Una Fenice affollata ospita la conclusione della trilogia Mozart-michielettiana, con Così fan tutte.
No so come fosse in DonGiovanni (da me trascurato in favore di quello scaligero) ma di certo Damiano Michieletto nelle Nozze aveva proprio indossato i panni del dr.Jekyll, stimabile e serio professionista.
Per quest'ultima fatica mozartiana sembrava avviato sulla stessa (buona) strada: ambientazione moderna, ma perfettamente consona allo spirito a-temporale dell'opera, recitazione assai curata, scene (Paolo Fantin) costumi (Carla Teti) e luci (Fabio Barettin) molto intelligenti e coinvolgenti. Insomma, uno spettacolo godibile, anche perché sul fronte musicale la prestazione di tutti, da Manacorda a strumentisti e cantanti è stata di assoluta dignità, di livello non certo inferiore a quello di altre che si odono anche in teatri assai più blasonati.
Peccato però che Michieletto – come Ferrando&Guglielmo – a un certo punto debba aver ingerito il tosco che trasforma Jekyll in Hide, l'assassino di opere liriche (smile!)
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Chiunque legga non distrattamente il libretto e, soprattutto, mediti appena un po' sulla musica, non può non concludere che l'opera sia un garbato - e allo stesso tempo caustico, ma ottimistico – schiaffo in faccia a tutti i tabù, i pregiudizi, gli stereotipi, i luoghi comuni, le dicerie, le consuetudini che sono caratteristiche di ogni era geologica (inclusa la nostra) e che quindi si applichi (lo schiaffo…) a meraviglia a qualunque contesto storico in cui l'opera venga calata. Ma è uno schiaffo salutare e benefico, per nulla distruttivo, anzi a suo modo catartico.
Ferrando e Guglielmo vi rappresentano gli stereotipi, se non gli archetipi, di quella mascolinità vanesia e piena di sé che è seriamente convinta che una donna – qualunque donna – da loro degnata di seria attenzione debba eternamente serbarsi fedele, come ad un principe azzurro che la provvidenza ha portato sulla sua strada. Però qui nasce un problema: se di principi azzurri ce ne sono in giro due, una stessa damigella non potrà cedere al primo e poi anche al secondo? E quella che in origine aveva ceduto al secondo, potrà successivamente cedere al primo? (grande, il DaPonte, nevvero?)
Dorabella e Fiordiligi a loro volta sembrano due femmine uscite dai racconti di Liala: sono le damigelle che credono di aver incontrato i rispettivi principi azzurri – mandati dalla provvidenza - a cui mantenersi fedeli per l'eternità. Ma poi, incontrati altri due principi azzurri (gli stessi di prima, che però loro nemmeno sanno riconoscere – figuriamoci! - dietro il goffo travestimento da albanesi o valacchi) si dimenticano dei primi e si innamorano anche dei secondi… a parti invertite.
Poi ci sono uomini e donne che ragionano, con la testa o con… l'utero (smile!) Così DonAlfonso, avendone viste e vissute di cotte e di crude (Ho i crini già grigi, Ex cathedra parlo) dimostrerà ai due stolidi ufficiali che loro - proprio in quanto principi azzurri, pur travestiti – possono far innamorare di sé anche le due morigerate damigelle già precedentemente accasatesi con altri principi azzurri (loro medesimi… a ruoli invertiti). E la navigata plebea Despina darà lezioni di concreto savoir-faire (far all'amor come assassine) alle due nobili e angelicate sorelline estensi, ciascuna pronta - pur dietro pesanti e un tantino ricattatorie sollecitazioni - ad innamorarsi del nuovo principe azzurro di passaggio.
Alla fine Ferrando&Guglielmo dovranno realizzare che il supposto ruolo di principe azzurro – in un mondo dove ce ne sono diversi in circolazione, e quindi nessuno lo è per davvero! - non garantisce alcuna fedeltà femminile (Te lo credo, gioia bella, ma la prova io far non vo' dovranno loro malgrado ammettere, dopo le rinnovate quanto ormai inaffidabili attestazioni di fedeltà delle loro damigelle). E le coppie (ignote) che si riformeranno con la benedizione del filosofo saranno composte da esseri umani (né principi azzurri, né damigelle) che avranno meno certezze di cartapesta in testa ma un po' più di testa sulle spalle.
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Torniamo ora a Michieletto, partendo dal suo finale, pessimista e nichilista. Un'idea tanto velleitaria quanto gratuita, che il regista si è inventato estrapolando in modo assurdo ed indebito un verso cantato nel primo atto da DonAlfonso. Come il regista stesso ricorda in un'intervista: ''E' proprio don Alfonso a usare le parole 'Mi fa da ridere questo lor ridere, ma so che in piangere dee terminar', e in questo mio allestimento le fila tessute da questa sorta di vecchio don Giovanni si risolvono in un finale drammatico''.
Intanto è inequivocabilmente chiaro dal libretto che il piangere cui fa riferimento DonAlfonso riguarda esclusivamente la perdita della scommessa che i due protagonisti maschi han fatto con lui riguardo la fedeltà delle partner. Insomma, un modo come un altro per dire ride bene chi ride ultimo, quando c'è una posta in palio. Poi basta sempre leggere il libretto e in particolare l'ultima strofe, per convincersi che il finale non sarà certo un lieto-fine bigotto e perbenista, ma tutto è fuorchè drammatico. È invece un mirabile invito – che tutti i protagonisti accolgono e condividono - a prender la vita per il giusto verso, con serenità, disincanto e filosofia (take-it-easy! come dicono efficacissimamente gli anglosassoni) abbandonando stupidi pregiudizi e superstizioni e facendosi guidare dal buon senso, dall'equilibrio e dalla ragione.
Che è poi quella che guida il filosofo DonAlfonso, che per DaPonte-Mozart non è per nulla un vecchio alcolizzato-depravato, un perfido guastafeste e rovina-famiglie, come ce lo presenta pervicacemente il regista. Al contrario – basta sempre leggere con attenzione il libretto - lui è l'incarnazione del vecchio saggio, scettico quanto arguto e navigato (pare uscito da un racconto di Eduardo… siamo a Napoli!) Una figura che accoglie in sé tolleranza, realismo, disincanto, il tutto mescolato ad un pizzico di simpatico sadismo… E il cui obiettivo finale non è certo quello di distruggere i rapporti fra le coppie, portandole alla disperazione e al nichilismo, come ci è toccato purtroppo di vedere alla Fenice, ma di portare nel loro mondo un po' d'aria fresca e pulita, liberandolo dagli sgradevoli odori perbenisti e da tutte le ipocrisie che lo caratterizzano.
Michieletto evidentemente ha voluto distinguersi dalle scelte (quasi) obbligate che i registi devono compiere nel rappresentare il finale dell'opera: si riformano le coppie originali, o quelle createsi nella finzione legata alla scommessa? Invece di proporci altre plausibilissime combinazioni (il formarsi di due coppie omosex, perché no… oppure di un quartetto di liberi pensatori, tipo comune del '68) lui ha voluto far l'originale e non ha trovato di meglio che negare che le coppie si riformino, in una visione del mondo ultra-pessimistica, come a dirci: se agli individui vengono aperti gli occhi si fa il loro danno, chè, privati delle loro ipocrite certezze, perderanno totalmente la capacità di relazionarsi fra loro in modo sereno e costruttivo.
Ma era questo ciò che DaPonte-Mozart hanno voluto proporci con la loro opera? La risposta ce la dà – manco a dirlo e come sempre, in questi casi – la musica del Teofilo! Dico, Michieletto, bastava ti facessi la domandina semplice-semplice (che ogni regista si dovrebbe porre quando ha maturato la sua idea e la sua concezione dell'opera): se gli facessi vedere il finale del mio allestimento e gli chiedessi di musicarlo, che musica ci scriverebbe sopra Mozart? Ecco, anche un bambino risponderebbe: ma proprio tutta diversa da quella che ha scritto! Perché, mai ciò che il regista propone qui ai nostri occhi è stato in così stridente contrasto con ciò che il rapsodo ha fatto arrivare alle nostre orecchie! E allora, che si fa? Chiamiamo il solito Allevi per musicare il finale di Michieletto?
Dato al regista ciò che gli spetta (nel bene e nel male) resta da confermare la bontà della prestazione sonora. Su tutti (per me) la Fiordiligi di Maria Bengtsson, che si cala benissimo nella personaggio più complesso – libretto e musica – dell'opera: di alto livello in particolare il suo Rondò. Discreta anche Jose' Maria Lo Monaco, una Dorabella a volte un po' urlacchiante. Caterina Di Tonno ha interpretato splendidamente la navigata Despina: le manca soltanto qualche decibel…
Fra i signori, buono – a dispetto del regista (smile!) - Andrea Concetti come DonAlfonso e dignitosi il Guglielmo di Markus Werba e il Ferrando di Marlin Miller (applaudita la sua Un'aura amorosa). In forma anche il coro di Claudio Marino Moretti, nelle poche ma efficaci sortite. L'orchestra, invero mozartiana (non più di una trentina di strumentisti) ha supportato al meglio le voci, oltre a distinguersi per pulizia nei brani strumentali: merito dei professori e di chi li ha guidati.
In definitiva, uno spettacolo bello e accattivante, di cui Michieletto ha guastato proprio il finale (che però è il succo dell'opera) lasciandosi prender la mano dall'idea di strafare.
8 commenti:
Non ho visto il Così quindi il mio intervento è abbastanza inutile.
Volevo solo osservare che evidentemente Michieletto ha portato sino in fondo la sua idea di "incattivire" la trilogia. In effetti, almeno sulla carta, questa è l'opera che meno si presta all'operazione, però mi piacerebbe vederla in teatro.
Sono molto contento che Antonello Manacorda si sia confermato agli ottimi livelli delle precedenti prestazioni. Ribadisco che il suo è un Mozart di assoluto livello nel panorama odierno.
Ciao!
@Amfortas
Mah, le Nozze non mi son parse per nulla "cattive", nè nell'impostazione generale, nè nella presentazione dei personaggi.
E anche qui, se si escludono DonAlfonso e il finale (che però contano assai...) il tutto poteva benissimo reggere nel rispetto dello spirito dell'opera. Francamente non riesco a capire questo desiderio di fare a tutti i costi qualcosa di nuovo (peraltro non nuovissimo!) anche a costo di contraddire libretto e musica.
Su Manacorda concordo assolutamente. Vedo che invece ancora non lo capisce colei che per Wellber in Aida ha scritto un panegirico delirante:
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2012-02-26/tradimenti-alberghieri-082016.shtml?uuid=AaheYuxE&fromSearch
Beh insomma, il suicidio della Contessa...non è proprio un atto di buonismo (smile!).
Carla Moreni, ti dirò, ogni tanto ha opinioni discutibili espresse in uno stile molto particolare, però di musica ne capisce ed è pure una persona di grande cultura, oltre che persona piacevolissima. Nella fattispecie per quel che riguarda Manacorda è decisamente in controtendenza, boh, saprà lei.
Ciao!
@Amfortas
Vedi, il "suicidio" - se proprio così lo vogliamo interpretare, di Rosina - era una forzatura forse eccessiva di qualcosa che però è nello spirito dell'opera, dove alla fine lei è l'unica a dover "perdonare", in sostanza è l'unica vera vittima di tutta la compagnia. Così come la raffigurazione materiale dei pensieri non proprio amichevoli di Figaro nei confronti del Conte non stravolgeva affatto il senso del libretto.
Sulla Moreni nessun dubbio che sia persona di cultura, ma diciamo la verità: ciò che ha "inventato" per Wellber poteva con lo stesso livello di (in)plausibilità applicarlo benissimo a Manacorda... o viceversa!
Ciao e grazie!
Caro Daland, innanzi tutto complimenti per il tuo scritto, come sempre informato, spiritoso, intelligente. Tuttavia nella considerazione generale dell'opera di Mozart mi permetto di pensarla un po' diversamente da te. Dici che scopo dell'opera è quello di aderire ad un ottimismo permeato di filosofia e disincanto, un ottimismo che ci permetta di superare con equilibrio gli scogli della vita. Questo è certo vero. Però è altrettanto vero che al fondo di tutto permangono un sapore amaro, un senso di spaesamento. Sempre conditi da un sorriso, lontani anni luce dalla tristezza di un esistenzialista nerovestito. E tuttavia uno spaesamento autentico investe le ragazze quando, preda del gioco, si accorgono che proprio nel gioco hanno trovato l'amante che più conviene loro.Questa vertigine lascerà le sue tracce nel dopo. Ecco l'effetto che quell'autentico apprendista stregone (l'espressdione è di Fedele D'Amico) che è Don Alfonso ha sortito: ha suscitato fantasmi che sarà difficile, molto difficile riporre nell'armadio. La tua interopretazione invece mi sembra un po' troppo autobiografica, in qualche modo scopertamente "dalandiana".
Comunque, ancora tanti complimenti
Marco Ninci
Daland, vogliamo uccidere anche Rosina? Eddai! Mi pare davvero un'inutil precauzione, dopo aver puntato anche alla credibilità della Contessa Moreni (strasmile).
Un saluto all'amico Marco, già che ci sono.
@Marco
Caro Marco, intanto grazie per le gentili espressioni!
Credo che - tutto sommato - le nostre opinioni non divergano poi più di tanto.
Come ho del resto scritto nel post, il finale del Così è tutto fuorchè un lieto-fine da "scurdammece 'o passato" (come scrive Michele Girardi nella prefazione al programma di sala ripetendo Despina). Tutte le ombre e i fantasmi che tu citi sono di certo presenti nella nuova esistenza che le coppie (qualunque esse siano!) si apprestano a vivere. Ma il testo di DaPonte e soprattutto la musica di Mozart lasciano - io lo credo fermamente - presagire che il futuro dei quattro sarà sì meno ricco di (fallaci) certezze e più di dubbi, ma anche, come dire, meglio affrontabile. Insomma, i quattro adesso sono "maggiorenni e vaccinati". Invece il finale di Michieletto ce li mostra precisamente in piena crisi di nervi e per nulla disponibili a riprendere, con più ragionevoli prospettive e facendo tesoro dell'esperienza, il cammino dell'esistenza. In ciò mi pare divergere parecchio dallo spirito dell'opera.
@Amfortas
Scusami se ho chiamato la Contessa col suo nome da... nubile. Però qualche regista ci penserà davvero a far finire in tragedia anche il Barbiere!
Un saluto a tutti!
Sì sì, avevo capito, ma mi faceva troppo ridere la piccola commedia degli equivoci.
Tra l'altro i nomi da nubili delle eroine del melodramma sarebbe un ottimo argomento per un post.
Ciao!
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