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29 gennaio, 2023

La Scala celebra i Vespri d’oggi.

Tornano alla Scala dopo più di 30 anni i Vespri… modernizzati. Nel senso che il soggetto messo in scena (oggi dal visionario Hugo De Ana) è un’attualizzazione plausibile – a livello concettuale – del testo originale di Scribe con la conseguente musica del Giuseppe.

Cioè ci vediamo due ben distinte parti in causa: un regime invasore/oppressore (rappresentato da tale Monforte) e un popolo ribelle/resistente (guidato da tale Procida). Quindi, per stare alle più attuali delle attualità: Russia-Ukraina, oppure Ayatollah-popolo, o anche Turchia-Kurdi, Talebani-popolo e così via elencando piacevolezze simili disseminate sull’intero pianeta. Pertanto nessuno si scandalizzi se in scena si vedono i Leopard e le squadre speciali antisommossa: mutatis-mutandis, è sempre l’eterno scenario che si ripete, nel 2023 come 741 anni addietro.

Nulla a che vedere perciò – tanto per citare un clamoroso caso contrario, cioè di assoluta inconsistenza fra l’attualizzazione registica e il soggetto originale – con la visione lunatica presentataci da Livermore a Torino nel 2011 in occasione del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia.

Tuttavia il regista argentino si è beccato una nutrita salva di buh all’uscita finale, il che dimostra che il non stravolgimento dei contenuti del soggetto originale non sia condizione sufficiente a garantire il successo della messinscena.

Di cui probabilmente il pubblico (e il sottoscritto fra questi) non ha gradito l’eccessiva insistenza sugli aspetti crudi, cruenti e nichilisti della repressione e delle umiliazioni che il potere infligge al popolo vessato. Insomma, nel Vespri di Scribe-Verdi ci sono anche squarci di luce e di serenità, che sono dal regista totalmente ignorati. Quindi: cannoni e tank fin dall’inizio, poi scene di continua desolazione: Procida approda sui resti di una battaglia, non in una ridente valle, con colline fiorite di cedri e aranci; sulle note della barcarola vediamo (in luogo di donne adagiate su molli cuscini sul battello) donne a terra prive di sensi (forse stuprate dai biechi invasori?); e il carcere dell’atto IV nulla ha da invidiare a Guantanamo

E sempre incombe in scena la morte: quella del Settimo sigillo! Che fin dall’inizio gioca a scacchi con il soldato crociato: ??? Si, vabbe’, Federico II era stato alla quinta crociata 60 anni prima del Vespri… o il regista aveva in mente qualche altro nesso con il soggetto da rappresentare?

Ecco, a questo punto si può inserire il discorso sui balletti. A parte quella sulla lingua (in Italia ormai è raro - e forse avrebbe poco senso - dare l’opera in quella originale francese) la domanda che sempre ci si pone di fronte all’annuncio della messa in scena di Vespri è proprio questa: ma i balletti? Ebbene, proprio nella precedente comparsa al Piermarini (Muti, 1989, con Pizzi) vennero tutti eseguiti, mentre oggi si è deciso per il no. Quindi: niente Quattro Stagioni (Atto III, Scena V) e niente Sposalizio (Atto V, Scena I).  Resta un minimo di coreografia per la sola Scena VI dell’Atto II, il ratto delle siciliane da parte della soldataglia francese aizzata da Procida.

Di sicuro c’è che, con la regìa di De Ana, le danze (35 minuti di grande musica!) ci sarebbero state come i cavoli a merenda, quindi viene spontanea la domanda sul nesso causa-effetto fra messinscena e balletti: è la rinuncia preventiva del Teatro a presentarli (causa) ad avere consentito a De Ana questa messinscena (effetto) o è l’impostazione registica (causa) che ha imposto al Teatro di rinunciare ai balletti (effetto)? Si accettano scommesse in merito…
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Molto meglio le cose sono andate per fortuna sul piano musicale, grazie alla perizia del concertatore: Fabio Luisi ha dato, fin dall’impeccabile esecuzione della grande Sinfonia, una lettura convincente della partitura verdiana, cogliendone sia la tinta generale che i minimi dettagli e sfumature. Massima precisione nel gestire il palco, con attacchi a voci e coro sempre precisi e con dosaggi delle dinamiche che mai hanno penalizzato le voci.

Dati i giusti meriti, ma è quasi scontato, al Coro di Malazzi, va elogiato in blocco il cast delle voci: a cominciare da quelle dei due personaggi rappresentativi delle due parti in causa: Luca Micheletti, un Monforte di grande spessore, nei suoi atteggiamenti da dittatore come in quelli del padre che inopinatamente ritrova il figlio perduto; e Simon Lim (cresciuto in passato all’Accademia scaligera) che è stato un Procida tanto più meritevole in quanto arrivato sulla scena quasi all’ultimo momento.

Piero Pretti è un convincente Arrigo, voce squillante, acuti ben tenuti ed efficace resa di questo tormentato personaggio, vittima del… destino cinico e baro.

Vengo ora alla Elena di Marina Rebeka: tutto bene per lei fino alla seconda scena dall’atto IV (il duetto con Arrigo, dopo la scoperta dell’identità dell’amato, al termine del quale ha avuto un meritato applauso a scena aperta). Poi il patatrac: alla fine della Siciliana (che poi sarebbe una… Polacca) dell’atto conclusivo, una sonora salva di buh dal secondo loggione si è mescolata ai prevalenti applausi del resto del pubblico! Per me, davvero incomprensibile. E le contestazioni, più o meno isolate, sono poi proseguite alle diverse uscite finali. Mah…

Bene tutte le altre voci maschili (bassi e tenori) che hanno dignitosamente e meritoriamente dato il loro contributo al successo della parte musicale dello spettacolo.

30 marzo, 2011

Ultimi Vespri al Regio di Torino

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Se ne riparlerà nel 2061. Chissà se il signore qui sopra sarà ancora lì ad accogliere gli spettatori dei Vespri del 200°. O se invece a quel tempo sarà in atto – a Torino - un nuovo, vero vespro, protagonista una popolazione a maggioranza islamica in rivolta contro l'occupante cinese. Una cosa è certa: io non sarò là a godermi né l'uno, né l'altro spettacolo…

Coccarde, bandierine, siparioni tricolori, inno nazionale cantato dal pubblico con la mano sul cuore… e soprattutto lezioni di italianità e di impegno civile impartite dal marketing del 150°. Tutto in smobilitazione, compreso l'allestimento che, fuori dal brodo retorico delle celebrazioni in cui era stato concepito, e dall'atmosfera patriottarda della diretta-TV (a proposito di TV-spazzatura, smile!) appare oggi ancor più insensato e offensivo. Chissà come lo prenderanno ad Oslo, o se a Lisbona Livermore metterà in scena la Giovanna de Guzman ambientandola ai tempi di Salazar (ri-smile!) Intanto qui pare non l'abbiano presa troppo bene, a giudicare dalla netta maggioranza (70-30) dei commenti pubblicati sul sito del Teatro. Peccato davvero perché si lascia una macchia sul lodevole impegno di un'Istituzione che oggi come oggi è la migliore in Italia (ah oui, monsieur Lissner) dal punto di vista del livello complessivo della gestione.

Ma mettiamoci sopra una pietra e abbassiamo le palpebre: in teatro si è tornati a suonare e cantare – ieri per l'ultima volta nella stagione – I Vespri di Verdi. Opera difficile, controversa, incompresa, equivocata e tradita fin dal suo nascere (e per mano nientemeno che del suo Autore!) Opera francese, per genere, libretto e produzione. Composta da un non-francese, come innumerevoli altre da rappresentarsi nel tempio parigino. Grand Opéra, appunto, e non solo per i 30 minuti di balletto rigorosamente collocati, come da regolamento, nel terzo atto (mica nel primo, come fece quel villanzone presuntuoso di Wagner, giustamente ricompensatone con il licenziamento in tronco).

Opera in seguito stravolta, per poter transitare indenne dalle dogane di casa nostra: quelle amministrativo-censorie (altro titolo, altra ambientazione) e quelle estetiche (via i balli, e non certo per penuria di ballerine, ma di autarchici Jockey Club, smile!) Però Verdi è Verdi, anche quando tradisce le proprie creature, trasformando un Grand Opéra in un Ernani (non dico in un Trovatore, ma poco ci manca). E possiamo ancora godercelo – qui a Torino ad occhi rigorosamente chiusi - se chi dirige, suona e canta lo fa come hanno saputo fare Noseda, l'orchestra, il coro e i cantanti, ancora ieri sera.

Il mio concittadino Kapellmeister non si è smentito ed ha padroneggiato alla grande una partitura ostica e, come detto, di non facile approccio, stanti le sue origini e vicissitudini: salvo che nella sinfonia (un gioiellino di per suo conto, dove sono giustificate) non si sono sentite enfasi o esplosioni bandistiche (più adatte ai Vêpres che ai Vespri) mentre sono uscite al meglio (grazie anche agli interpreti) tutte le innumerevoli sfaccettature psicologiche e i caratteri dei diversi personaggi. Orchestra con grande equilibrio fra le sezioni; strumentini su tutti, se proprio devo dare un premio speciale: come non ricordarli nello strepitoso coro del finale terzo! A proposito del quale, il minimo che può capitare è che ne esca uno sguaiato berciare di alpini al termine di una delle loro enologiche feste: qui invece, una cosa proprio grandiosa, ma dal puro lato estetico.

Il forfait della Radvanovsky dopo la sola prima ha caricato sulle spalle di Maria Agresta tutte (meno una) le restanti recite di Elena. A volte sono colpi del caso come questo che fanno la fortuna di un cantante. Ma bisogna anche e soprattutto essere dotati e bravi, per poter cogliere la palla al balzo. E la ragazzona ha confermato di avere doti naturali e bravura acquisita evidentemente in anni di duro studio. La sua provenienza dalla categoria mezzo le dà (pare a me) quella solidità e robustezza di impianto necessaria a ruoli come questo. Brava anche nel far trascolorare col canto la sua personalità, da nobile gelida e vendicativa, a donna sinceramente (ma non per Livermore) innamorata. Un paio di urletti non bastano a scalfire la sua prova.

Di Gregory Kunde si è giustamente scritto che non ha l'età (non solo anagrafica) per il ruolo di Arrigo. In compenso ha esperienza da vendere, e soprattutto deve sapere perfettamente come amministrare le proprie risorse per arrivare in fondo senza farsi massacrare da una parte davvero micidiale. Il tocco del RE acuto in falsettino in chiusura dell'incontro con Elena nell'ultimo atto è solo la simpatica ciliegina su una torta assai ben cucinata.

Il cattivone-paterno Monforte di Franco Vassallo è stato (forse) l'unico della compagnia ad essere piuttosto bistrattato dalla critica nei giorni scorsi. Dico però che il mio palato lo ha sopportato senza reazioni di rigetto, quindi non gli darò di certo l'insufficienza (né l'ha data il pubblico, anzi!) anche se non ci ha risparmiato qualche bercio da osteria. Bravo lui, con Kunde, nel duetto del terzo atto.

Ildar Abdrazakov impersonava il patriota-terrorista Procida. Voce sontuosa e piglio da vero brigatista pronto a tutto, fin troppo (smile!) Alla fine il trionfatore è stato proprio lui.

Tutti gli altri (Russo, Ferrari, Lanza, Stier, Olivieri, Mease Carico, Aimé) meritevoli di stima e approvazione. Claudio Fenoglio è ormai una certezza come conduttore dello splendido Coro.

Bene, qui chiudo la mia personale stagione 10-11 al Regio: Boris, Parsifal, Vespri. Dimenticando Livermore e qualche velleità russa di troppo, un tris da leccarsi i baffi!

20 marzo, 2011

Ancora sui Vespri del Regio di Torino


Anche senza aver assistito dal vivo (cosa che farò prossimamente) provo a buttar giù alcune considerazioni sulla produzione dei Vespri del Regio di Torino, la cui seconda – alla presenza del Presidente Napolitano - è stata trasmessa lo scorso venerdì da RAI-Storia (e Radio3).

Siamo in tempi di celebrazioni, ed è più che giusto che anche il teatro musicale dia il suo contributo alla bisogna, essendo stato a suo modo protagonista delle vicende che si commemorano. C'è caso mai da lamentare che solo due teatri – per quanto importanti (Roma e Torino) - se ne siano ricordati e che si siano ricordati solo di Verdi.

Subito una domanda: la celebrazione si serve presentando l'opera originale e ricordandone – a margine – il ruolo di stimolo che ebbe a suo tempo sulle coscienze personali e collettive, oppure la si serve forzando dentro l'opera originale contenuti estranei, sia pur vagamente legati ai fatti storici che si commemorano, o a scenari di attualità su cui si desidera attirare l'attenzione e stimolare la riflessione del pubblico?

A Roma si è seguita la prima strada: rappresentazione asettica (avrebbe potuto essere benissimo in forma di concerto, e poco sarebbe cambiato) del Nabucco. Scelta assolutamente corretta nel titolo: Nabucco, pur trattando fatti storici del tutto estranei al Risorgimento, era però immediatamente assurta a simbolo dello stesso, issata dagli italiani del tempo come vessillo dell'idea di liberazione e di unità della Patria sì bella e perduta. E oggi la possiamo ascoltare chiedendole di far rivivere anche in noi quei sentimenti di indipendenza e di unità che i nostri antenati provavano ascoltandola quasi 170 anni or sono. Ma senza bisogno di mostrare Zaccaria, Ismaele e Fenena ammantati di tricolore, né sostituendo la Tavola della Legge, recata dal Levita, con il testo della Costituzione Italiana.

A Torino si è scelta l'altra strada. Si è presa un'opera oltretutto nata fuori dall'Italia e che con il Risorgimento poco o nulla ebbe a che fare, e la si è violentata per infarcirvi riferimenti all'attualità (nemmeno al Risorgimento). Scelta assai discutibile, pericolosa e potenzialmente devastante, principalmente sul piano artistico. Perché, se si intende o pretende di caricare su un'opera d'arte anche obiettivi e contenuti educativi, allora si sa dove si comincia… ma non dove si va a finire. Sappiamo - o dovremmo sapere - che la vicenda dei Vespri con il Risorgimento c'entra come i cavoli a merenda. Perciò, proprio una celebrazione come questa avrebbe dovuto essere l'occasione buona per fare finalmente piazza pulita – tanto sul piano storico come su quello artistico – di tutte le scorie di retorica pseudo-risorgimentale che si sono accumulate su di essa. Sarebbe stata davvero un'operazione di educazione civica, oltre che culturale. Invece, si è aggiunta nuova cartapesta e pericolosa retorica a quanta già sfornata nel passato.

Primo: proporre paralleli fra lo scenario della Sicilia del '200 e quello dell'Italia di metà '800 (e, peggio, con quello di oggi, come accade a Torino) è semplicemente assurdo, quindi altamente diseducativo. La Sicilia di fine medioevo era un crogiolo di etnie e di civiltà che si erano via-via stratificate nei secoli, a fronte di perenni invasioni e conquiste: greci, fenici, romani, goti, islamici, normanni, svevi e – al tempo dei Vespri – angioini. I Vespri furono una rivolta - come ce ne sono mille al mondo, e non per questo sono tutti risorgimenti - di gente semplicemente esasperata dal vessatorio dominio dell'ennesimo padrone straniero (Angiò, imposto dal Papa). In luogo del quale – manovrando e cavalcando opportunisticamente le sommosse succedutesi a quella di Palermo - i baroni siculi guidati da Procida intendevano ripristinare un altro tutore straniero: il ghibellino svevo, che era molto amato, magari a buona ragione, in Sicilia (ma abbastanza odiato da altre parti, e non solo dai guelfi, e massimamente al Nord, visto che aveva vendicato il Barbarossa, catturando il Carroccio; per di più il suo regime – pur caratterizzato da mecenatismo e cultura - era stato di quelli più accentratori, autoritari e antidemocratici che si possa immaginare). In subordine, tanto per migliorare le cose, i notabili siculi erano pronti ad accogliere a braccia aperte il suo parente spagnolo.

Cosa abbia tutto ciò a che fare con un movimento genuinamente patriottico, indipendentista e unitario, fondato su basi ideali e sullo sviluppo di un pensiero filosofico, politico e culturale come quello che animò la prima metà dell'800 italiano, è davvero un mistero. Meno ancora ha a che fare con i problemi della nostra contemporanea società, che soffre di malattie sociali allora del tutto sconosciute. Se poi consideriamo gli sbocchi che i Vespri ebbero nei decenni successivi (la progressiva decadenza della Sicilia) ne abbiamo abbastanza per capire che quello fu tutto tranne che un bell'esempio di rivendicazione di autonomia e indipendenza, men che meno di unità o di democrazia.

Secondo: il Verdi che affrontò l'impresa Vêpres nemmeno lontanamente pensava di farne uno strumento di propaganda risorgimentale: a lui premeva – e come dargli torto – di entrare con successo all'Opéra di Parigi, e il soggetto non fu di certo una sua scelta, ma gli fu sottoposto-imposto da Scribe&C, delegati dall'Opéra medesima alla bisogna. E nel libretto di Scribe, di patriottismo ce n'è assai poco: c'è un miscuglio di interessi o rivincite personali (Procida, Elena), ci sono crisi di identità (Arrigo, che scopertosi mezzo-galletto, smette di fare l'irredentista e poi Elena, che scopertasi innamorata di un mezzo-francese, dimentica le sue vendette anti-francesi) e c'è la tracotanza del tiranno (Monforte) mitigata però dall'amor paterno per il figlio mezzo-siculo (è un caso che il tema più famoso dell'opera sia proprio quello cantato insieme da padre e figlio, che assommano ad un totale di 3/4 di sangue francese?)

E poi: Monforte non risparmia per caso la vita, e per ben due volte, a Procida? Ed Elena – dopo averlo maledetto come assassino del fratello - non accetta di buon grado la sua protezione, a ciò consigliata dal machiavellico e assai poco patriottico salernitano? Addirittura, nella versione originale francese, Elena alla fine si oppone a Procida, che la fa massacrare insieme a tutti gli altri, gridando ai quattro venti la sua vera natura: Frappez-les tous! Que vous importe? Français ou bien Siciliens, Frappez toujours! Dieu choisira les siens! Insomma, Scribe mise furbescamente insieme un minestrone cerchiobottista, che sembra fatto apposta per evitare usi irredentisti in Italia e rimostranze scioviniste in Francia. E Verdi mostrò quanto nullo fosse il suo interesse per gli aspetti patriottici dell'opera allorquando – pur di farla a tutti i costi rappresentare in Italia – suggerì lui stesso di ri-ambientarla in Portogallo! Solo dopo la proclamazione del Regno d'Italia, quindi a Risorgimento concluso, l'opera verrà stampata con titolo e testo italiani, ed entrerà faticosamente nel repertorio.

Quindi – sembra paradossale, ma è così - fu il Risorgimento ad aiutare i Vespri verdiani, e non viceversa!

In conclusione, il fatto che nell'800 i Vespri (storici) siano stati contrabbandati come proto-Risorgimento (dalle opere di Amari, al famoso quadro di Hayez, al richiamo nell'Inno di Mameli) e che nel passato, recente e non, i Vespri (opera) siano stati ambientati nell'800 risorgimentale, con tanto di tricolori sventolanti, non trasforma merce di contrabbando in prodotti genuini.

È poi assolutamente falso sostenere che con i Vespri Verdi avesse in mente di stimolare l'amor patrio, o l'impegno civile, degli italiani. E purtroppo queste sono invece le parole d'ordine che sono risuonate in modo martellante attorno a questa produzione dei Vespri, e si sono materializzate in un allestimento volgarmente ed incoerentemente ideologizzato, oltre che stravolgente dell'originale.

Intendiamoci: trasferire l'ambientazione in luoghi e tempi diversi rispetto al libretto non è né un peccato, né tanto meno una novità; e può avere risultati entusiasmanti o merdosi. Come sempre, it depends (così dicono dalle mie parti, su nelle valli bresciane). Da che cosa? Intanto dall'atteggiamento e dalle aspettative (influenzati dal grado di sensibilità e di preparazione) dello spettatore-ascoltatore. Chi ignora i contenuti (soprattutto) estetici dell'opera e va a teatro (o guarda in TV) con atteggiamento passivo, può benissimo accettare e gradire anche allestimenti che snaturano del tutto l'originale (e i suoi contenuti estetici): ha assistito – senza rendersene conto – alla rappresentazione di un maldestro surrogato, o ad una parodia (o, ancor peggio, ad una supposta commemorazione) ma l'ha trovata interessante e applaude convinto. Beato lui, che ha goduto. Ma l'operazione è quanto di più diseducativo si possa immaginare.

Viceversa chi ha un minimo di conoscenza dell'opera originale, e va a teatro per godersi quella, e non per celebrare ricorrenze, per quanto importanti, né tantomeno per prendere improbabili lezioni di patriottismo o di educazione civica, tenderà naturalmente a giudicare ciò che gli viene propinato rispetto a parametri e criteri di valutazione ben precisi, il primo dei quali è la coerenza fra ciò che si vede e ciò che si sente. Sì, perché è questo l'elemento fondante del teatro musicale, e il pregio e il livello artistico-estetico di un'opera sono direttamente proporzionali al grado di coerenza fra immagine, testo e musica. Così come risulterebbe inaccettabile - perché assurdo ed esteticamente nullo - l'accompagnare un testo che esprime euforia con una musica che alle nostre orecchie esprime dolore, e viceversa (salvo casi eccezionali, non infrequenti in Wagner, per dire, in cui si debba esprimere un'evidente dissociazione psicologica) è altrettanto inaccettabile che ciò che viene mostrato in scena contraddica palesemente, e proprio sul piano artistico ed estetico, ciò che si ascolta, testo e musica. Per questo tipo di spettatore (che magari è minoranza, purtroppo) la semplice genialità del regista (o meglio, del suo Konzept) è condizione forse necessaria, ma di sicuro non sufficiente alla riuscita dell'operazione, se non si accompagna con il rispetto della coerenza di cui sopra.

Artefice di questo mistificatorio allestimento è Davide Livermore, un regista che applica – vantandosi pubblicamente, per di più, di agire nel pieno rispetto della partitura – l'odiosa metodologia del Regietheater più bieco: inventare un proprio Konzept (in questo caso un classico cliché ideologico marxista-leninista in salsa socialdemocratica: la condanna dei mali dello stato borghese e il richiamo a superiori ideali di giustizia) per poi adattargli attorno il capolavoro da rappresentare. E chissenefrega se quel capolavoro tratta di tutt'altro: per il regista è solo un volgare strumento di promozione del suo messaggio (in questo caso, ideologico) e al servizio di questo viene piegato in tutti i modi. E ha anche la faccia tosta di sentenziare, il regista: Qui si fa arte, non politica… Arte? Di sicuro, Zdanov approverebbe.

Ma adesso entro nel merito. Cominciando dallo scenario generale, per poi esaminare qualche dettaglio.

Ciò che è scritto nel libretto di Scribe musicato da Verdi (sì, la partitura, caro Livermore) e ciò che sentiamo cantare – parole e musica – sul palco, è uno scenario così articolato: c'è una contrapposizione fra due (non tre, teniamolo subito presente, questo particolare) protagonisti di massa, 1. i francesi occupanti da una parte e 2. i siciliani oppressi e vessati, dall'altra. All'interno di questo macro-scenario - e sullo sfondo di piccole manifestazioni di insofferenza verso i francesi da parte del popolo vessato - si muovono i quattro protagonisti principali: il tiranno Monforte e i tre presunti irredentisti (Elena, Arrigo e Procida, in ordine di apparizione) che ne progettano la morte. Uno solo di questi quattro (Procida) si manterrà ostinatamente e pervicacemente fermo nel suo disegno (ammazzare Monforte per far sollevare i siciliani) mentre gli altri tre vivranno laceranti vicende esistenziali, stupendamente musicate da Verdi, determinate dalla rivelazione e dall'insorgere di affetti personali (Monforte che scopre di essere padre di Arrigo; Arrigo che si scopre mezzo-francese e opera contro Procida, vanificandone gli attentati al padre; Elena che dimentica il suo odio per Monforte e la sua sete di vendetta dopo essersi innamorata di Arrigo ed avere scoperto poi la verità sulla sua identità).

Ora, nel Konzept di Livermore lo scenario generale è la Sicilia di oggi (da 150 anni parte dello Stato italiano) dove si muovono – questa è cronaca di tutti i giorni – non due, ma tre macro-protagonisti: 1. lo Stato italiano (con le relative Forze dell'ordine e i liberi, sulla carta, organi di informazione mediatica); 2. il Popolo siciliano, desideroso di pace, prosperità e giustizia dentro (non contro) lo Stato italiano; e 3. la mafia, il cancro anti-stato che ne corrompe il tessuto sociale.

Ohibò, gia qui ci sarebbe da rinunciare all'impiego dei Vespri, per supportare il Konzept, poiché sappiamo che l'opera originale ci presenta solo due macro-protagonisti, e non tre. Ma Livermore non si perde d'animo, lui ha inventato il suo straordinario Konzept e chissenefrega se l'originale di Verdi non lo supporta? Elementare, Watson! Si piega l'originale alle esigenze maieutiche del regista. Strepitoso, bravo, bene, bis!

Quindi adesso sappiamo che Livermore ha un problema: come rappresentare i suoi tre macro-protagonisti, visto che Scribe-Verdi ne forniscono solo due? Semplice, si assegnano due ruoli (lo Stato italiano e la mafia!) ad uno stesso protagonista (Monforte e i suoi sgherri). Magari facendogli indossare e togliere una maschera di gomma, quasi che Stato italiano e mafia fossero lo stesso soggetto, che di volta in volta si traveste (!?)

Ce n'è già abbastanza per prendere Livermore per pazzo, ma vediamo i dettagli.

Cominciamo dal primo atto, dove Elena canta il suo dolore privato per il fratello, giustiziato dagli odiati francesi. Ma cu fu, costui? Fu tale Federico d'Austria (amico e sodale dello svevo Corradino) uno che la Sicilia manco la vide in fotografia (smile!) dato che fu decapitato insieme allo stesso Corradino (non a Palermo, ma a Napoli, dai francesi) mentre era in viaggio verso l'isola. Mi dite voi che cazzo ha a che fare con Vito Schifani, il caposcorta di Falcone, siciliano d.o.c. e martire dello Stato italiano? Elena, irrisa dai gendarmi francesi, canta (la partitura di Verdi) un invito ai siciliani per riprendere in mano le loro sorti, e ciò fa nascere una mezza sommossa contro gli occupanti francesi. Ora, cosa vediamo noi in scena e in TV? La vedova di Schifani che si scaglia contro la mafia; e la polizia di Palermo, Italia, che tiene a bada una folla inferocita. Ma allora chi si sta fronteggiando qui? Il popolo italiano e la Polizia dello Stato italiano. Quindi, lo Stato italiano sarebbe l'occupante straniero? Mandante ed esecutore dell'ammazzamento del fratello di Elena? Del quale adesso si fa però il funerale di Stato? Dove interviene Monforte nei panni di un alto funzionario dello Stato italiano… Monforte che invece nell'opera di Verdi rappresenta il tiranno francese occupante!?

Ecco a dove porta l'idea scellerata di Livermore di usare i Vespri per presentarci la sua brillante lezioncina di educazione civica. Ma ci si rende conto dell'assurdità di tutto ciò?

E come nulla fosse noi vedremo – perché questo è ciò che sta scritto sul libretto, e fu musicato da Verdi, e viene cantato in scena – che Elena si innamorerà di un rivoluzionario siciliano, al quale affiderà la sua vendetta contro gli uccisori del fratello. Ma quel giovane si scoprirà figlio illegittimo dell'occupante francese (ma qui è lo Stato italiano, o la mafia, vero Livermore?) e di conseguenza smetterà di fare il rivoluzionario, anzi salverà il padre dai complotti di Elena&C. Dopodichè Elena per amor suo abbandonerà il popolo e passerà con gli occupanti (lo Stato italiano, o la mafia?) Ma che figura ci fa adesso la vedova di Schifani? Roba da chiodi, anzi da denuncia per diffamazione!

Passiamo al secondo atto: Procida arriva sull'isola e canta la sua nobile O tu, Palermo, terra adorata. Cosa ci indica il libretto, ad ambientazione di questa accorata e dolcissima perorazione? Le coste palermitane, circondate da colline fiorite e sparse di cedri e d'aranci. E Verdi splendidamente esprime i sentimenti che quella vista suscita, con una musica in uno struggente SOLb maggiore, che sembra precisamente emanare profumo di zagara. Ora domandiamoci: se il libretto, puta caso, avesse invece previsto una scena ingombra di patiboli e ceppi, disseminata di teste siciliane mozzate dai francesi del bieco Monforte, Verdi secondo voi ci avrebbe scritto sopra quell'aria sbudellante, tutta inghirlandata di arabeschi dei flauti?

Orbene, cosa ci mostra appunto la disgraziata ambientazione di Livermore? L'autostrada e le auto sventrate dall'attentato di Capaci! Ma ce la vedete, anzi sentite, questa musica a fare da colonna sonora alle immagini – e agli odori - di una strage?

Ma torniamo ai fatti. Siamo quindi in presenza della strage mafiosa più terribile della nostra storia recente. Ma Livermore non può farci capire chi sono i responsabili, perché è a corto di personaggi. O meglio: stando a ciò che sentiamo, Procida canta il suo desiderio di vendetta contro gli occupanti francesi e, insieme ad Elena e Arrigo, pianifica l'attentato contro il loro capo, Monforte, ritenuto responsabile dell'assassinio del fratello di Elena (quindi della strage di Capaci?) Ma il Monforte che vediamo (quello di Livermore) è un alto funzionario dello Stato italiano (o è invece un capocosca mafioso? o entrambe le cose insieme? fa lo stesso?) Quindi Procida con chi ce l'ha? Il personaggio storico fu un illustre medico, e anche diplomatico, che si adoperò in tutti i modi per contrastare gli angioini. In favore dell'indipendenza della Sicilia? Ma manco per niente: per cercare di imporre il ritorno dei suoi protettori-clienti Hohenstaufen. Per Scribe e Verdi è un cospiratore di pochi scrupoli, che ha come unico obiettivo ammazzare Monforte. Ma con Livermore ancora non capiamo se Procida sia un irredentista, un brigatista, o un mafioso di una cosca nemica di quella che ha cacciato i suoi compari (che però non sappiamo distinguere dallo Stato italiano, perché in scena c'è solo Monforte, vero Livermore?)

Chi ci capisce qualcosa?

Il terzo atto ci mostra la rivelazione di Monforte ad Arrigo, che subito cambia atteggiamento e, in luogo di ammazzare il padre tiranno, lo salva dall'attentato di Elena e Procida, che vengono imprigionati. Che dobbiamo pensare, caro Livermore? Che anche Arrigo è un picciotto? O si è scoperto figlio del capo della Polizia italiana? Ce lo vorresti spiegare, di grazia?

Nel quarto atto Arrigo si rivela (per figlio di Monforte) ad Elena. E qui la donna cambia a sua volta campo, passando da quello del popolo italiano a… chi? Lo Stato italiano, o la cosca di Monforte-Arrigo? Chiedere a Livermore, prego.

Nel quinto e ultimo atto assistiamo al tira-molla (matrimonio sì, matrimonio no) fra Elena e Arrigo, con Procida che ha predisposto tutto per la sommossa che dovrà far secchi Monforte e tutti quanti, francesi e collaborazionisti siculi. E quando il matrimonio avviene e suona la campana noi sentiamo, ma proprio bene, il popolo siciliano che si appresta a massacrare i francesi cantando a squarciagola:

Vendetta! vendetta!
Ci guidi il furor!
Già l'odio ne affretta
Le stragi e l'orror!
Vendetta, vendetta
È l'urlo del cor!

Vendetta, vendetta, vendetta!


Ora, il nostro maestro Livermore, poveraccio, si è preso sulle spalle il pesante fardello di educare gli italiani alla giustizia, alla democrazia e alla non-violenza. Quindi, mica ci può far vedere il massacro, che è una delle pochissime verità (storiche e… operistiche) dei Vespri. Perciò, dopo aver già rovinato tutto il resto, si copre con l'iride della pace e manda all'aria anche il finale di Verdi. Mostrandoci il Parlamento (italiano, o regionale, di oggi) dove tutti – occupanti francesi, o mafiosi? e italiani per bene? – si purificano sotto l'Art.1 della Costituzione.

Demenziale. Insomma, l'allestimento di questi Vespri torinesi pare a me una indegna operazione di marketing per il 150°, diseducativa e volgare. Non lamentiamoci poi se i nostri giovani non prendono a cuore il rispetto e il ricordo delle nostre radici, da un lato, e snobbano sempre di più il teatro musicale, dall'altro. E spiace che il Presidente si sia – involontariamente, di certo – prestato per dare lustro a questa pagliacciata.
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19 marzo, 2011

I Vespri Siciliani secondo il dottor Stranamore



1. La Polizia italiana è una forza straniera di occupazione.

2. La strage di Capaci fu opera della Polizia italiana.

3. La vedova del caposcorta di Falcone si è invaghita di un figlio illegittimo di Provenzano.

4. L'attuale Parlamento Italiano è incostituzionale.


Beh, come lezioncina per il 150° non è davvero male.

Post-scriptum: la conduttrice di RAI-Storia ci ha informato che l'autore del libretto è tale Victorien Sardou.
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