XIV

da prevosto a leone
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14 novembre, 2019

Lo strampalato Fidelio svizzero a Bologna


Nella bomboniera del Bibbiena è andata ieri in scena - in pomeridiana - la terza delle sei rappresentazioni della nuova produzione di Fidelio, co-realizzata con l’Opera di Stato di Amburgo, dove è passata all’inizio dello scorso anno non senza contestazioni quasi unanimi (pubblico e critica) soprattutto al regista, ma un poco anche al direttore. E pensare che erano (e sono) la coppia-più-bella-di-Amburgo (Delnon-Nagano): sovrintendente e direttore musicale del Teatro! Come se alla Scala venisse censurata una messinscena di Otello con regìa di Pereira e direzione di Chailly (nulla di più probabile, direbbe qualcuno, haha...)

Domenica scorsa Radio3 aveva irradiato la prima che - ad essere sincero - non mi aveva particolarmente entusiasmato: direzione di Asher Fisch piuttosto incolore e impacciata, e cast mediamente poco sopra il minimo sindacale. Ma si sa che l’ascolto tecnologico è ingannatore: infatti quello dal vivo è stato... quasi peggio (!)

Al Direttore israeliano riconosco un sicuro merito: la scelta dell’Ouverture giusta (ad Amburgo Nagano optò narcisisticamente per la Leonore3) e la rinuncia all’usanza mahleriana di infilare la citata Leonore3 prima del finale. Per il resto, siamo più alla magmatica prosopopea di Wagner (del quale Fisch è obiettivamente un grande esperto) che alla trasparente asciuttezza del Ludovico, ecco. Non sono comunque mancati momenti emozionanti, come il coro del primo atto (Leb wohl, du warmes Sonnenlicht) e lo scioglimento delle catene di Florestan da parte di Leonore (O Gott, welch ein augenblick!Meritevole di elogio anche il finale del coro di Alberto Malazzi.

Note miste (e per me in parte sorprendenti) per le voci. Su tutti il Pizarro di Lucio Gallo, veterano del ruolo che interpreta con il giusto grado di sbifidezza, ma senza esagerare: la voce è sempre potente, anche se non priva di qualche forzatura, però, avercene! Sorpresa negativa la Simone Schneider: voce spesso chioccia in acuto e carente nell’ottava grave; una Leonore francamente sotto le mie aspettative. Al contrario, dopo l’ascolto radiofonico che mi aveva quasi orripilato, il Florestan di Erin Caves mi è parso un altro cantante. Tanto per cominciare: niente stonature; e poi buona proiezione della voce e discreta tenuta fino in fondo. Degli altri, sufficiente la Marzelline di Christina Gansch, che se non altro si fa sentire senza problemi (poi se gli acuti fossero meglio controllati meriterebbe quasi un voto discreto...) Di male in peggio gli altri tre interpreti maschili: inudibile (vocina opaca e anonima) il Jaquino di Sascha Emanuel Kramer; vocione artificialmente gonfiato, cavernoso e sgradevole quello di Petri Lindroos (Rocco) e del tutto privo della necessaria autorevolezza (leggasi: una voce di basso corposa ma morbida) il Ministro di Nicolò Donini. Meglio di loro han fatto i due coristi del Comunale, Andrea Toboga e Tommaso Novelli, voci soliste del gruppo di prigionieri.

Pubblico per nulla oceanico e assai freddo durante lo spettacolo: applausetti a scena aperta solo dopo Ouverture, le arie di Pizarro e Leonore nel prim’atto, l’aria di Pizarro e il duetto Leonore-Florestan nel secondo. Applausi un po’ più convinti per tutti - ma di breve durata - alla fine.
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In compenso (?!) tutto quanto di male era stato scritto in Germania a proposito della regìa si è puntualmente quanto inevitabilmente ripetuto nella ripresa bolognese, giustamente (a mio parere) stroncata in questa autorevole recensione della prima.

Io sarò un po’ meno severo, derubricando l’accusa da quella di lesa maestà a Beethoven nell’altra di semplice velleitarismo e banalizzazione del soggetto, da parte di un regista in cerca di Konzept discutibili (la caduta della DDR, le citazioni da opere di Müller e Büchner più fuorvianti che altro) e di trovate da avanspettacolo (vedasi la Marzelline isterica insidiata da Jaquino e Pizarro mentre si suona la mirabile introduzione all’atto secondo).

Insomma: uno spettacolo francamente modesto, di cui temo nessuno si ricorderà... In ogni caso, chi proprio volesse prenderne visione (con il secondo cast) lo può fare stasera stessa collegandosi con lo streaming del Teatro.

22 giugno, 2018

Fidelio redivivo alla Scala


La produzione che aprì a SantAmbrogio la stagione 14-15 viene ripresa in questo periodo alla Scala: dove ieri è andata in scena la seconda recita di Fidelio. Immutata ovviamente la regìa della Warner, che compie 17 anni (la regìa, of course...) mentre è tutto cambiato nei protagonisti canori e nella guida musicale. Sulla messinscena mi limito quindi a link-are il mio commento di allora, non avendo nulla da aggiungere o emendare; mentre ovviamente sarà da articolare diversamente, rispetto ad allora, il giudizio sulla resa musicale.

Parto da un’osservazione riguardo la scelta dell’Ouverture: Barenboim ai tempi aveva - scelleratamente, per me - rispolverato la Leonore 2, in base a considerazioni francamente peregrine e tipiche di chi vuol entrare nel Guinness-dei-primati in fatto di bizzarrìe. Orbene, l’ascetico Chung ha deciso diversamente, rimpiazzando la Leonore 2 con la più celebre (perchè immensamente migliore!) Leonore 3. Il che però rappresenta solo un mezzo passo in avanti: pochè si tratta pur sempre di un travisamento bello e buono della definitiva volontà di Beethoven, che compose l’Ouverture Fidelio e mai più tornò sui suoi passi, anche perchè l’opera, con quell’Ouverture, è entrata a pieno titolo nella storia della musica, prima ancora che nel repertorio di tutti i teatri del pianeta. Insomma, da Chung mi sarei aspettato più... rispetto, ecco.

A parte ciò, il Maestro coreano ha confermato tutta la sua classe, con una lettura ispirata, anche se non scevra (per i miei gusti) da taluni eccessi di sostenutezza che avevano caratterizzato anche quella di Barenboim. Da incorniciare comunque proprio due momenti di sospensione attonita dell’atmosfera: il quartetto del primo atto (Mir ist so wunderbar) e l’estatico passaggio del finale (O Gott! Welch’ ein Augenblick!) da far venire il magone. Ma tutto è stato degnamente proposto, dal coro dei prigionieri alla rabbrividente introduzione allo sfogo di Florestan, dalle violente esternazioni di Pizarro alle paternali di Rocco. Qualche riserva l’avrei proprio sull’Ouverture, dove il bilanciamento archi-ottoni mi è parso carente (a tutto sfavore dei primi). Per il resto l’Orchestra ha risposto bene, e come e meglio di lei ha fatto il Coro di Casoni, che è chiamato a finezze celestiali (nel primo atto) e poi a impervie scalate da sesto grado superiore nel finale, non meno impegnativo di quello dell’An die Freude.  

Note così-così sul fronte delle voci. La protagonista Leonore/Fidelio, Ricarda Merbeth, che avevo ascoltato a Torino nello stesso ruolo nel 2011, purtroppo non mi pare abbia fatto progressi da allora; e se sette anni fa era promettente, oggi, ahilei, sta cominciando a deludere: centri e gravi poco udibili e acuti sbracati, stessa impressione fattami un anno fa sempre a Torino in Isolde. Il suo marito salvato Florestan, al secolo Stuart Skelton mi ricorda (per l’origine australiana e il fisico, ma un po’ anche nella voce) tale Ian Storey che proprio a Torino aveva dignitosamente affiancato la Merbeth. Ieri si è onorevolmente guadagnato la pagnotta (quella che gli porta Leonore giù nella cisterna, perlomeno...)

Passabili i due personaggi leggeri dell’opera: la Marzelline di Eva Liebau, cui fanno difetto un po’ di decibel nell’ottava bassa, e il patetico Jaquino di Martin Piskorski, voce squillante e ben impostata. Il Rocco di Stephen Milling se la cava discretamente, facendo sempre emergere la sua voce autorevole in ogni circostanza (leggi: aria, terzetti, quartetti e concertati). Alla sua altezza anche il Pizarro di Luca Pisaroni: il basso-baritono venezuelano interpreta abbastanza efficacemente il ruolo del cattivone di turno, cui forse musicalmente fa proprio difetto un po’ di cattiveria in più...

Onesta la prestazione di Martin Gantner (il Ministro salvatore) e degne di menzione le brevi apparizioni solistiche dei due membri del Coro scaligero, il tenore Giuseppe Bellanca e il baritono Massimo Pagano

Che dire in conclusione? Qualcosa di meglio rispetto a 4 anni fa, ma niente da ricordare negli annali, ecco. Altra nota dolente: il teatro con vistosissimi vuoti. Per contro i rari-nantes non hanno fatto mancare applausi per tutti.

14 dicembre, 2014

Fidelio: dal vivo è un filino meglio…

 

Ieri sera la terza di questa Leonore (sì, tanto vale cambiarle anche il titolo, operazione filologicamente più corretta di quella di cambiarle… l’Ouverture, smile!) Per l’occasione è tornato il titolare Florestanino Vogt dopo la parentesi (a sorpresa, pare assai gradita dal pubblico della seconda, e che è servita al Sovrintendente entrante per darsi grande lustro) del bel Jonas.

Ormai si è detto e scritto tutto di questa apertura di stagione, che sembrerebbe aver capovolto le recenti usanze (contestazioni del loggione e peana della critica paludata): a SantAmbrogio2014 solo applausi anche dal loggione, mentre dai critici solo… critiche (o quasi: personalmente ricordo un’unica eccezione in Gavazzeni sul Giornale). La costante sembrerebbe quindi da individuare nella cronica opposta ricezione dello spettacolo da parte di loggionisti e critici, quasi a prescindere.   

Poi c’è anche chi, come il sottoscritto, ha invece criticato sia le inaugurazioni recenti (Traviata, Lohengrin, DonGiovanni, per restare all’ultima terna) che questa: magari con argomentazioni diverse e riguardanti diverse componenti dello spettacolo.

La visione/ascolto del 7 in TV mi aveva fatto un’impressione decisamente negativa sul lato suoni e, diciamo così, neutra su quello dell’allestimento teatrale. Ecco, la fruizione live ha – appena appena – migliorato il mio giudizio sulla parte musicale e non è servita a migliorarlo su quella registica. Insomma: questo Fidelio per me resta una mezza delusione.

Barenboim conferma il suo approccio all’opera: che affronta come fosse… Parsifal (smile!) Già nell’Ouverture l’Adagio diventa un Largo e l’Allegro un Andante, e così via degradando: tutta la freschezza mozartiana di cui Fidelio è ricco, soprattutto nel primo atto, si perde così in uno stracco e uniforme tran-tran (non è il caso che l’atto duri quasi un’ora e mezza!) Un filino meglio il secondo atto, stante la componente altamente drammatica, ma in complesso la lettura del sostituendo Direttore Musicale non mi ha per nulla convinto. L’orchestra invece non si è comportata male (perdoneremo la tromba che – dislocata probabilmente in loggione nell’Ouverture – ha sfornato due strafalcioni in sole sei battute del secondo richiamo).

Sul fronte delle voci, pessime notizie da Mojca Erdmann e Florian Hoffmann (Marzelline e Jaquino) che evidentemente alla radio-tv si sentivano per via della collocazione… laringea del microfono (smile!) Che poi il pubblico li abbia applauditi quasi con lo stesso calore riservato a Youn, Vogt e alla Kampe la dice lunga sulle illimitate possibilità di rifilargli impunemente (al pubblico) qualunque bufala.

Ecco, la Anja Kampe ha confermato (alle mie orecchie) i limiti che già parecchi anni fa (con Abbado) aveva denunciato: difetto di potenza in particolare nella cosiddetta ottava bassa, dove è risultata poco udibile. Sugli acuti così-così, mescolando cose dignitose ad urletti che è difficile dire se emessi a bella posta per sottolineare frangenti drammatici, o… a bella posta per mascherare delle deficienze congenite. Per me, un voto appena appena sufficiente.

Una sufficienza più ampia darò alla voce sempre efebizzante (si può dire?) del redivivo Klaus Florian Vogt, che però ha almeno il pregio di farsi sentire benissimo e di avere ottima intonazione.

Kwangchul Youn è uno che in teatro ci guadagna, rispetto alla radio, che tende ad ingrossarne la voce (sempre per via dei microfoni, immagino). Forse non è un basso profondo, ma il ruolo di Rocco non è mica detto che tale debba essere per forza.

Il Pizarro di Falk Struckmann tende pericolosamente allo schiamazzo, e come al solito gli andrebbe ricordato che il cattivo non è autorizzato anche ad essere cattivo cantante, anzi! Peter Mattei fa il suo compitino (cammeo, si dice in gergo) con diligenza ed è quanto basta. Il Coro di Bruno Casoni mi è parso migliorato rispetto alla prima, e bene hanno fatto i suoi due membri (Oreste Cosimo e Devis Longo) chiamati a parti solistiche nel primo atto.

A proposito di udibilità, quasi nulla si è sentito delle parti parlate: qualcuno potrebbe concludere con un grandissimo chi-se-ne-frega (tanto nessuno capisce il crucco e anche se lo capisce chi se ne frega lo stesso perché non è cantato…) Allora però andrebbe riconsiderata la decisione di continuare a proporre (sia pure ampiamente mutilati) questi residui obsoleti del Singspiel!

La regìa della Deborah Warner guadagna poco rispetto alla ripresa TV (che ha il vantaggio, se usata sapientemente, di alternare primi piani a campi lunghi). Al di là di tutte le dotte spiegazioni filo-socio-antropologiche, si tratta di una pura e semplice lettura del libretto, il quale presenta un soggetto archetipico, ergo facilmente trasportabile sotto qualunque tempo e latitudine. Quindi la Warner, come si dice in gergo, ha solo fatto il suo dovere, mettendoci poi qualche puerile ingrediente di attualità: costumi casual e strumenti di lavoro da oltre-cortina-anni50. Se c’è una critica seria da fare all’allestimento è probabilmente il suo costo: secondo me, ogni euro speso in più di 100.000 è stato buttato al vento (e sono soldi nostri!)

Sembra un paradosso, ma uno dei pochi pregi di questa produzione è la rinuncia all’inserimento della Leonore3 prima dell’ultima scena: a parte che non avrebbe avuto senso a fronte della scellerata decisione del Direttore di cambiare l’Ouverture, ma almeno ci ha permesso di apprezzare la grande efficacia drammatica del finale così come mirabilmente concepito – e con quale fatica! - da Beethoven. Non saprei dire se l’unico, isolato buh che è arrivato dal loggione al calar del sipario fosse per Warner o Barenboim (che però all’uscita ha ricevuto solo applausi).  

Tirando tutte le somme, siamo alle solite: con i costi e la prosopopea della Scala abbiamo uno spettacolo di livello non superiore a quello di molte produzioni cosiddette provinciali. Con le tutte le risorse che ci si investono, si avrebbe il dovere di dare di più.

09 dicembre, 2014

Chiarito l’equivoco Florestan




















Certo, da un direttore d’orchestra cosa pretendere di più?

07 dicembre, 2014

Un Fidelio… lumaca apre la stagione scaligera

Eccomi qua a commentare a caldo immagini e suoni (arrivati sotto forma di… pixel&bit) del Fidelio scaligero che ha aperto la (lunga, causa Expo) stagione del Piermarini.

La prima constatazione è l’insopportabile lunghezza dell’interpretazione di Barenboim: che è troppo abituato a Wagner (dove effettivamente eccelle, bisogna riconoscerglielo) ma poi pretende di mettere tutti su quel letto di procuste. Se si esclude il finale (e ci mancava pure…) i suoi sono stati tempi letargici, a partire già dall’Ouverture.

E a proposito non posso esimermi dal fare l’ennesima considerazione sulla bizzarra idea di Barenboim di propinarci la Leonore 2 in luogo dell’Ouverture che Beethoven (sì, proprio un tale Beethoven, guarda te!) aveva faticosissimamente composto per la versione definitiva dell’opera (mai più riveduta o emendata nemmeno col binocolo, nei 14 anni che ancora restarono da vivere al genio di Bonn!) Il colmo della faccenda è che la presentazione dell’allestimento dell’opera nel video pubblicato sul sito del Teatro é accompagnata proprio dalle note dell’Ouverture giusta!

Siamo alle solite, il Kapellmeister di turno (mi spiace dir questo di un Direttore che considero un grande uomo, prima ancora che famoso musicista) vuol farci credere di saperne di più dell’Autore in persona, così butta nel cesso l’ultima trovata dell’Autore medesimo per ripescare… che cosa? La penultima? Che sarebbe perlomeno una gustosissima mela matura: la Leonore 3. Invece no, proprio no, quella che ci viene propinata è la Leonore 2! Il che ti fa lo stesso effetto del mangiare una mela ancora un filino acerba, quando in testa hai il dolce gusto della mela matura: un effetto decisamente sgradevole. Sì, perché sappiamo che per l’uomo tutto è relativo, e tornare indietro è sempre in qualche modo irritante; o ammissibile soltanto se motivato da ragioni, diciamo così, scientifiche. Il che nel mondo musicale si traduce in pratiche ben precise: un festival, o un concerto o al massimo un CD. Ma un SantAmbrogio è – nel bene e nel male – un pranzo di gala dove, se proprio si decide di boicottare le arance, andrebbero almeno servite le mele mature, mica quelle acerbe!

Quanto alla sequenza dei primi due numeri dell’opera (duetto e aria di Marzelline) nel video succitato (a 3’43”) la Warner accenna ad una discussione avuta con Barenboim e a divergenze di vedute rispetto alle sue (di lei) consuetudini. Ora, lei ha già messo in scena Fidelio a Glyndebourne, dapprima nel 2001, poi ancora nel 2006 (da dove è stato prodotto un CD) e sempre nella versione definitiva, quindi quelle che lei chiama sue consuetudini sono in realtà lo standard: prima il duetto e poi l’aria. Ma allora perché parla di divergenze con il maestro? La spiegazione più plausibile è che Barenboim, come fa nel suo CD, scegliendo la Leonore 2 dovesse poi anticipare l’aria, per ragioni di rapporti tonali. E questo è ciò che ci si aspettava facesse anche qui. Invece non è così: abbiamo ascoltato tutti che in apertura c’è il duetto. Come si spiega? Evidentemente lo scambio voluto dal maestro non era accettabile dalla Warner perché ne sconvolgeva l’impostazione registica! E così alla fine la regista deve aver convinto il maestro a ripristinare la sequenza di Beethoven (che però male si armonizza con l’ouverture scelta da Barenboim!) Ora, il solo pensare che due personaggi profumatamente pagati (dai soldi nostri!) abbiano passato ore e ore e forse giorni a discutere del miglior modo per travisare la volontà di Beethoven è davvero deprimente. Purtroppo queste sono, lo ripeto, pisciatine di cane, spacciate per filologia/filosofia. Shame!     

Lo spettacolo della Warner è sostanzialmente lo stesso di Glyndebourne, nel bene e nel male. Domanda: perché non acquistare il prodotto esistente, invece di rifarlo (con tutto ciò che questo avrà comportato a livello di costi) praticamente uguale?

Ho detto nel bene e nel male perché la regista non si inventa cose strane né storie fantasiose: siamo in una prigione (che poi sia una ex-fabbrica, è cosa che nè guasta, né arricchisce) dove una donna travestita cerca il marito ingiustamente incarcerato e alla fine riesce a farlo liberare, approfittando di una provvidenziale ispezione del ministro della giustizia. Apperò, proprio come scritto nel libretto… che noia (smile!) Quindi tutto bene, non fosse che la Warner si fa contagiare dalla stessa malattia di Barenboim (quella delle mele acerbe) e così fa finire l’opera, mentre suona un DO maggiore da spaccare i timpani e abbagliare le pupille, come era nella prima versione del 1805, al buio e sotto una nevicata, invece che sulla piazza assolata del carcere! Certo che Beethoven era proprio un bambino ingenuo che credeva alle favole…

Anja Kampe è Leonore/Fidelio: siccome la ricordo nel ruolo con Abbado (2008) dove nel piccolo Valli di Reggio Emilia già si sentiva poco, aspetto di sentirla dal vivo per verificare se nel frattempo ha imparato a… farsi sentire (smile!) anche senza un microfono in bocca.

Klaus Florian Vogt è il Florestan all’età di 12 anni (stra-smile!) Effettivamente Pizarro doveva essere proprio un pazzo maniaco  per incarcerare un bambino. A parte le battute, va bene che il personaggio non è proprio da Heldentenor, anzi, ma qui si sta esagerando in senso contrario. Perché non basta fare le note giuste, o sbaglio? E il fatto che a Bayreuth lo abbiano catapultato nei panni di Lohengrin dimostra soltanto che anche lassù sono fuori di testa. Fra l’altro, nei parlati sembra invece avere una voce da adulto!

Il migliore, e di gran lunga, del cast è il Rocco di Kwangchul Youn: ma non lo scopriamo oggi, e in fondo ha fatto lodevolmente ciò che ci si aspetta da un grande professionista.

Falk Struckmann è un Pizarro dignitoso, ma nulla più: forse i tempi strascicati di Barenboim non lo aiutano, e così sembra faticare a reggere il fiato.

Onesta e non più la prestazione di Peter Mattei come Don Fernando.

La seconda coppia dell’opera non mi è parsa particolarmente eccitante: Mojca Erdmann e Florian Hoffmann si arrabattano alla meglio, come Marzelline e Jaquino, ma senza mai dare un colpo d’ala.

A parte un incespicamento (così mi è parso, potrei sbagliare) nel finale, si salva per fortuna il coro di Bruno Casoni, che fornisce anche due solisti (Oreste Cosimo e Devis Longo) che non avrebbero fatto peggio dei titolari dei ruoli di Jaquino e Pizarro.

Per il pubblico pare sia andato tutto bene, e anche di più: beati loro e per quanto mi riguarda spero proprio di essere smentito a breve.          

04 dicembre, 2014

Fidelio: arrivano i nostri?

 

Leonora (rapida trae dal petto una piccola pistola e la punta contro Pizarro)
Ancora una parola, e sei morto!
(Si sente la tromba dalla torre.)

Leonora (getta le braccia al collo di Florestano)
Ah, tu sei salvo, gran Dio!
Florestano
Ah, son salvo, gran Dio!

Pizarro (stordito)
Ah, il ministro! Inferno e morte!
Rocco (stordito)
Oh che avviene? giusto Dio!
(Si sente più forte la tromba. Pausa.)

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Questo è il classico Höhepunkt dell’opera: mentre Leonora punta la sua pistola al petto del sanguinario giacobino, ecco che arrivano i nostri! salutati ovviamente - non si potrebbe immaginare altro – dallo squillo di una trombetta:

Che si ripete poco dopo, con più forza ancora. Come si vede, Beethoven già duecento (o poco più) anni fa aveva inventato lo stereotipo dei più spettacolari (e pure beceri) film del Far-West.

Quello che ad un ascoltatore distratto potrebbe sfuggire è che però gli squilli in questione non provengono dallo strumento del trombettiere che accompagna la carica dei nostri, ma da quello di un tirapiedi del cattivone Pizarro! Il quale tirapiedi era stato incaricato dal capo di avvertirlo in quel modo non appena avesse visto il corteggio del Ministro (i nostri, appunto) arrivare lungo la strada da Siviglia. E in effetti le circostanze non sono precisamente quelle dell’arrivo di gran carriera di un manipolo di cavallerizzi in una nuvola di polvere: è una delle massime autorità politiche che viene al penitenziario – comodamente in carrozza e con tanto di scorta - per farvi un’ispezione sul trattamento dei detenuti.

Se poi guardiamo il motivo da vicino, in effetti scopriamo che non ha né un carattere guerresco, né solenne o pomposo: ha piuttosto un che di sbilenco, di irregolare, specie nelle ultime battute, dove il trombettiere sembra quasi incespicare sulle note per raggiungere in qualche modo la tonica SIb. Insomma, un segnale suonato da qualcuno che probabilmente se la sta facendo sotto! 

Questa mirabile forma del richiamo fu messa a punto da Beethoven in occasione della seconda edizione dell’opera (1806, in due atti, come quella definitiva) che vide anche la nascita della famosissima Ouverture Leonore 3, all’interno della quale il segnale della tromba in SIb viene anticipato (sempre proposto per due volte). (Sappiamo che invece l’Ouverture Fidelio, dell'ultima versione del 1814, non contiene rimandi a temi dell’opera.)

Nella prima versione del Fidelio (1805, in tre atti) il richiamo della trombetta è abbastanza diverso, tutto sommato più regolare e quasi virtuosistico, quindi esteticamente e drammaturgicamente poco appropriato alla particolare circostanza (ce lo vediamo il trombettiere spaventato dall’arrivo del Ministro che si mette a fare arpeggi degni di un concerto di Hummel?) Inoltre il motivo è leggermente diverso nella sua apparizione nel terz’atto, rispetto a quella nell’Ouverture (la Leonore 2) come si può notare qui:

Nell’Ouverture è in MIb, cade sulla dominante già a battuta 2 e chiude sulla tonica, mentre nell’opera è in SIb (come nelle versioni successive) ma arpeggia diversamente sulla triade e poi chiude sulla mediante.
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E a proposito di Ouverture, sappiamo che molti Direttori amano recuperare la splendida Leonore 3 infilandola da qualche parte dentro l’opera. Le cronache fanno risalire questa moda all’incirca al 1850: quando si cominciò ad eseguirla come ouverture al secondo atto. Colà la posizionò anche Mahler nelle sue prime direzioni di Fidelio (Praga 1886 e Lipsia 1887). Poi però, a partire da Amburgo (1891) le cambiò di posto, poiché la sua debordante e ottimistica potenza contrastava troppo con la successiva buia scena di Florestan incarcerato, e così cominciò ad eseguirla prima della scena finale (con la quale si raccorda benissimo, sia come tonalità che come atmosfera) e con questa scelta ha fatto molti proseliti fino ai giorni nostri. Personalmente troverei la cosa del tutto inopportuna, non certo dal punto di vista musicale (è una cosa straordinaria) ma da quello drammaturgico: 15 minuti di sosta fra le ultime due scene, che Beethoven aveva tribolato come un matto per giustapporre senza soluzione di continuità, sono davvero troppi, e in più rovinano proprio il mirabile intervento della tromba, riproponendocene gli squilli dopo pochi minuti e distruggendone così tutta la tensione drammatica.

Barenboim non farà questa forzatura, ma in compenso ne combinerà un’altra, come a voler lasciare la sua pisciatina sui muri della Scala, nel suo ultimo SantAmbrogio come Direttore Musicale: invece dell’Ouverture Fidelio eseguirà la Leonore 2! Un suo bisognino (smile!) abituale, avendolo già fatto in un’incisione su CD e in un’apparizione di anni fa ai PROMS. Naturalmente ciò dovrebbe portarsi dietro automaticamente anche l’inversione dei primi due numeri: dopo il DO maggiore dell’Ouverture, che con i suoi schianti finali resta inchiodato nell’orecchio dell’ascoltatore, subito il DO minore dell’aria di Marzelline, invece del lontanissimo LA maggiore del duetto Marzelline-Jaquino, che parte (coerentemente, in Beethoven!) con la dominante MI con cui chiude l’Ouverture Fidelio. Così è nel CD con Domingo e così fu ai PROMS. Ma se leggiamo il libretto della Scala, che pure è ripubblicato per l’occasione, tanto che cita la presenza della Leonore 2 al posto dell’Ouverture giusta, scopriamo che il numero di apertura dovrebbe essere il duetto (?!?) e così pare sia stato eseguito alla generale

Insomma: un guazzabuglio indecoroso (qui arrivano i… mostri!) Dico: se uno oggi vuol divertirsi a inventare tutti gli intrugli possibili e immaginabili con la musica del Fidelio, lo può fare a suo piacimento, e senza scomodare Barenboim e la Scala, semplicemente col suo computer di casa: che senso ha metter su queste arlecchinate per un SantAmbrogio?

12 dicembre, 2011

Un Fidelio non contraffatto piace a Torino


Gianandrea Noseda si cimenta al suo Regio con il Fidelio. Ieri terza delle otto rappresentazioni, in un Regio assai affollato, accolta da un autentico trionfo, minuti e minuti di applausi e corsette al proscenio a non finire per tutti i protagonisti. 

Il mio concittadino ha confermato di essere oggi uno dei migliori Kapellmeister, con un'interpretazione a dir poco eccellente, dai primi accordi secchi di MI maggiore dell'Ouverture, fino alla poderosa semiminima in DO che chiude l'opera. Passando per un memorabile attacco del finale primo e un'altrettanto emozionante apertura del second'atto. Naturalmente sorretto dalla forma dell'orchestra, un insieme compatto, in cui hanno spiccato prestazioni solistiche di prim'ordine (corni e fagotti su tutti). Ma perfetto anche il Coro di Claudio Fenoglio, nel memorabile O welche Lust e nel travolgente finale. Bravo e complimenti a Noseda anche per non aver ceduto alla perenne tentazione di infilare la Leonore III prima del finale: non siamo ad un concerto, vivaddio!

Gli interpreti non saranno tutti membri effettivi dello star-system, ma hanno offerto prestazioni ampiamente al di sopra della sufficienza, a partire dalla Merbeth, una Leonore vocalmente adeguata (cui perdoneremo qualche… eccesso di foga) per passare ad Hawlata, un Rocco misurato e dalla voce calda e rotonda. Gallo è un Pizarro con qualche eccesso di brutalità, ma compensata da grande sicurezza. Storey pare sempre sul punto di impiccarsi, appena arriva al SOL sopra il rigo, però il suo Florestan non è stato per nulla disprezzabile, compresi i tre SIb sparati con sicurezza. La Marzelline della Or sé l'è cavata dignitosamente, pur mostrando una voce non troppo robusta. Stessa cosa dicasi per Kaimbacher, un discreto Jaquino. Il Fernando di Holzer senza infamia e senza lode, ma comunque sopra il livello di guardia. Pena e Jurlin efficaci nei piccoli ma importanti interventi nel coro dei prigionieri.

Insomma, musicalmente un Fidelio per me più che positivo ed emozionante.

Grazie anche alla regìa. Mario Martone non propone improbabili invenzioni, tanto per accontentare qualche schizzinoso che si annoierebbe di un allestimento fedele allo spirito dell'originale, ma così accontenta la stragrande maggioranza del pubblico che – oltre ad ascoltare un Fidelio di alto livello – ne vive il significato più autentico: la razionale condanna di ogni forma di violenza e sopraffazione, e la nobiltà della fede incrollabile nel prevalere della giustizia, di cui Leonore è simbolo assoluto.

Lo scenario è quello di un campo di concentramento, più che di un carcere, la torretta (con altoparlanti) ci rimanda ad Auschwitz, o a qualche siberiano Gulag. Efficacissimo il posizionamento della cella in cui è rinchiuso Florestan, posta nell'angolo sinistro del palco (guardando dal pubblico) e proprio sopra la buca dell'orchestra. Già all'attacco dell'Ouverture un occhio di bue ne illumina la porta ferrata con luce radente, che getta sul bianco sipario tagliafuoco l'ombra di una grata, simbolo dell'oppressione. La scena è assai povera, ponteggi innocenti che servono fra l'altro a rappresentare il piano terra, rispetto al sotterraneo in cui si svolge gran parte del secondo atto. Costumi apparentemente più ottocenteschi che moderni, ma efficaci a presentare la condizione dell'umanità tenuta ingiustamente in catene. Anche Martone non resiste alla tentazione di far scendere in platea un personaggio (Pizarro che legge la lettera-spiata che lo avverte del pericolo) ma è cosa da poco, rispetto agli eccessi canadesi appena visti in Scala.

Efficace e lodevole la direzione dei movimenti di singoli e masse; su tutto lo scatenamento dei prigionieri da parte delle loro donne, a seguito dell'intervento riparatore del Dom.

In conclusione, un bellissimo pomeriggio di musica e di arte. Grazie al Regio e a Torino.
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10 settembre, 2011

Un (mezzo) Fidelio e la Leonore3 trionfano alla Scala


All'annuncio della stagione 2010-2011 de La Scala, in molti avevano di certo pregustato la rappresentazione, in forma scenica, della straussiana Arabella, da parte della Wiener Staatsoper con Welser-Möst. Ma strada facendo (già a SantAmbrogio) corsero voci su cambiamenti di programma, poi la cosa fu ufficializzata: niente Arabella (rappresentata a Vienna giovedi sera!) ma Fidelio. Sempre Staatsoper, sempre Welser-Möst, ma niente scene, esecuzione in forma di concerto. E tanto per infierire, anche il concerto dei Wiener Philharmoniker, che si doveva tenere a ridosso di Arabella, è svanito nel nulla.

Ultima suspence, il minacciato sciopero degli addetti all'accoglienza del pubblico, che aveva francamente del grottesco, date le circostanze, e che è poi rientrato (pratica di solito attuata attorno al 7 dicembre, smile!)

C'è chi sostiene che la forma di concerto sia l'unica adatta a presentare Fidelio, falsa opera di un compositore cromosomicamente sinfonico e troppo freddo e razionale per distinguersi in un campo dominato da emotività e irrazionalità. Altri sostengono esattamente il contrario e fra questi Giorgio Pestelli, che ha riempito due terzi delle pagine del programma di sala per convincerci della teatralità di Fidelio. (Ma di solito, se si deve ricorrere a lunghe e verbose spiegazioni, significa che la tesi traballa… smile!)

Comunque, qui abbiamo proprio un'esecuzione in-forma-di-concerto: cantanti impalati davanti al loro leggìo, neanche l'ombra di qualche scimmiottamento sceneggiato. Gli unici movimenti sono quelli di entrata e uscita dal palco, prima e dopo aver cantato il proprio numero. I dialoghi parlati sono quasi totalmente soppressi, salvo pochissime battute, messe lì più per occupare il tempo dell'entrata del cantante sul palco che altro.

Lunghi applausi all'ingresso dell'Orchestra (70 elementi o poco più) e di Welser-Möst, ma l'Ouverture non scatena entusiasmi (persino i celebri corni lasciano un po' a desiderare…) e il Kapellmeister, dopo un paio di secondi di attesa (del mancato applauso…) attacca il numero di Marzelline (Anita Hartig, bella voce penetrante) e Jaquino (Norbert Ernst, tutto il contrario della Hartig) accolto da deboli battimani. Meglio va alla Hartig con la sua aria, applaudita peraltro freddamente. Nessuna reazione del pubblico al famoso quartetto, che di solito strappa uragani di applausi, né all'aria di Rocco (Hans-Peter König, che forse e senza forse è più adatto a fare gli Hunding e gli Hagen, che non un personaggio di mediocre statura come Rocco…)

Il pubblico resta indifferente anche all'aria di Pizarro (Albert Dohmen, che pure del ruolo è specialista) che avrebbe meritato assai di più, mentre si anima dopo l'Abscheulicher di Leonore (Nina Stemme, che peraltro mi è parsa deboluccia nella cosiddetta ottava bassa).

Insomma, il primo atto, nonostante un apprezzabile coro dei prigionieri (dove il tenore solista si fa sentire meglio di Ernst, pur trovandosi 20 metri più indietro) si chiude senza troppi entusiasmi ed anzi (mi sbaglierò forse) con un paio di timidi buh piovuti dal secondo loggione.

Però sappiamo che il meglio di Fidelio è il secondo atto, che infatti comincia – per me - nel migliore dei modi con l'aria di Florestan (un Peter Seiffert apparso in ottima forma) anche se il pubblico latita ancora. Però dopo la scena-madre e il Namenlose Freude di Nina e Peter cominciano a piovere applausi.

E qui arriva il piatto forte, nella più classica tradizione viennese, inaugurata a suo tempo da tale Mahler: la Leonore3. Quanto fuori posto è in una rappresentazione scenica, tanto è efficace per risollevare le sorti di un concerto! E siccome nessuno (o pochissimi) al mondo la sa suonare meglio dei Wiener, il successo è assicurato e il teatro viene giù, come si suol dire. Il quarto d'ora strumentale consente anche a Nina Stemme di restituire (immagino ad un orchestrale, smile!) il frac con cui fino a quel momento si era presentata (essendo maschio): svelati l'identità e il sesso, la bella svedesina (!) torna in palco con un lungo nero, a godersi il trionfo.

Sì, perchè da qui in poi è un entusiasmante crescendo, grazie soprattutto al coro di Thomas Lang (il cui nome nella locandina web non viene nemmeno citato… vergogna) e in minima misura grazie all'arrivo del super-ministro Don Fernando (un dignitoso Markus Marquardt).

Alla fine gran trionfo per tutti e ripetute chiamate per direttore, solisti e maestro del coro. Una serata, diciamo, un po' diesel, a lenta carburazione, ma poi chiusa in gloria. Forse, date le circostanze - recita blitz, immagino fatta senza rete (cioè senza una prova seria sul posto) - non era lecito chiedere di più…
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06 febbraio, 2011

Fidelio passa da Ravenna



D'inverno Rimini (Nord) è – più o meno – così…

Ma non ditelo ai crucchi (smile!) chè sennò non tornano più da queste parti, dove invece portano anche cose serie, come il Fidelio che passa in questi giorni da Ravenna, al Teatro Alighieri. Trattasi della produzione bolzanina - già lassù collaudata - dell'accoppiata Kuhn-Schweigkofler (gli stessi creatori di una notevole Elektra, un anno fa) rinforzata da interpreti austro-tedeschi.

Teatro lodevolmente stipato e pubblico che ha fatto onore allo spettacolo.

Allestimento intelligente ed interessante, con scene minimaliste di Walter Schütze e luci di Claudio Schmid: una semplice pedana vuota, circondata dai protagonisti, in costumi vagamente moderni, che vi salgono sopra via via che arriva il loro turno di intervenire nel plot. In più solo qualche sgabello e dei pali (tipo lap-dance) che scendono di tanto in tanto dall'alto, ad esempio per ricordarci simbolicamente che ci troviamo in una prigione. Programmaticamente Schweigkofler gestisce la parte attoriale secondo canoni da commedia dell'arte, il che a volte finisce per debordare in avanspettacolo, ma mai in modo volgare. Sotto questo punto di vista devo dire che tutti hanno svolto lodevolmente il loro compito.

Sul piano musicale, cito in ordine di apparizione:

Jaquino era Alexander Kaimbacher: voce leggera ma chiara e gradevole, come quella della Marzelline  di Rebecca Nelsen. Insieme hanno costituito una coppia assai efficace. Molto applaudita, in particolare, la Nelsen. Il tenore ha anche fatto pro tempore il mago da circo, esibendosi in alcuni tipici trucchi (anelli che si separano e si uniscono, spade a trafiggere inesistenti corpi, fuochi fatui che si sprigionano dalle mani) durante la marcia del primo atto, che Kuhn ha tirato in lungo eseguendo puntualmente il ritornello.

Leonore era Anna Katharina Behnke. Un'ottima prestazione, la sua (notevole l'Abscheulicher) in cui trovo un unico neo congenito, per così dire, un eccesso di vibrato sulle note alte che personalmente gradisco poco. Alla fine, grande accoglienza per lei.

 
Il Rocco di Ethan Herschenfeld è più che dignitoso, anche se la voce è poco penetrante e più baritonale che da basso. Nel quartetto iniziale forse è mancato a lui e agli altri tre succitati un tocco di pathos in più che non avrebbe guastato.

 
Don Pizarro era Thomas Gazheli. Prestazione notevole, sia sul piano attoriale (un ennesimo Gouverneur con handicap fisico – tutore alla gamba sinistra – e personalità schizoide) che su quello del canto, dove è stato eccellente nei momenti di grande violenza, mentre l'eccessivo macchiettismo ne ha un poco compromesso le frasi da cantare a mezza voce. Trionfo comunque per lui.


Il Florestan di Andreas Schager (mi) ha molto convinto: voce bella e chiara, non certo da heldentenor, ma per me appropriata al personaggio. Bravo anche ad emettere correttamente i suoni, nella sua aria tremenda di esordio, pur costretto a farlo da posizioni non proprio rilassanti (tipo flessioni sugli avambracci…) Applausi convinti anche per lui.

 
Infine, più che dignitoso il Don Fernando di Sebastian Holecek, voce potente e presenza autoritaria, come si addice al personaggio del lungimirante Minister.

Rouwen Huther e Ruggiero Lopopolo han fatto dignitosamente la loro parte di solisti, in mezzo al coro dei prigionieri.

 
Impeccabile, sia nel commovente coro del primo atto, che nelle finali esternazioni di giubilo, il Vienna Philharmonia Choir guidato da Walter Zeh.

 
Gustav Kuhn non ha resistito alla tentazione di infilare la Leonore 3 subito prima del Finale. Scelta sempre discutibile, nonostante Mahler… Schweigkofler ha cercato di catturare l'interesse del pubblico facendo sedere i prigionieri sulla piattaforma ad assistere alla proiezione di foto dell'Archivio Provinciale di Bolzano (scattate dopo la seconda guerra mondiale) in memoriam, si potrebbe dire, dei tempi in cui i reclusi vivevano serenamente in famiglia. Un diversivo che solo in parte, a mio modestissimo avviso, ha messo riparo ai danni arrecati all'azione dalla lunga cesura imposta dal quarto d'ora sinfonico. Detto questo, un bravi! a direttore e ai professori della Haydn di BZ-TN per l'esecuzione invero trascinante e fragorosamente applaudita a scena aperta.

 
A parte questa discutibile scelta, Kuhn ha ben reso la duplicità del dramma: quasi commedia leggera nel primo atto, tutto in punta di piedi (Pizarro a parte) e giusta pesantezza nel secondo, condotto con serietà davvero tutta beethoveniana. Anche per lui e per l'Orchestra un gran trionfo finale.

 
Conclusione: una bellissima serata di musica, che conferma l'ottimo livello di queste produzioni, spesso definite con sufficienza come provinciali. Avercene!

 

23 agosto, 2009

Barenboim con la Divan ai Proms-09

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Venerdi 21 e sabato 22 i Proms hanno ospitato la West-Eastern Divan Orchestra, diretta dal suo co-fondatore Daniel Barenboim.

Questa orchestra è una vera e propria scommessa perenne, come può esserlo il tentativo di far convivere pacificamente e proficuamente nello stesso recinto cani e gatti, guelfi e ghibellini… israeliani e palestinesi! Provate a mettervi nei panni di un violoncellista palestinese, nativo di Gaza, il giorno dopo che un raid della IDF ha provocato la morte di decine di suoi concittadini, incluso magari qualche suo parente. O anche, nei panni di una flautista israeliana che ha perso amici e conoscenti grazie ad un attentato di kamikaze palestinesi a Jaffa. E tutti a continuare a suonare insieme. Insomma, roba da chiodi!

Bene, questo complesso di separati-che-più-non-si-può riesce a suonare decentemente – non dirò meravigliosamente, chè il senso delle proporzioni va sempre mantenuto – il Preludio e il Liebestod del Tristan e poi, più che decentemente in verità, la Fantastica di Berlioz! Alcuni strumentisti, un’ora dopo, ci fanno ascoltare il delizioso Ottetto di Mendelssohn, e un tirato Concerto da camera di Berg. Grazie davvero, di questi tempi!

Ma il grande appuntamento è il Fidelio del 22. Un Fidelio perfettamente nello spirito dei Proms, a metà fra la scampagnata e l’occasione di acculturamento delle masse.

Barenboim deve accattivarsi subito il pubblico della Royal Albert Hall (chissà perché il commentatore di Radio3 si è ostinato per tutta la sera a trasferire lo spettacolo nella Royal Festival Hall) e così - invece della canonica, ma troppo cerebrale, Overture in MI maggiore – apre con la Leonore III, tutt’altro cipiglio e presa sul pubblico. Dopodichè – e chissà perché… forse per non passare bruscamente dal fracasso del DO maggiore della Leonore al LA maggiore del N°1 ? - parte col N°2, che è in DO (minore, poi maggiore) e chiude però in piano. E così stempera un pochino il successivo passaggio al N°1. Tanto il pubblico – si pensa – non farà caso all’inversione innaturale del nesso logico della trama.

Intanto era successa però una cosa importante, anche questa tipica dello spirito maieutico dei Proms: Waltraud Meier aveva premesso all’Overture il racconto (in lingua inglese, come tutti i successivi suoi interventi durante l’Opera) del significato del Fidelio. Testi tutti scritti da Edward Said, il compianto co-fondatore (di origine palestinese) della Divan con Barenboim: si tratta appunto non già dei recitativi del Singspiel (sono stati tutti eliminati in questa esecuzione) ma di brevi riassunti della vicenda, via via che procede. Un modo come un altro – ma direi abbastanza efficace - per spiegare al pubblico il contenuto di ciò che sta ascoltando.

Appunto, la Meier. Qualcuno potrà storcere il naso sul suo essere un soprano di contrabbando, oltretutto appesantita dal fardello delle innumerevoli Isolde e Kundry che si porta sulle spalle, ma personalmente mi è piaciuta assai e in particolare nell’Adagio del N°9 – quella specie di straordinario concertato in SI maggiore con i corni, Komm, Hoffnung – davvero esposto mirabilmente, inclusa la salita al SI acuto e successiva discesa di due ottave piene, sull’erreichen. Poi ha un pochino pagato dazio, sui lunghi SOL della fine dell’aria, ma insomma… avercene!

Sir John Tomlinson è stato per me un Rocco efficacissimo. Gli rimprovero soltanto un eccesso – tutto da Proms – di gigionerìa ed enfasi retorica. Ma la voce è splendida e perfettamente attagliata al ruolo.

Onesti e dignitosi, la Marzelline di Adriana Kucerova e il Jaquino di Stephen Rügamer. Però bravi, con Tomlinson e Meier, nel difficile Mir ist so wunderbar.

Simon O’Neill era Florestan: mi è parso incerto – calante – nei primi passi della sua difficile aria di apertura, ma poi si è ben ripreso ed ha finito in crescendo. In particolare ottimo, con la Meier, nel famoso O namenlose Freude.

Il Pizarro di Gerd Grochowsky (sostituiva Peter Mattei, originariamente in locandina) ha fatto onestamente la sua parte, ma un poco di grinta in più non avrebbe guastato.

Deludente, perché a mio parere di voce troppo leggera, il Don Fernando di Viktor Rud, a sentirlo pareva che il Ministro si fosse fatto rappresentare per l’occasione da un suo giovane portaborse.

Efficaci i cori, sia nel sempre commovente O welche Lust, che nel finale.

Barenboim ha guidato i ragazzi della Divan da par suo: anche lui, come la Meier, magari fatica a de-wagnerizzarsi del tutto al momento di affrontare Beethoven, ma insomma l’esperienza e il mestiere gli consentono di portare a casa una prestazione di tutto rilevo.

Un’ultima nota sui Proms. Saranno pure una kermesse vacanziera, ma a confronto di certi desolanti panorami nostrani sono davvero su di un altro pianeta. Meno male che c’è la tecnologia radio-webbica che ci permette di goderceli, sia pure a distanza.
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16 settembre, 2008

Fidelio: dubbi sull’onorabilità di Florestan (?)

Su uno dei numerosi - e sempre di buon livello, data la competenza media dei partecipanti - Forum di Festspiele.de ci si preoccupa dell’onorabilità di Florestan (che tradizionalmente rappresenta l’innocente vittima del carnefice Pizarro). Essa è apparentemente messa in discussione proprio dal cattivone, che pregusta la sua vendetta sul prigioniero, apostrofandolo come assassino. "Nun ist es mir geworden, den Mörder selbst zu morden", adesso accade che sarò io ad assassinare l’assassino, canta Pizarro nel primo atto (Aria N°7. “Ha! Welch ein Augenblick!”) Quindi, Florestan sarebbe - o sarebbe come minimo accusato di essere - un assassino?

Nella famosa aria iniziale del secondo atto (“In des Lebens Frühlingstagen...”) Florestan ci racconta di ciò che lo ha condotto in carcere: “Wahrheit wagt ich kühn zu sagen”, ho avuto il coraggio di dire la verità, quindi verosimilmente di prendere apertamente posizione contro il regime. Ed infatti più avanti (Quartetto N°14. “Er sterbe!”) Pizarro, apprestandosi a mettere in pratica il suo progetto (che sarà fortunatamente sventato dall’arrivo del ministro, Don Fernando) canta, rivolto a Florestan: “Pizarro, den du stürzen wolltest, Pizarro, den du fürchten solltest”, Pizarro, che avresti voluto rovesciare, Pizarro, che avresti dovuto temere, chiarendoci quale fosse il possibile disegno politico di cui Florestan è (a torto o ragione) accusato: abbattere un tiranno (sì, un tiranno, poichè solo un tiranno si deve temere). E quale miglior modo per farlo che progettando un assassinio?

Quindi possiamo immaginare che il termine “assassino“, usato da Pizarro nel primo atto, in realtà descriva l’intenzione, arbitrariamente ed artificiosamente attribuita a Florestan dal malvagio governatore, di volerlo uccidere, e non sia la conseguenza di un reato già commesso.

Un forumista dà invece una spiegazione piuttosto improbabile e contorta all’esternazione di Pizarro: che il governatore tema di essere rovinato se Florestan riuscisse a raccontare la sua verità al ministro che sta arrivando (e fin qui tutto fila...) e veda in questa possibile denuncia la sua propria fine, quindi immagini se stesso come vittima di un metaforico assassinio per mano di Florestan (?!)

Non basta, ma per spiegare - sia pure solo teoricamente - la tesi del Florestan assassino, lo descrive come un possibile fanatico, un rivoluzionario, e come tale magari poco rispettoso della vita altrui. Ecco, questo è un autentico abbaglio.

Perchè il fatto di cronaca autobiografica da cui Bouilly prese lo spunto per la sua Léonore, da cui Fidelio fu ricavato, riguarda il periodo del potere giacobino in Francia. Quindi è caso mai Pizarro ad essere un fanatico rivoluzionario, rappresentante del regime delle ghigliottine (non per nulla nel recente allestimento di Kraus con Abbado la macchina mozza-teste occupa continuamente la scena...) mentre Florestan è probabilmente un coraggioso borghese che si è permesso di criticare i sanguinari giacobini. E del resto, che quella prigione accolga gente comune e non dei sovversivi, ce lo confermano le parole - e soprattutto la mirabile musica! - del Coro dei prigionieri (N°10. Finale Atto I) parole che stanno più appropriatamente sulla bocca di benpensanti, che aspirano ad una vita onesta e timorata-di-dio, piuttosto che su quella di rivoluzionari-puri-e-duri. Don Fernando, infine, altro non è se non la personificazione dello stesso Bouilly, il magistrato che si vanterà (magari esagerando o millantando) di aver salvato molta gente dalla ghigliottina.

09 aprile, 2008

Il Fidelio di Abbado (e di Kraus?)

Apriamo e chiudiamo subito il conto con la regia: Kraus, al suo debutto in Opera, ha proceduto secondo un clichè ormai consolidato: quello secondo il quale il regista parte dalle sue proprie idee (non già da quelle dell’Autore, chè sarebbe approccio troppo facile e banale) e poi aggiusta l’ambientazione del dramma in funzione di quelle. Non per nulla aveva dichiarato: “Le idee di Beethoven non sono morte, la conquista della libertà e dei diritti restano problemi attuali. Però è cambiata la speranza in un mondo migliore. È una speranza che non può morire e tuttavia nel nostro tempo è diventata più fievole...” (Verrebbe da chiedergli con quale metro ha misurato la speranza che aleggiava nel mondo del 1805, per stabilire che fosse meno fievole di oggi...)

Quindi il suo Fidelio non è quello che Beethoven mise a punto tanto faticosamente con Sonnleithner e Treitschke, e nemmeno è la Leonore di Bouilly, che tutto sommato il Fidelio prende assai fedelmente a modello. No, Kraus ci presenta il suo Konzept andando a raccogliere elementi dalla storia del post-rivoluzione francese e dalla biografia di quel bizzarro visionario - mezzo rivoluzionario e mezzo reazionario - che fu appunto Bouilly.

Da tutto ciò ricava, e ci propina, un minestrone indecifrabile, dove non esistono sapori distinguibili da altri, e dove tutto è cinicamente uguale a tutto il resto. Che le figure di Rocco e Marzelline non siano quelle di eroi ed eroine, ma di persone che lavorano in un carcere per caso, o perchè non hanno altro modo per sbarcare il lunario, lo sappiamo bene; ma che Fidelio - che si trova lì per ben più nobili ragioni - sia anche lui esattamente come loro (insieme a Marzelline prepara con la più grande indifferenza la ghigliottina su cui sistema poi un condannato, con la testa sotto la lama) è cosa difficile da digerire, obiettivamente.

Pizarro, in compenso, ci viene presentato come un povero handicappato (arriva in carrozzella) che si regge con le grucce... quasi a giustificare con questa menomazione infertagli dalla natura la sua protervia e la sua sete di potere e far nascere in noi un senso di comprensione, se non proprio di simpatia (meno male che ci pensa Dohmen a chiarirci, a suon di musica, la vera personalità del gouverneur).

La ghigliottina. Può anche non essere fuori posto all’inizio, date le circostanze in cui l’opera fu composta (Fidelio entra in scena recandone la pesante lama, portata a far molare, invece delle meno raccapriccianti catene previste in partitura) ma la sua riproposizione finale (al posto, si badi bene, della statua del Re e pronta ad accogliere il collo di Pizarro) e la sua successiva moltiplicazione, accompagnata alla richiusura della prigione che nasconde la luce abbagliante del sole, proprio mentre il coro esplode il tripudio generale, sa di eccessivo cinismo e di realpolitik fuori posto.

Al pari del presentare Dom Fernando nei panni di un cardinale (poteva starci bene anche G.W.Bush, in visita a Guantanamo di ritorno dalla missione compiuta del ripristino della legalità in zone infestate da saddam-pizarri).

Insomma: secondo Kraus noi spettatori di oggi saremmo troppo scafati per emozionarci di fronte a messaggi ingenui e naif quali quelli che ci volle mandare un ingenuo-naif a nome Beethoven; siamo nel terzo millennio e ancora dovremmo dar retta a slogan come vogliamoci bene (IX sinfonia) o la giustizia trionferà (Fidelio) ???

Ma a parte questi dettagli migliorabili, farà fortuna, il Kraus, non c’è da dubitarne, date le lodevoli premesse.
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Dato a Kraus ciò che è di Kraus (e glielo lasciamo volentieri) l’emozione è stata grande, grazie agli interpreti (tutti: strumentisti, cori e solisti) guidati da un Abbado in formissima - anche fisica, si direbbe proprio - che davvero ha tirato fuori tutto ciò che sul Fidelio deve aver distillato in almeno 30 anni di studio... Giusto venerdi scorso, RAI FD5 aveva riproposto il Fidelio di Karajan del ’71: in questi giorni di ricorrenza, e di immancabili (spesso insensati) confronti, l’accoppiata non poteva essere più felice.

Nel generale altissimo livello dell’esecuzione (perdoneremo la defaillance del corno proprio all’incipit dell’Ouverture ed altre piccole sbavature) val la pena ricordare alcune perle, che Beethoven ci regala, e che Abbado&C hanno saputo splendidamente valorizzare. Quei passaggi dove voci e strumenti davvero si sposano meravigliosamente, dialogando quasi in forma concertata (qualcuno critica Beethoven per aver usato le voci come strumenti, ma Fidelio è opera unica anche in questo): gli oboi con Marzelline (andante con moto, n.2); i corni e fagotti, con Leonore (adagio e poi allegro con brio, n.9); fagotti, clarinetti e flauti, col coro (allegro, ma non troppo, n.10, strepitoso qui l’incipit in pianissimo degli archi); gli oboi con Florestan (poco allegro, n.11) e ancora corni e oboi, con tutte le voci (nel sostenuto assai, del finale).








Le ovazioni, interminabili e soprattutto meritate (con copiosa pioggia di fiori dai loggioni) hanno avuto il senso di un premio alla carriera per un artista, che oggi è bello ricordare così...

03 aprile, 2008

Aspettando Fidelio - Leonore III, sì o no?

A quanto si apprende, Abbado non si sarebbe piegato alla moda di infilare la Leonore III fra le ultime due scene dell’opera. L’idea venne a Gustav Mahler, ma non per questo non deve essere criticata (cosa che oggi succede anche alle raffinate, ma inquinanti riorchestrazioni schumanniane del grande direttore e compositore boemo).

Naturalmente, come in tutte le cose, anche Mahler aveva qualche motivazione per quella scelta. Intanto la durata complessiva dell’opera (versione 1814, sia chiaro): la sola pura musica è attorno alle due ore... poco per le abitudini di fine-ottocento, dove la gente pretendeva, in cambio del prezzo del biglietto, di ricevere in cambio anche (se non soprattutto) quantità. Non per nulla le opere brevi (Mascagni, Leoncavallo, tanto per fare qualche nome) magari in atto unico e di durata attorno ai 90 minuti, venivano sempre abbinate, per riempire la serata.

Naturalmente il Fidelio - di ciò ci si scorda troppo spesso - è un Singspiel, e come tale infarcito di recitati (intere scene!) che integrano i numeri musicati: se i dialoghi vengono eseguiti integralmente, già l’opera si rimpingua di almeno mezz’ora. Però la cosa, non da oggi, è pochissimo apprezzata, persino dai pubblici di madrelingua crucca: la trama è arcinota, e si vuole venire al sodo... la musica! Senza troppi chiacchiericci. Abbado ha scelto - come altri - una via di mezzo, “sforbiciando” parte del recitato.

Invece nell’800 - a Parigi soprattutto - ci furono dei Kapellmeister un po’ pazzoidi che, pur di rimpolpare il programma con della musica, infilarono qua e là nel Fidelio altri pezzi strumentali di Beethoven (tutta grande musica, s’intende!) Ad esempio l’allegretto della Settima Sinfonia.

L’idea di Mahler ha anche alcuni pregi, il meno importante dei quali è la copertura del passaggio di scena, dalla buia prigione alla piazza solare (che oggi le moderne tecnologie rendono possibile in tempi record) mentre più serio è il perfetto raccordo musicale (in DO maggiore) che la Leonore III viene a stabilire con il finale dell’Opera.

Tuttavia è innegabile che tale accorgimento introduce una eccessiva lungaggine nell’azione, contravvenendo agli stessi sforzi fatti da Beethoven per stringerla; per di più ci fa risentire, a pochi minuti di distanza, quel doppio squillo di trombetta in SIb, che così drammaticamente aveva rotto la tensione del confronto Pizarro-Leonore; ed è una ripetizione che finisce per banalizzarlo.

Come ha affermato Abbado, in fondo la Leonore III è già presente tutta, pure se diluita, o latente, all’interno del Fidelio.
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Tirate le somme: meglio così.