprattutto ben equilibrato in tutti i reparti: voci, orchestra, coro e messinscena.

A Fasolis mi sento di rimproverare (ma solo nel primo atto) una certa eccessiva sostenutezza di tempi e alcune sbracature bandistiche (copertura di voci inclusa) che sono per fortuna state corrette dopo l’intervallo: la sua è stata comunque una direzione complessivamente apprezzabile, come pure le scelte filologiche del ripristino delle arie di Narciso del primo atto (Un vago sembiante) di Geronio (Atto II, Se ho da dirla) oltre a quella di Fiorilla che segue la cacciata da casa. Condivisibili i numerosi tagli e taglietti ai sempre noiosi (per noi) recitativi secchi.

Andò ha saputo da parte sua trovare il giusto equilibrio fra le componenti buffe e farsesche dell’opera e i risvolti patetici e pure... filosofici del libretto. In particolare è centrata la figura del Poeta, onnipresente in scena ma sempre in balìa degli avvenimenti che si accavallano sotto i suoi occhi. Azzeccata la scelta di far distruggere, nel finale, i fogli del suo lavoro da parte dei protagonisti della vicenda: un modo efficace per mostrare la loro indipendenza dagli stereotipi che il letterato gli ha cucito addosso.
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Bene in generale le voci. Mattia Olivieri è un Prosdocimo autorevole, a dispetto della mancanza, nella sua parte, di vere arie: ma i suoi numerosissimi contributi sono stati esposti con voce solida, senza sbavature, e sempre passante su tutta la tessitura. Stesso discorso per il Selim di Alex Esposito, apprezzatissimo dal pubblico anche per le sue note qualità di attore consumato. Il terzo basso, Giulio Mastrototaro, già buon Sciarrone nella Tosca che ha aperto questa stagione, è stato un po’ la rivelazione della serata, con una maiuscola interpretazione del complesso personaggio di Geronio: che lui ha proposto con proprietà di fraseggio e senza facili e farsesche sbracature da macchietta. Andò lo ha fatto pure cantare in platea (che non è proprio il posto migliore per farsi... sentire) ma lui ha superato brillantemente anche questa difficoltà.

Rosa Feola tornava in Scala dopo l’Elisir dello scorso autunno, ed ha confermato quanto di buono emerso allora: la voce è calda e senza sbavature, gli acuti ben portati; forse le note gravi sono da... rendere più udibili, ma poi anche la sua presenza scenica le ha garantito ampi consensi. La parte di Zaida non è certo proibitiva, ma Laura Verrecchia ce l’ha porta con calore e con quel pizzico di patetismo che ben si addice al personaggio.

I due tenori: Edgardo Rocha (Narciso) si conferma in progresso (lo avevo sentito nel ruolo 5 anni fa a Torino, dove non mi aveva proprio entusiasmato, poi meglio aveva fatto due anni dopo qui in una Gazza ladra): voce sottile, ma che riesce a passare anche in un ambiente come quello del Piermarini. Manuel Amati (Albazar) invece, oltre a voce piccina, fa pure fatica a farla arrivare su in loggione, dove la sua Ah, sarebbe troppo dolce si fatica davvero a udirla come si deve.

Si ode invece benissimo, e fin troppo, il coro di Casoni, che travolge, nei pezzi d’insieme, anche le voci dei protagonisti. Sui suoi livelli l’Orchestra, a parte le citate escandescenze impostele da Fasolis.   
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Roberto Andò - benissimo coadiuvato da Gianni Carluccio per scene-luci e Nanà Cecchi per i costumi - come detto firma una regìa sapiente ed elegante, che il pubblico alla fine ha mostrato di apprezzare assai (che scarto rispetto all’accoglienza riservata al Trovatore di Hermanis!)

La scena è praticamente spoglia, vi trovano posto sporadicamente piccole suppellettili (un divano, un tavolo, sgabelli) tutte rigorosamente dello stesso legno (tinta beige-noisette) del tavolato. Dal quale emergono come dall’aldilà (per poi scomparirvi) attraverso ampie botole i vari personaggi, che altre volte entrano ed escono di scena trascinati da sottili pedane traslanti da sinistra a destra o viceversa. Sul fondo onde di un mare dipinto o una muraglia penetrabile; ai lati e frontalmente scendono e risalgono pannelli raffiguranti interni o esterni di abitazioni; nulla più.

I costumi sono appropriati all’ambientazione dell’opera, tutti assai sgargianti ma raffinati. Le luci ben impiegate, anche a supportare i risvolti psicologici di alcune scene (ad esempio quella del ballo mascherato e del ripudio subito da Fiorilla).

Intelligente e sempre equilibrata la recitazione dei personaggi: niente facili sguaiatezze o cachinni, il tutto sempre mantenuto entro limiti di buongusto, perfettamente appropriati al soggetto agrodolce dell’opera.
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I definitiva, una proposta che si è meritata i lunghi applausi e le ripetute chiamate che il pubblico ha riservato a ciascuno e a tutti. Tre ore ben spese, se non altro per esorcizzare la psicosi della quarantena (!)

Adesso però mi preparo partire per Roma, dove mi aspetta un Onegin dal quale mi... aspetto molto.