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27 febbraio, 2012

Così fan tutti… i Michieletto


Una Fenice affollata ospita la conclusione della trilogia Mozart-michielettiana, con Così fan tutte.

No so come fosse in DonGiovanni (da me trascurato in favore di quello scaligero) ma di certo Damiano Michieletto nelle Nozze aveva proprio indossato i panni del dr.Jekyll, stimabile e serio professionista.

Per quest'ultima fatica mozartiana sembrava avviato sulla stessa (buona) strada: ambientazione moderna, ma perfettamente consona allo spirito a-temporale dell'opera, recitazione assai curata, scene (Paolo Fantin) costumi (Carla Teti) e luci (Fabio Barettin) molto intelligenti e coinvolgenti. Insomma, uno spettacolo godibile, anche perché sul fronte musicale la prestazione di tutti, da Manacorda a strumentisti e cantanti è stata di assoluta dignità, di livello non certo inferiore a quello di altre che si odono anche in teatri assai più blasonati.

Peccato però che Michieletto – come Ferrando&Guglielmo – a un certo punto debba aver ingerito il tosco che trasforma Jekyll in Hide, l'assassino di opere liriche (smile!)
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Chiunque legga non distrattamente il libretto e, soprattutto, mediti appena un po' sulla musica, non può non concludere che l'opera sia un garbato - e allo stesso tempo caustico, ma ottimistico – schiaffo in faccia a tutti i tabù, i pregiudizi, gli stereotipi, i luoghi comuni, le dicerie, le consuetudini che sono caratteristiche di ogni era geologica (inclusa la nostra) e che quindi si applichi (lo schiaffo…) a meraviglia a qualunque contesto storico in cui l'opera venga calata. Ma è uno schiaffo salutare e benefico, per nulla distruttivo, anzi a suo modo catartico.

Ferrando e Guglielmo vi rappresentano gli stereotipi, se non gli archetipi, di quella mascolinità vanesia e piena di sé che è seriamente convinta che una donna – qualunque donna – da loro degnata di seria attenzione debba eternamente serbarsi fedele, come ad un principe azzurro che la provvidenza ha portato sulla sua strada. Però qui nasce un problema: se di principi azzurri ce ne sono in giro due, una stessa damigella non potrà cedere al primo e poi anche al secondo? E quella che in origine aveva ceduto al secondo, potrà successivamente cedere al primo? (grande, il DaPonte, nevvero?) 

Dorabella e Fiordiligi a loro volta sembrano due femmine uscite dai racconti di Liala: sono le damigelle che credono di aver incontrato i rispettivi principi azzurri – mandati dalla provvidenza - a cui mantenersi fedeli per l'eternità. Ma poi, incontrati altri due principi azzurri (gli stessi di prima, che però loro nemmeno sanno riconoscere – figuriamoci! - dietro il goffo travestimento da albanesi o valacchi) si dimenticano dei primi e si innamorano anche dei secondi… a parti invertite. 

Poi ci sono uomini e donne che ragionano, con la testa o con… l'utero (smile!) Così DonAlfonso, avendone viste e vissute di cotte e di crude (Ho i crini già grigi, Ex cathedra parlo) dimostrerà ai due stolidi ufficiali che loro - proprio in quanto principi azzurri, pur travestiti – possono far innamorare di sé anche le due morigerate damigelle già precedentemente accasatesi con altri principi azzurri (loro medesimi… a ruoli invertiti). E la navigata plebea Despina darà lezioni di concreto savoir-faire (far all'amor come assassine
alle due nobili e angelicate sorelline estensi, ciascuna pronta - pur dietro pesanti e un tantino ricattatorie sollecitazioni - ad innamorarsi del nuovo principe azzurro di passaggio.

Alla fine Ferrando&Guglielmo dovranno realizzare che il supposto ruolo di principe azzurro – in un mondo dove ce ne sono diversi in circolazione, e quindi nessuno lo è per davvero! - non garantisce alcuna fedeltà femminile (Te lo credo, gioia bella, ma la prova io far non vo' dovranno loro malgrado ammettere, dopo le rinnovate quanto ormai inaffidabili attestazioni di fedeltà delle loro damigelle). E le coppie (ignote) che si riformeranno con la benedizione del filosofo saranno composte da esseri umani (né principi azzurri, né damigelle) che avranno meno certezze di cartapesta in testa ma un po' più di testa sulle spalle. 
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Torniamo ora a Michieletto, partendo dal suo finale, pessimista e nichilista. Un'idea tanto velleitaria quanto gratuita, che il regista si è inventato estrapolando in modo assurdo ed indebito un verso cantato nel primo atto da DonAlfonso. Come il regista stesso ricorda in un'intervista: ''E' proprio don Alfonso a usare le parole 'Mi fa da ridere questo lor ridere, ma so che in piangere dee terminar', e in questo mio allestimento le fila tessute da questa sorta di vecchio don Giovanni si risolvono in un finale drammatico''.

Intanto è inequivocabilmente chiaro dal libretto che il piangere cui fa riferimento DonAlfonso riguarda esclusivamente la perdita della scommessa che i due protagonisti maschi han fatto con lui riguardo la fedeltà delle partner. Insomma, un modo come un altro per dire ride bene chi ride ultimo, quando c'è una posta in palio. Poi basta sempre leggere il libretto e in particolare l'ultima strofe, per convincersi che il finale non sarà certo un lieto-fine bigotto e perbenista, ma tutto è fuorchè drammatico. È invece un mirabile invito – che tutti i protagonisti accolgono e condividono - a prender la vita per il giusto verso, con serenità, disincanto e filosofia (take-it-easy! come dicono efficacissimamente gli anglosassoni) abbandonando stupidi pregiudizi e superstizioni e facendosi guidare dal buon senso, dall'equilibrio e dalla ragione

Che è poi quella che guida il filosofo DonAlfonso, che per DaPonte-Mozart non è per nulla un vecchio alcolizzato-depravato, un perfido guastafeste e rovina-famiglie, come ce lo presenta pervicacemente il regista. Al contrario – basta sempre leggere con attenzione il libretto - lui è l'incarnazione del vecchio saggio, scettico quanto arguto e navigato (pare uscito da un racconto di Eduardo… siamo a Napoli!) Una figura che accoglie in sé tolleranza, realismo, disincanto, il tutto mescolato ad un pizzico di simpatico sadismo… E il cui obiettivo finale non è certo quello di distruggere i rapporti fra le coppie, portandole alla disperazione e al nichilismo, come ci è toccato purtroppo di vedere alla Fenice, ma di portare nel loro mondo un po' d'aria fresca e pulita, liberandolo dagli sgradevoli odori perbenisti e da tutte le ipocrisie che lo caratterizzano. 

Michieletto evidentemente ha voluto distinguersi dalle scelte (quasi) obbligate che i registi devono compiere nel rappresentare il finale dell'opera: si riformano le coppie originali, o quelle createsi nella finzione legata alla scommessa? Invece di proporci altre plausibilissime combinazioni (il formarsi di due coppie omosex, perché no… oppure di un quartetto di liberi pensatori, tipo comune del '68) lui ha voluto far l'originale e non ha trovato di meglio che negare che le coppie si riformino, in una visione del mondo ultra-pessimistica, come a dirci: se agli individui vengono aperti gli occhi si fa il loro danno, chè, privati delle loro ipocrite certezze, perderanno totalmente la capacità di relazionarsi fra loro in modo sereno e costruttivo.

Ma era questo ciò che DaPonte-Mozart hanno voluto proporci con la loro opera? La risposta ce la dà – manco a dirlo e come sempre, in questi casi – la musica del Teofilo! Dico, Michieletto, bastava ti facessi la domandina semplice-semplice (che ogni regista si dovrebbe porre quando ha maturato la sua idea e la sua concezione dell'opera): se gli facessi vedere il finale del mio allestimento e gli chiedessi di musicarlo, che musica ci scriverebbe sopra Mozart? Ecco, anche un bambino risponderebbe: ma proprio tutta diversa da quella che ha scritto! Perché, mai ciò che il regista propone qui ai nostri occhi è stato in così stridente contrasto con ciò che il rapsodo ha fatto arrivare alle nostre orecchie! E allora, che si fa? Chiamiamo il solito Allevi per musicare il finale di Michieletto?

Dato al regista ciò che gli spetta (nel bene e nel male) resta da confermare la bontà della prestazione sonora. Su tutti (per me) la Fiordiligi di Maria Bengtsson, che si cala benissimo nella personaggio più complesso – libretto e musica – dell'opera: di alto livello in particolare il suo Rondò. Discreta anche Jose' Maria Lo Monaco, una Dorabella a volte un po' urlacchiante. Caterina Di Tonno ha interpretato splendidamente la navigata Despina: le manca soltanto qualche decibel… 

Fra i signori, buono – a dispetto del regista (smile!) - Andrea Concetti come DonAlfonso e dignitosi il Guglielmo di Markus Werba e il Ferrando di Marlin Miller (applaudita la sua Un'aura amorosa). In forma anche il coro di Claudio Marino Moretti, nelle poche ma efficaci sortite. L'orchestra, invero mozartiana (non più di una trentina di strumentisti) ha supportato al meglio le voci, oltre a distinguersi per pulizia nei brani strumentali: merito dei professori e di chi li ha guidati.

In definitiva, uno spettacolo bello e accattivante, di cui Michieletto ha guastato proprio il finale (che però è il succo dell'opera) lasciandosi prender la mano dall'idea di strafare.
    

24 febbraio, 2012

Orchestraverdi – concerto n 21



Ancora John Axelrod sul podio di un Auditorium quasi esaurito per un concerto che compie un percorso di andata-ritorno fra '800 e '900, muovendo da terreni assai seriosi per poi portarsi in ambito quasi-leggero.


Si parte con Debussy e il Prélude a l'après-midi d'un faune, che pare musica di un… secolo posteriore, che so, alla contemporanea Terza di Mahler. L'abbiamo ascoltato pochi giorni fa dai Filarmonici scaligeri (con Letonja al posto di Salonen…) e devo dire che – forse anche grazie all'ambiente più raccolto dell'Auditorium - l'effetto qui è stato di maggior pathos e raccoglimento.

La rossocrociata francofona Rachel Kolly d'Alba arriva poi per proporci il Concerto per violino di Karol Szymanowski, musicista di etnia polacca nato in Ukraina e morto proprio nella Svizzera francese. Il concerto è del 1916, ispirato da e dedicato a Paweł Kochański, violinista pure lui polacco-ukraino, che scrisse anche la cadenza originale del concerto:


Siamo nel regno dell'atonalità, ma forse più spostata verso l'impressionismo francese (da qui l'appropriato accostamento, in questo programma, con Debussy) che verso la Vienna di Schönberg. (Peraltro pare che Alban Berg, quasi 20 anni più tardi, avesse sotto gli occhi questa partitura di Szymanowski al momento di comporre il suo concerto.) Quanto alla forma, più che di Concerto si potrebbe parlare di Fantasia: abbiamo di fatto un unico ininterrotto fluire di motivi, di carattere alternativamente lirico e mosso, che si susseguono come in una specie di visione onirica (l'ispirazione non a caso venne dal poema Una notte di Maggio di Tadeusz Miciński).

Curiosamente lo stesso compositore parla di nuove piccole note per caratterizzare il lato impressionistico del brano, e persino la partitura a stampa le rappresenta con dimensioni ridotte, come si può osservare qui dalla pagina dove entra per la prima volta il solista:


Dopo un inizio sognante, con uccellini che cinguettano, arriva un ritmo di marcia, dove par di riconoscere certo Stravinski neoclassico. Poi farà la sua comparsa – in una sezione grandiosa e magniloquente – anche un bieco Rachmaninov… e dopo la citata cadenza, c'è spazio anche per un certo Scriabinestatico.

Nella chiusa, dopo il ritorno degli uccellini cinguettanti, il violino, con un frusciare di biscrome, pare proprio imitare un passerotto che ammicca da un ramo e scompare tra le foglie, mentre i contrabbassi esalano un LA grave pizzicato, come dire... ohibò:


Grande prestazione della bella Rachel (a proposito, sbaglio o qui a laVerdi arrivano solo violiniste col fisico da modella? lei per la verità adesso è un filino incicciottita, stante la recente gravidanza…) che non ci fa perdere una virgola di questo emozionante brano, ben coadiuvata da Axelrod - col quale ha già collaborato in Francia - e da tutta l'orchestra, con le note piccole e grandi (smile!)

Chiude il programma Piotr Ciajkovski con due Suite da balletti. Dapprima La Bella addormentata e poi Il Lago dei Cigni. Musica tanto orecchiabile quanto… impegnata (sì, perché troppo spesso la si sottovaluta come prodotto di seconda scelta, un po' come capita ai walzer di Strauss). Anche se ascoltarla ed apprezzarla non richiede la stessa attenzione e concentrazione necessarie per Debussy e Szymanowski, questo è poco ma sicuro!

Della Bella addormentata ci viene presentata una Suite arricchita da… Stravinski, che ne ri-orchestrò - per un balletto di Diaghilev - le Variazioni sulla Fata Lillà. Ma purtroppo impoverita dal taglio del bellissimo Panorama. Il Lago contiene una serie di passaggi solistici che consentono a tutte le prime parti dell'orchestra di avere il loro momento di gloria. Forse nell'orchestra (anche se da quei tempi pochi sono i reduci…) è rimasto qualcosa dello spirito con cui il grande Vladimir Delman, direttore e fondatore de laVerdi, affrontava queste bellissime pagine. Meritato quindi il trionfo per Axelrod&C.

Uno dei Direttori ospiti (il flamboyant Wayne Marshall) sarà protagonista del prossimo concerto, dal programma assai stuzzichevole.

22 febbraio, 2012

L’Aida alla Scala: continua il calvario


Ieri sera terza rappresentazione di Aida in un Piermarini abbastanza gremito e che, fino alla fine, era parso come il proverbiale MET, dove si applaude sempre (quasi) tutto e tutti. Poi è ri-scoppiato il putiferio già udito per radio alla prima.

Dopo la quale, la critica (ufficiale e ufficiosa) non si era stranamente divisa sul giudizio sui cantanti – tutti da protestare con richiesta di risarcimento, pareva – ma su chi dava tutte le colpe del disastro al povero ebreo errante Wellber e chi lo difendeva a spada tratta, puntando minacciosamente i missili della IDF contro quelle terribili armi di distruzione di messa (in scena) costituite dai buu del loggione, ma soprattutto da cerbottane e archibugi che alcuni cecchini annidatisi in buca avrebbero impiegato per colpire a tradimento l'impavido Kapellmeister

Cito letteralmente due (autorevoli?) giudizi – apparsi dopo la prima - sul Maestro e chiedo (e mi chiedo): in che mondo viviamo? 

Scriveva tale Carla Moreni sul Sole24Ore: Wellber in questa Aida della Scala rappresentava l'unico in locandina veramente da applaudire: per il dominio tecnico nel rapporto buca-palcoscenico, per la quantità di idee musicali in orchestra, per la tensione teatrale complessiva. Gli si poteva rimproverare di non aver forgiato in maniera unitaria i cantanti, che andavano ognuno per la sua strada e con una propria lingua, ma non certo di non saperli accompagnare, con duttilità e sicurezza, senza mai errori. A suo agio con il lessico dell'ultimo Verdi, diabolico nel passaggio repentino dalla massa debordante al dettaglio minuto. Il terzo atto, restituito nella sonorità notturna, increspato nelle tinte laminate degli archi, drammatico nello sbalzo degli accenti spostati, trapuntato di mille finezze, era un autentico pezzo di bravura, reinventato col viso aperto dei trentenni.

Lo stesso direttore, nella stessa serata, era così giudicato dal barcacciaro Stinchelli: Insalvabile, per quanto riguarda la concertazione, Omer M.Wellber: una direzione pessima, trasandata, moscia, demotivata. (…) A fronte di un simile s-concertatore, che definire "incapace" è forse un delicato eufemismo, la barca non poteva che affondare.

Insomma, anche i paludati si sono lasciati andare ad epinici ed epicedi tipici da tifoseria, e quindi costituzionalmente poveri di realismo e sobrietà. Perché Wellber – parliamoci chiaro – non è di certo (ancora quantomeno…) il Toscanini risorto, ma nemmeno è uno salito sul podio ieri mattina per la prima volta.

Poi c'è la critica ruspante, che ben si configura come i classici ultras-folgore vs commandos-tigre. Questi alcuni tipici commenti:

Wellber non sa tenere insieme l'orchestra, tuonano gli ultras-in-kefiah. Sta lì solo perché raccomandato da Barenboim e dai banchieri ebrei!

Manco per niente - replicano le tigri - basta vedere come ha tenuto insieme le orchestre di Valencia e di Bassano del Grappa! Sono i Trepper che fanno schifo!

Ma allora – urlano i folgorini – com'è che gli schifosi Trepper quando arriva tale Harding si trasformano nella bella copia dei Berliner?

Perché sono invidiosi di chi fa carriera in fretta, soprattutto se ebreo, inveiscono i commandos

Beh, direi che il paragone calcistico (compreso qualche tipico flavour razzista) torni proprio a pennello, poiché orchestra e direttore sono esattamente – dal punto di vista dello sviluppo dei rapporti interni ai gruppi organizzati - come la squadra e l'allenatore. Da che mondo è mondo esistono allenatori che fanno sfracelli con la squadra A, mostrando di saperla tenere in pugno con assoluta sicurezza… per poi cadere miserevolmente quando chiamati ad allenare la squadra B, che magari sulla carta sembra migliore della A. Tale Marcello Lippi vinse n trofei con la Juve ma poi – passato all'Inter - dovette dileguarsi col favore delle tenebre per sfuggire ad un linciaggio. Ed è la stessa persona che ha poi vinto un mondiale, mostrando di saper tenere insieme una squadra-di-prime-donne-isteriche, per perderne schifosamente un altro dove si era portato dietro solo i più scodinzolanti yes-men del momento… E nel business, quante volte capita che un CEO porti alle stelle la Corporate-X e poi, assoldato a peso d'oro dalla Corporate-Y, la porti invece sull'orlo della bancarotta? 

È vero che nel calcio (come in quasi tutti gli sport) i risultati sono determinati in modo abbastanza oggettivo, e cioè dai gol fatti e subiti (oltre che anche dal culo, dalla sfiga, dai pali, dai gol-in-fuori-gioco e dall'arbitro-venduto) mentre all'opera si vince o si perde a seconda di come è composto il pubblico giudicante (5% del totale, a dir tanto) e di quanto fiato ha da spendere… però, insomma, il clima che si crea fra squadra e allenatore un minimo di importanza ce l'ha. Ergo, se fosse vero, come si dovrebbe purtroppo dedurre da ciò che si è letto su giornali e web, che fra la squadra dei Trepper e l'allenatore Omer non corre buon sangue, la regola vorrebbe che fosse quest'ultimo a togliere il disturbo, non foss'altro perchè è uno solo da sostituire invece di 18-20 (nel calcio… qui, addirittura, invece di 80-100!) E quindi il presidente del club meneghino (nella fattispecie tale Stefano Lisseneri) non dovrebbe far altro che convincere il suo facpocum-scaligero a rimandare il pupillo Wellber ad allenare il Valencia e il Chievo. In attesa che, chissà – proprio come sta accadendo al mitico Harding, inizialmente vituperato e irriso – fra qualche anno anche Omer possa tornare alla Scala da profeta… 

Ma siamo poi sicuri che il problema stia lì? Torniamo a ieri sera. Intanto, di cerbottane e archibugi in buca non si è vista l'ombra. Poi, durante la recita solo applausi (scarsi, ma chiari); anche per il maestro ai rientri. Poi, chiusa la pesante lapide sui due poveri disgraziati Aida-Radames, ecco ciò che non ti aspetti: uscita collettiva dei cantanti (manca il povero dulcamara Maestri, morto nel frattempo, che si è visto negare la singola alla fine del terz'atto per mancanza di… stimoli) e applausi convinti. Uscita collettiva di cantanti, più Wellber e Casoni e – fra convinti applausi – un coro di buu e di vergogna! in particolare dal secondo loggione! Ohibò, a chi diretti? Dovremmo capirlo alle successive uscite singole: per tutti i cantanti chiari e forti applausi; poi esce Wellber e si prende, fra gli applausi, solo qualche buu rachitico… L'unico a non uscire da solo è Casoni: ergo, si dovrebbe dedurre che i vergogna! erano tutti e solo per lui (e per il coro)? Mi parrebbe francamente assurdo, quindi… che dire dell'arbitro
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Adesso però, anche se so benissimo che non frega nulla a nessuno, devo esprimere – per dignità verso me stesso - la mia impressione su questa recita. In assoluto la giudicherei discreta: nel cast dei cantanti, nel coro e anche nell'orchestra e nel direttore. Che vuol dire in assoluto? Che non ho rilevato errori marchiani, stonature clamorose, abissali scollamenti fra buca e palco, né attacchi fuori tempo. Ma basta questo, alla Scala? Ecco, non me ne vogliano i bocia, ma questo risultato (forse) basta dalle parti di Bassano del Grappa. La Scala deve dare di più, non foss'altro perché chiede di più, molto di più, e a tutti: pubblico, istituzioni e sponsor.
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PS-1: a rincarare la dose è arrivato anche il papà (anzi, il… bisnonno) di questo allestimento, giudicato irriconoscibile! Ma Zeffirelli non se l'è presa col povero Marco Gandini (colpevole di… qualche bacetto di troppo fra Radames e Amneris) bensì con il cast e la produzione musicale in genere, che avrebbero rovinato la reputazione della sua mirabile creatura (!)
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PS-2: da abbonato alla stagione d'opera ricevo ieri una lettera - su carta e in busta rigorosamente giallo-Scala - che mi avverte con profonde scuse del default di Semyon Bychkov per la prossima FroSch… ecco, questo sì che è Customer-Relationship-Management! (Invece, sulla mini-locandina cartacea, è scritto che quella di ieri sera era la quarta rappresentazione: forse la terza l'han fatta sul ponte di Bassano?)

 

17 febbraio, 2012

Orchestraverdi – concerto n 20



Il Direttore principale de laVerdi, John Axelrod, fa il suo ritorno sul podio dell'Auditorium per proporre un concerto (quasi) tutto mozartiano.

Serata che si apre però con una composizione contemporanea, Afterthought di Giorgio Battistelli. Il quale, meditando sugli attentati londinesi del 2005, ha creduto di trovarvi un ideale collegamento con le atrocità evocate dal Richard III - opera da lui appena musicata, a quel tempo, e felicemente rappresentata (grazie a Carsen) in diversi teatri europei (non italiani!) - e ci ha costruito una specie di fantasia sinfonica, impiegandone alcuni temi conduttori.

Fedele allo spirito e ai riferimenti letterari e d'attualità, il pezzo alterna durissime pagine di sonorità cupa (martellamenti e urla strazianti) ad altre di pace quasi straniata, di ebete contemplazione di una realtà (umana e materiale) in disfacimento o – forse – di speranza di intravedere una qualche improbabile luce alla fine del tunnel. (Ma queste sono sensazioni evocate dal titolo e dallo scenario che il compositore stesso ci indica… in assenza dei quali il brano potrebbe essere interpretato in mille altri modi diversi.)

Ora si passa a Mozart, con il solista della casa, Radovan Vlatkovic, che presenta il Terzo Concerto per Corno. Köchel aveva catalogato quattro concerti per questo strumento in un certo ordine (412, 417, 447, 495) che si è poi scoperto essere cronologicamente errato, la sequenza appropriata essendo 417, 495, 447 e 412 (frammento). Quindi il concerto presentato qui è l'unico a mantenere il suo numero (3) in entrambi gli scenari… Però diventa, cronologicamente, l'ultimo concerto per corno completato da Mozart, nel 1787, quindi circa un anno dopo del 495. (Del 412 Mozart compose successivamente, pochi mesi prima di morire, il solo primo movimento, cui l'allievo Franz Xaver Süssmayr aggiunse di suo pugno un Rondò).

Vlatkovic non ha certo bisogno di essere scoperto oggi: tecnica sopraffina, virtuosismo eccezionale (grande la sua cadenza alla fine dell'Allegro) ma anche sensibilità interpretativa e perfetto dosaggio delle sfumature del suono. Un solo peccato: non averci regalato uno dei suoi mitici bis

Ecco poi il pezzo forte della serata, il Requiem del sommo Teofilo, purtroppo restato a livello di torso e quindi - gioco-forza - completato da mani assai più rozze (con tutto il rispetto per l'onnipresente e volonteroso Süssmayr) e passato di mano in mano come una cambiale con cui saldare debiti e pendenze diverse (!)

Bruno Walter in questa singolare (addirittura sbudellante, alla fine) intervista di quasi 60 anni fa non lesina critiche all'allievo di Mozart per la pesantezza della sua strumentazione (ah, quei tromboni!) ma riconosce anche che certa sua musica (in particolare il Benedictus) è un'eccellente realizzazione delle intenzioni del maestro.

Ancora oggi c'è chi si ostina (magari con le migliori intenzioni) a proporre nuove edizioni dell'opera. L'ultimo - ma solo in attesa del… prossimo – è tale Clemens Kemme, che ha rilasciato negli anni scorsi una sua edizione del Requiem, ritoccata (soprattutto) nelle parti esclusivamente di Süssmayr, come il Sanctus e tutto ciò che segue. La si può ascoltare qui, per notare ad esempio l'espansione – tutt'altro che peregrina – proprio del Sanctus. Di certo, l'approfondimento di altre partiture mozartiane permette a qualcuno (o lo illude) di poter indurre come il genio salisburghese si sarebbe comportato, avesse avuto tempo e modo, nel completare il Requiem di suo pugno. Ma l'unica cosa certa è che nessuno mai ci potrà dare (né avvicinarsi a darci) ciò che sarebbe uscito dalla penna d'oca di Mozart. Quindi mettiamoci il cuore in pace e ascoltiamo con devozione quel che ci è arrivato da esattamente 220 anni…

La premiata coppia Axelrod-Gambarini ci ha proposto un approccio assai equilibrato: orchestra non sovraccarica, tromboni e timpani discreti e mai soverchianti (+ Mozart e – Süssmayr, si potrebbe dire) voci perfettamente dosate nei mille chiaroscuri che caratterizzano la partitura. I solisti – nessuno francamente eccezionale – han però fatto la loro parte: il basso Snell e il soprano Gheorghiu un filino meglio del mezzosoprano Shaham e del tenore Leon.

In complesso, una prestazione che non ha sfigurato per nulla (almeno alle mie orecchie) con quella memorabile – seguita in streaming - che ci ha offerto Pappano con la sua SantaCecilia meno di un mese fa.

Meritato quindi il trionfo per tutti quanti, in un Auditorium finalmente affollato, dopo alcuni appuntamenti abbastanza snobbati dal pubblico.

E il prossimo appuntamento sarà ancora con Axelrod, in un programma un po' meno… impegnato.
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14 febbraio, 2012

Letonja (fra scioperi e defezioni) in concerto alla Scala


Sostituendo l'uccel-di-bosco Esa-Pekka, Marko Letonja è tornato sul podio della Scala - après les contes - per dirigervi le tre serate (in origine, poi ridottesi a due per un puntualissimo sciopero indetto da una sola, anche se potente, sigla sindacale) di un concerto della stagione del Teatro (quella dove i filarmonici fungono da prestatori d'opera senza compenso… smile!) Programma novecentesco che incastonava una primizia del terzo millennio. Pubblico folto, ma non oceanico, né troppo caloroso.

Mandarino, Fauno e D&C sono nel repertorio dell'orchestra, che li ha eseguiti negli ultimi mesi-anni sotto diverse illustri bacchette (mi vengono in mente Boulez e Mehta, per fare un paio di nomi). Ora, stabilire se con Letonja l'orchestra si sia superata, o se abbia semplicemente suonato a memoria (e il biondo sloveno si sia limitato ad agitarsi sul podio e a girare le pagine della partitura); o immaginare chissà quali sfracelli avrebbe fatto con Salonen… è impresa (almeno per me) assai ardua. Perché spesso una stessa prestazione siamo portati a valutarla in modo diverso, a seconda del personaggio che sta sul podio: se è Letonja, passabile; se è Salonen, mitica!

L'attrazione della serata era concentrata sulla prima assoluta di Luca Lombardi, Italia mia, pezzo commissionato dalla Filarmonica per commemorare i 150 anni tricolori. (Per la verità, anche l'autore ultimamente sembra aver perso un poco di patriottismo, visto che ha preso moglie, residenza e cittadinanza israeliane.) Poi all'ultimo momento – così, tanto per far nevicare sul ghiaccio – ecco la rinuncia di Gabriele Lavia (evidentemente vittima del clima siberiano, ahilui e giustificato da certificati medici) sostituito da Alessandro Quasimodo (un nome, una certezza…) nel ruolo di voce recitante, accanto a Monica Bacelli e a Lucio Gallo, voci… cantanti (smile!)

Il pezzo è – selon moi - un mediocre put-pourri di testi (alcuni classici, a cominciare da citazioni di Dante, Petrarca e Leopardi, per finire a Quasimodo-senior, altri dello stesso Lombardi) accompagnati da una musica che sembra far di tutto per mostrarsi orecchiabile e digeribile, ma senza riuscirci molto. Quasimodo-junior – che ha al fianco un Korrepetitor che gli dà gli attacchi (Letonja evidentemente è in tutt'altre faccende affaccendato…) - invece del testo del padre (cantato da Lucio Gallo) legge i testi di Lombardi: una specie di storia in pillole dei 150 anni italiani (ed europei) fermatasi per fortuna a subito prima dell'avvento di tale Berlusconi; e poi un elenco dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, amici e nemici, giorno sì e giorno no, come il mare, che un giorno è calmo e un giorno agitato, ma è meglio quando è calmo (apperò!) Ah, dimenticavo, si sente (a fatica) anche un sommesso Va', pensiero, che non guasta mai e come minimo ci risparmia le pernacchie padane contro roma-ladrona… Insomma, parecchia retorica e poca musica! Ma l'autore arriva comunque sul podio a prendersi gli applausi del pubblico, brandendo – novello Enrico Toti – una stampella!
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11 febbraio, 2012

Il teatro musicale: nuovo cancro della società?


Negli ultimi giorni il problema della vita e della sopravvivenza del teatro d'opera ha trovato nuovo spazio nel web per via di un paio di interventi giornalistici che hanno suscitato polemiche e discussioni fra gli amanti del genere.

A buttare il sasso, in modo invero provocatorio (chissà poi se volutamente o meno) è stato il giornalista-scrittore-operatoreculturale (e-chi-più-ne-ha-più-ne-metta) Marco Ferri con un breve ma vetriolico articolo sul suo sito web, intitolato nientemeno che La lirica è un tumore! Alla base della bizzarra - prima ancora che offensiva - tesi starebbero i numeri, in particolare il rapporto fra ciò che lo Stato (FUS) spende per le (14) fondazioni e il prodotto che esse mettono, per così dire, sul mercato: spettacoli costosissimi per presenze di spettatori microscopiche. Al confronto, la musica leggera avrebbe una audience di ordini di grandezza superiori, mentre dallo Stato non riceve praticamente un centesimo.

Applicando gli stessi razionali, non si capisce perché le istituzioni (centrali e locali) debbano preoccuparsi di portare elettricità, gas, acqua e bandalarga anche in sperduti borghi di montagna, a costi stratosferici, e per servire pochi individui ammalati di isolazionismo, ma rivendicanti tutti i sacrosanti diritti di ciascun cittadino. O perché non investa capitali per supportare l'industria del porno – altrettanto, se non più, popolare di altre forme di spettacolo - facendo così emergere tutto il nero che la caratterizza e risollevando quindi il nostro depresso PIL, e facendo al contempo contenti quei simpaticoni di Moody's e Standard&Poor's.

Ha voglia il simpatico Ferri a replicare che lui di problemi della lirica si è interessato con scrupolo e professionalità (peccato che lo dica lui, senza testimoni, smile!) ma quando uno arriva a definire come tumore una delle più alte manifestazioni del pensiero e dell'arte umana: o è fuori di testa o ha qualche fine nascosto. Sì, perché lui non scrive che il mondo attuale della lirica (in Italia e altrove) è afflitto da gravi problemi, che vi circolano approfittatori di ogni risma e che sarebbe il caso di farvi un po' di pulizia e mettervi un po' di ordine… no no, lui sentenzia che la lirica è un cancro che mina addirittura la nostra esistenza! Speriamo per lui che torni al più presto al potere Berlusconi, visto che aveva giurato sui figli che nel giro di pochi anni avrebbe debellato il cancro e ogni altra possibile e immaginabile futura malattia!


Gli ha indirettamente replicato Angelo Foletto, che non ha bisogno di presentazioni, con un fulminante editoriale apparso sulla benemerita rivista online Operaclick, che prende spunto in realtà dall'entrata in vigore di una norma a firma Brunetta&Bondi (ormai in procinto di passare alla storia come bruneri&canella…) dai più dimenticata, che vieta ai dipendenti delle fondazioni teatrali di praticare qualunque tipo di attività autonoma, parallelamente a quella istituzionale.

Il pregio dell'articolo di Foletto - al contrario della demagogia di bassa lega di Ferri – è di dire pane-al-pane-e-vino-al-vino. Cioè di ridicolizzare l'approccio di bruneri&canella (due nipotini di Stalin, per la cronaca…) che avrebbero voluto installare il tornello-timbra-cartellino anche sul podio del Kapellmeister (smile!)… e nel contempo denunciare le mille anomalie e i mille micro-privilegi che una gestione corporativa e sindacalizzata (nel senso deteriore del termine) delle nostre istituzioni liriche ha fatto nascere e prosperare.

Auspicando che finalmente, sull'onda di quel liberismo sociale che pare essere la stella polare del tecnico Monti (uno che la lirica non la considera un cancro, almeno sembrerebbe di capire) si possa avviare una seria riflessione sul problema e ad un'assunzione di responsabilità da parte di tutti, a partire – se non è chiedergli troppo - dal Ferri!
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10 febbraio, 2012

Orchestraverdi – concerto n 19



Riecco Aldo Ceccato, alle prese con l'integrale delle Sinfonie di Dvorak. Questa settimana tocca alla Settima, in un programma dal palinsesto tradizionale: una Ouverture, un Concerto solistico e la Sinfonia. Detto fra parentesi: va bene mettere in programma cicli su compositori importanti quali Dvorak, però questi concerti assomigliano maledettamente a quei pranzi a base di un solo prodotto, che so, tutti e solo formaggi o tutti e solo funghi… dove francamente si arriva al secondo con una certa sensazione (per dirla… dietetically-correct) di appagamento.

Karneval è il pezzo che apre la serata, proprio di quelli fatti apposta – con un attacco perentorio, cymbal-clash compreso - per richiamare all'ordine i soliti spettatori che si attardano in chiacchiericci anche dopo che il direttore è salito sul podio e si è girato verso i professori… Si tratta di un'ouverture (Op.92) che è parte di un trittico (con le op. 91 e 93) che il compositore aveva scritto nel 1891-92 (poco prima della parentesi americana) titolato Natura, vita, amore. In origine avrebbe dovuto essere un'unica opera suddivisa in tre parti, ma poi l'autore decise di pubblicare i tre pezzi disgiuntamente.

Ciò che comunque li accomuna è il motto musicale che ritroviamo, in diverse forme e posizioni, nelle tre ouverture, rappresentante, appunto, la Natura:
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Come dice il titolo, Karneval evoca un'allegra e movimentata festa paesana, in mezzo alla quale capita un solitario viaggiatore. Come detto, si entra subito in medias res, con il fiero tema principale – in LA maggiore - esposto da flauti e violini, con vigoroso accompagnamento di tutta l'orchestra:
Il tema viene subito ripetuto e poi sviluppato, fino a raggiungere un primo momento di calma, dove un nuovo motivo è esposto in RE maggiore, prima che il secondo tema (SOL maggiore – MI minore, poi sfociante in MI maggiore, dominante del LA di impianto) faccia la sua comparsa.

A questo punto troviamo nientemeno che una brevissima, ma illustre citazione dal baccanale del Tannhäuser (del resto a carnevale ci si deve divertire, altrimenti che festa sarebbe…)
Che introduce ad un intermezzo d'amore (sarà per caso il viandante che ha trovato compagnia…?) caratterizzato da una dolce melodia dell'oboe, in SOL maggiore, che prima il clarinetto e successivamente il corno inglese contrappuntano con il motto del trittico.

Ma presto la festa ricomincia più travolgente che mai. Siamo allo sviluppo, in tonalità SOL minore, che porta alla ripresa del tema principale, LA maggiore, sfociante in una coda quasi orgiastica. Chiudono il tutto tre colpi di smaccata fanfara dei tromboni.
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Ottima la prestazione dell'orchestra, che mette di buon umore il pubblico, anche ieri sera non proprio oceanico…

Segue poi il Concerto per violino, interpretato da una ragazza che pare uscita dall'ultimo concorso per veline. Per carità, questo non è certo un demerito, solo che lo spettatore è fatalmente portato a spostare l'attenzione, dalle quelle musicali, a doti di altro tipo (smile!)

Nella classifica dei tre concerti solistici di Dvorak, questo personalmente lo metterei al secondo posto, dopo quello per violoncello (di cui anticipa, nel centrale Adagio, alcune sognanti atmosfere) e decisamente prima del più astruso e deficitario concerto per pianoforte, udito qui di recente. Però anche questo non è che sia propriamente un capolavoro. Con una battuta di bassa lega potrei dire che, insieme agli analoghi concerti di Bruch, Wieniawski, Saint-Saens, Lalo e compagni… una volta che ne hai sentito uno, li hai sentiti tutti (ri-smile!)
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Dopo l'enfatico incipit (Allegro ma non troppo, 4/4) dell'orchestra, 5 battute che stabiliscono la tonalità di impianto (LA minore), il solista espone il tema principale, dal vago sapore gitano:
Il resto del movimento è di difficile catalogazione: forma-sonata, rondò, fantasia… anche i musicologi non sanno come prenderlo. Il difficile è stabilire se la cosa sia dovuta ad inventiva fin troppo sbrigliata, oppure ad una certa impotenza narrativa… Fatto sta che Dvorak pare volersene liberare al più presto, privandolo di una canonica ripresa e, dopo una sola battuta lunga di cadenza, scrive 13 battute (Quasi moderato) che di fatto introducono il movimento centrale.

L'Adagio ma non troppo, in FA maggiore, risolleva la reputazione di concerto e autore. Il solista espone subito il dolce tema che lo contraddistingue, contrappuntato dagli strumentini:
Qui, una volta tanto, è Dvorak ad anticipare qualcosa di Brahms, che udiremo nell'Andante in RE maggiore del Doppio concerto dell'amburghese, scritto di lì a qualche anno. Il brano si sviluppa con un altro delicato motivo:
Poi incontriamo un primo scossone, determinato da un energico motivo in FA minore, esposto dal solista e a cui risponde la calda sonorità del corno:
Divagazioni in MIb portano all'esposizione di un nuovo, dolcissimo motivo, in MI maggiore:
Altro intermezzo fosco, con l'orchestra, adesso, a riproporre il tema in FA minore, spalleggiato da fanfare delle trombe. Dal FA minore si passa alla relativa LAb maggiore, dove il solista si abbandona a lunghe peregrinazioni, prima di tornare… alla casa del FA maggiore, su cui prima l'orchestra, poi il solista, ripropongono (pesante) con grande enfasi pari alla nobiltà, il tema ascoltato poco prima in MI, che successivamente compie una divagazione a LA maggiore. Torna il FA con il secondo tema, prima che il violino, con i corni ancora a scortarlo, chiuda sul tranquillo accordo dell'orchestra.

Il Finale è un Rondò sui generis, la cui macro-struttura è A-B-A-C-A-B-A, ma si potrebbe dire con alcuna licenza. Il solista attacca subito con il tema principale A in LA maggiore (composto da due sezioni, domanda e risposta) dal piglio fiero e disinvolto (non per niente la danza popolare da cui prende spunto è chiamata furiant):
Il secondo tema (B) è un po' più contemplativo (ma sempre sul ritmo della furiant). Preceduto da un motivo di collegamento, è nella dominante MI:
Dopo la riapparsa del tema principale, in LA, ecco il motivo centrale (C) piuttosto dimesso, in RE minore. Anche questo è basato sugli stilemi di una danza (ucraina, tipicamente) la dumka:
Torna il tema principale, sempre in LA, esposto adesso dal solista due ottave più in basso.

Ancora il tema B con la sua introduzione, stavolta adagiato sul LA (anche se poi… svicola) prima che torni per l'ultima volta il tema A, ma ora singolarmente esposto dal flauto un semitono sotto (LAb). Tosto però si torna al LA maggiore per la conclusione in pompa magna, con 5 crome in armonici del solista, seguite dalla pesante chiusa dell'orchestra.
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Anna Tifu conferma di essere un personaggio in continua ascesa: sicurissima tecnicamente ed anche matura dal punto di vista dell'espressione, ha cavato, credo, tutto il buono che si possa da questo pezzo non eccelso. Grandi applausi, corrisposti da questo bis.

La Settima Sinfonia – infarcita di riferimenti e citazioni brahmsiane (ma non manca Beethoven) - l'abbiamo ascoltata più o meno un anno fa alla Scala, propinataci da Chailly. Ceccato evidentemente dà eccessivo credito all'epiteto di tragica affibbiato a quest'opera e ce ne propina un'interpretazione cupa e funebre. Passabili i primi due movimenti, ma poi lo Scherzo degrada a menuetto e l'Allegro finale si trasforma in una specie di mortorio, ai limiti dell'esasperante, mah… Quanto all'orchestra, bene in generale, ma con pecche evidenti nei corni, stasera un po' fuori fase, sia Amatulli nel concerto che Ceccarelli nella sinfonia. Insomma, una serata così-così.

Il concerto n°20 vedrà sul podio – per la prima volta in veste di Direttore Principale - John Axelrod, con un programma che avrà il suo apice nel Requiem mozartiano.
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07 febbraio, 2012

Salonen fa cippirimerlo alla Scala


Stando a quanto riporta il suo sito personale, Salonen ha diretto un concerto a Parigi il 27 gennaio, e riprenderà l'attività il 24 febbraio, a Essen. In pratica, salta i quattro concerti scaligeri: questo della stagione della Filarmonica e i tre del prossimo fine-settimana, della stagione del Teatro. La Scala ha annunciato la defezione per i tre concerti dell'11-12-13 il giorno 23 gennaio con e-mail inviata ai possessori di biglietto; la Filarmonica (per il concerto del 6) ha fatto altrettanto il 25 gennaio. Ma già dal 21 la notizia era di dominio pubblico. Dal che si deve dedurre che, mentre ancora stava tenendo concerti a Parigi e confermava quelli successivi in Germania, Salonen ha cancellato quelli milanesi di inizio febbraio. Nulla di tutto ciò compare sul sito del maestro, né vi si trovano notizie di malattie, indisposizioni o altre cause del default. La vicenda assomiglia vagamente a quella di cui fu protagonista Abbado un paio d'anni fa (lui almeno aveva esibito un certificato medico, smile!) e quindi, applicando il metodo induttivo di quella vecchia volpe di Andreotti… evidentemente c'è del marcio nei rapporti fra il maestro e il teatro. Il che fa perdere al pubblico italiano le prestazioni di un direttore (e compositore, datosi che c'era il suo concerto per violino nell'originario programma di ieri) di quelli che oggi vanno per la maggiore. Ora, Salonen sarà pure un ragazzino (53enne!) un po' viziato… ma possibile che tutti i contrattempi capitino proprio qui da noi?

Meno male che è stato recuperato in fretta e furia Daniel Harding per rattoppare il buco, peraltro con un programma modificato (niente Musorgski, niente… Salonen) con l'inserimento del Primo concerto di Brahms, eseguito al pianoforte da Lars Vogt, che avevamo ascoltato in Auditorium lo scorso settembre, in occasione del primo concerto della stagione de laVerdi (allora in un apprezzato Imperatore). Questo Brahms non è certamente di quelli che ti strappano le budella né ti eccitano qualche corda dell'io profondo… e Vogt si guarda bene dal metterci qualcosa di suo per smuovere le acque. Insomma: una prestazione dignitosa, la sua e quella dell'orchestra (acciaccature indesiderate del corno a parte, ma nella norma, smile!) che va valutata anche tenendo conto dello stato di relativa emergenza indotto dalla defezione finnica.

È per fortuna rimasto in programma Le sacre, già diretto qui da Harding tempo addietro (col balletto). Opera potremmo dire di repertorio per la Filarmonica, che vi si è esibita lodevolmente un paio d'anni fa anche con Daniele Gatti. Harding mi è parso frenare certe intemperanze della partitura, allentando un pochino i tempi e smussandone gli spigoli più aguzzi (per lo meno, questa è stata la mia percezione del suo approccio). Certo, è musica che non ti lascia mai indifferente… e se lo fa ormai da cent'anni, vuol dire che è materia tosta assai!

Un'ultima nota di ambiente: parrebbe proprio che fra Harding e i Filarmonici stia crescendo un feeling particolare, almeno a giudicare dai reciproci atteggiamenti e ammiccamenti prima e dopo la prestazione. Qualcuno avverta Barenboim…
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05 febbraio, 2012

L’Angelo di Fuoco riscalda Torino


Ieri seconda rappresentazione de L'angelo di fuoco di Prokofiev al Regio di Torino, praticamente esaurito a dispetto del termometro che ormai segna temperature a due cifre e in ulteriore crescendo, stando ai divinatori (il segno davanti è ininfluente, smile!)

La produzione del Mariinski sarà anche vecchia di 20 anni, ma mantiene tuttora tutte le sue eccellenti caratteristiche. La regìa di David Freeman è più che mai attuale, per la semplice ragione che… propone praticamente alla lettera il libretto e la partitura di Prokofiev. Rispetto ai quali l'unica - importante e positiva - innovazione è costituita dalla perenne presenza in scena (immobili o in azione) dei demoni che sono in effetti i protagonisti occulti dell'opera: si tratta di mimi, in calzamaglia bianca.

Li vediamo da subito aggirarsi attorno al letto di Renata, mentre nella stanza accanto è arrivato Ruprecht. Le immagini qui supportano alla perfezione la musica. Infatti, per rappresentare personaggi, situazioni, stati d'animo, sentimenti, Prokofiev impiega in modo esteso, ma tutto sommato tradizionale - ottocentesco si potrebbe dire - i classici ingredienti della musica tonale. E precisamente mentre Ruprecht si sta coricando, avvolto nel suo mantello, ricordando notti in fondo ben più terribili di quella che si appresta a trascorrere nella lurida locanda in cui è costretto ad alloggiare, ecco che l'oboe, per due volte (doppiando con i primi violini in tremolo le note cantate dal cavaliere) e subito dopo per una terza ancora - in unisono con il corno inglese, un attimo prima che dalla stanza accanto si oda la voce terrorizzata di Renata - esala un motivo che scende dal DO# al SOL, per poi risalire al LA:

Il primo intervallo è lo sbifido tritono che da sempre, in musica, rappresenta il diabolus! E così abbiamo la spiegazione musicale della presenza dei demoni sulla scena, e la conferma di che razza di avventure ci aspettano.

È scontato che i personaggi principali abbiano una carta d'identità, che secondo le convenzioni musicali in auge fin dal primo '800, come minimo, è rappresentata da quelli che a partire da Wagner (che non ha inventato nulla, ma ha innovato quasi tutto) si chiamano Leit-motive, o motivi conduttori.

Il tema di Ruprecht viene esposto nelle prime due misure dell'opera: in fin dei conti è l'Autore (del romanzo, Bryusov, non Prokofiev) che si sta presentando al suo pubblico:

Il tema ha un tratto tipicamente eroico, o cavalleresco, come si addice allo status del personaggio: quindi una robusta e vigorosa salita per terze che culmina (siamo in LA minore) su un'impettita figurazione (DO-SI-DO) che, a parte la mancante acciaccatura e il ritmo un filino diverso, parrebbe l'incipit del bizetiano Toreador! Però il tema chiude con una discesa al LA, che sa tanto di cedimento, di ripiegamento, se non proprio di resa incondizionata (certo il tutto potrebbe anche evocare l'atto del classico saluto militare, con la mano che sale alla visiera e poi ricade sul fianco… non dimentichiamo che Ruprecht è un graduato dell'esercito lanzichenecco!)

Però l'idea del cedimento è suggestiva, in quanto suffragata da ciò che accadrà nel seguito: le ferree, apparentemente incrollabili e razionaliste convinzioni del nostro che pian piano cedono il passo ai dubbi assillanti, instillati nella sua mente dai comportamenti e dai racconti di Renata, e dai fatti razionalmente inspiegabili che si verificano in sua presenza.

Appare quindi Renata, accompagnata dal suo tema:


Un tema composto da due cellule di tre crome che percorrono gli intervalli di terza minore, il primo ascendente (qui MI-FA#-SOL) seguito dal secondo, discendente (qui MIb-RE-DO). Mirabilmente rappresentano la schizofrenica personalità della donna, sempre in bilico fra la ricerca della felicità e lo sprofondare nello sconforto; o i suoi bioritmi che oscillano in permanenza fra illusioni e disperazione; ma è anche un tema di fatto circolare, proprio come i cerchi magici che Renata studia sui testi di occultismo e che ne inquinano la mente, o il cerchio che nel finale le monache formano attorno a lei; un cerchio che di fatto richiama e risucchia al suo interno, come in un buco nero, i demoni che la perseguitano.

Madiel-Heinrich compare solo in racconti o in spettrali visioni. Il suo tema - legato all'Angelo - è per l'appunto angelico, come ci chiariscono le viole al suo primo completo apparire, allorquando Renata, nella sua lunghissima esternazione a Ruprecht accorso in sua difesa, ricorda gli inebrianti momenti trascorsi in compagnia dell'occulto accompagnatore:


Ecco, fin dai primi momenti dell'opera abbiamo avuto la presentazione dei componenti del triangolo (lui, lei e l'altro) che si muovono all'interno di questo mondo esoterico e misterioso. E che vi interagiscono secondo regole quasi ferree: il canto con cui Ruprecht (Libera me Domine) scaccia i demoni che assillano Renata ha la stessa martellante pesantezza di quello che nel finale l'Inquisitore impiegherà per inchiodare la medesima Renata con l'accusa di stregoneria, sanzionata quindi con la condanna estrema.

Intanto il primo atto si è chiuso con il siparietto della veggente, che per la modica cifra di 18 corone ha divinato tutto il male possibile per Renata e chi le sta accanto.

Nel secondo atto compare materialmente il cerchio, che Renata – leggendo un tomo di magìa, traccia sul pavimento, in presenza dell'esasperato Ruprecht, che ormai vive solo con l'obiettivo di accasarsi borghesemente con la donna. Ma i demoni sono lì, li vediamo subito muoversi e danzare intorno alla stanza, fino all'udirsi del primo colpo, poi del secondo che spaventa il cavaliere (lasciando dapprima indifferente la donna) e poi di tutte le successive sequenze di tre colpi che certificano trattarsi di fenomeni tutt'altro che onirici, e che illudono Renata dell'imminente arrivo di Heinrich-Angelo-Madiel. Mirabile qui l'accompagnamento degli archi divisi in 13 parti (3 parti per violini primi, secondi, viole e violoncelli, più i contrabbassi) ad evocare – con impiego di armonici e rapide quartine di semicrome - un'atmosfera davvero raggelante. Ma Heirich non arriva, e la delusione della donna è proprio di quelle che spaccano il cuore, come splendidamente ci fa capire l’orchestra, con gli strumenti che suonano divisi, chi in 2/4 e chi in 6/8, con un effetto-sincope-eco strabiliante!
L'Entr'Acte che prepara l'incontro di Ruprecht con Agrippa evoca insieme il viaggio materiale del cavaliere (che nel romanzo deve spostarsi da Colonia a Bonn – 40Km, più o meno - dove Agrippa aveva al momento la sua residenza) ma soprattutto il tumulto che regna nel suo cervello, dove ormai è in corso un viaggio ben più drammatico e sconvolgente: quello che lo sta portando dal mondo rassicurante, perché conosciuto, della razionalità a quello sconosciuto, e quindi terrificante, dell'occulto. E infatti in scena vediamo Ruprecht in viaggio circondato dagli onnipresenti demoni.

Di cui troviamo, in casa di Agrippa, tre esemplari (in calzamaglia scura!) che impersonano i tre cani neri del mago. Il quale replica violentemente alle insinuazioni di Ruprecht che gli rinfaccia tutto quanto di male si dice in giro di lui. Ma ecco i tre scheletri (che come nelle migliori tradizioni escono… dall'armadio!) che lo sbugiardano apertamente. È però il filosofo-mago-ciarlatano ad avere l'ultima parola, più sibillina che mai: la vera magìa è la spiegazione di tutti i misteri

Il terzo atto è inizialmente ambientato fuori dall'abitazione di Heinrich. I demoni imperversano, occhieggiando anche dalle strette finestre della casa; altri ne escono con abiti borghesi sopra la calzamaglia bianca, quasi a farci capire che un demone si può nascondere anche sotto le spoglie di un qualunque, apparentemente normale, cittadino…

Dopo che Ruprecht ha sfidato Heinrich a duello e dopo che Renata si è rimangiata la sua decisione di veder morto l'amato-odiato angelo-demone, ecco l'Entr'Acte che in qualche modo evoca il duello fra Ruprecht ed Heinrich (duello che qui vediamo proprio in presa diretta). Si caratterizza per la presenza dei temi dei tre personaggi principali: i due duellanti, naturalmente, ma anche Renata che – non dimentichiamolo – è la posta in palio, come del resto lo fu Nina Petrovskaja anche nel duello del 1904 – fermatosi peraltro all'uso delle sole armi poetiche – fra Bryusov-Ruprecht e Belyj-Heinrich, ai tempi del triangolo che ispirò al primo il romanzo, messo poi in musica da Prokofiev. Curioso qui che – oltre ai due duellanti - anche alcuni demoni si mettano a lottare fra di loro: evidentemente anche al loro interno si formano tifoserie e fazioni!

L'atto quarto, dopo la scenata con auto-ferimento di Renata, che abbandona Ruprecht per andare (a far casino, smile!) in un monastero, ecco il siparietto, fra il grottesco e il ridicolo, dell'arrivo di Faust-Mefistofele. Anche qui c'è dell'occultismo, ma proprio di quello da avanspettacolo, con il diavolo rosso che si mangia il garzoncello, stando dentro una botte, e poi lo fa ritrovare – vivo e vegeto - all'oste in un'altra… Davvero bestiali qui gli autentici barriti dei corni che accompagnano il ripugnante pasto!

L'atto conclusivo è per sua natura quello che meglio si presta a fare spettacolo. E qui lo spettacolo non manca di certo, con quella specie di crescendo di isterie (delle monache, ma anche dell'Inquisitore e dei suoi) che portano al selvaggio sabba, dove ancora – come era accaduto nel primo atto (la pesante invocazione di Ruprecht che accompagnava l'ossessivo ripetersi del tema di Renata) – abbiamo lo stridente contrasto fra l'orgiastico concertato delle suore (alcune delle quali aiutate dai demoni a liberarsi delle vesti) e le spaventevoli declamazioni dell'Inquisitore, prima che un abbagliante fascio di luce investa la scena e il RE bemolle all'unisono di tutta l'orchestra (appena arricchito dal FA di ottavino, flauti e clarinetti) chiuda la vicenda.

La compagnia di canto si è mostrata davvero all'altezza della prova (non fa troppo rimpiangere quella di cui Gergiev disponeva negli anni '90, immortalata in CD); su tutti naturalmente Mlada Khudoley, che ha il compito più gravoso, per quantità e qualità; compito che ha portato a termine con grande sicurezza. Buona la prova di Nicolaj Putilin nei panni del lanzichenecco, come quella dell'Agrippa Leonid Zachožaev. L'Inquisitore di Michail Petrenko è dotato di bella voce… purtroppo in parte annegatasi nel gran bailamme delle invasate monachelle. Tutti all'altezza i comprimari, che non cito rimandando alla locandina; una nota speciale però per il gruppo di soprani e mezzosoprani: le due novizie e le sei monache, queste ultime che danno vita al tumultuoso finale, insieme con il coro femminile.

Gergiev non è da scoprire oggi, e con quest'opera poi ha un legame particolare. (Una curiosità: lui utilizza la partitura basata sulla versione di Parigi del 1927, con testi in francese, inglese e tedesco. Il testo russo è scritto a mano sotto gli altri tre! Sappiamo che il manoscritto originale con testo russo fu ritrovato insperatamente a Londra nel 1977). Il suo ex-ragazzo-di-bottega (smile!) Noseda evidentemente gli deve aver preparato il terreno nel migliore dei modi, a giudicare dal livello eccellente della prestazione dell'Orchestra. Come di quella del Coro di Fenoglio (donne sulla scena e maschi in buca) applauditissimo.

Per chiudere: ancora un grande risultato da aggiungere al curriculum del Regio. Certo, non è tutta e sola farina del suo sacco, ma anche saper ospitare degnamente produzioni aliene è un merito non da poco.
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