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consulta e zecche rosse

14 dicembre, 2014

Fidelio: dal vivo è un filino meglio…

 

Ieri sera la terza di questa Leonore (sì, tanto vale cambiarle anche il titolo, operazione filologicamente più corretta di quella di cambiarle… l’Ouverture, smile!) Per l’occasione è tornato il titolare Florestanino Vogt dopo la parentesi (a sorpresa, pare assai gradita dal pubblico della seconda, e che è servita al Sovrintendente entrante per darsi grande lustro) del bel Jonas.

Ormai si è detto e scritto tutto di questa apertura di stagione, che sembrerebbe aver capovolto le recenti usanze (contestazioni del loggione e peana della critica paludata): a SantAmbrogio2014 solo applausi anche dal loggione, mentre dai critici solo… critiche (o quasi: personalmente ricordo un’unica eccezione in Gavazzeni sul Giornale). La costante sembrerebbe quindi da individuare nella cronica opposta ricezione dello spettacolo da parte di loggionisti e critici, quasi a prescindere.   

Poi c’è anche chi, come il sottoscritto, ha invece criticato sia le inaugurazioni recenti (Traviata, Lohengrin, DonGiovanni, per restare all’ultima terna) che questa: magari con argomentazioni diverse e riguardanti diverse componenti dello spettacolo.

La visione/ascolto del 7 in TV mi aveva fatto un’impressione decisamente negativa sul lato suoni e, diciamo così, neutra su quello dell’allestimento teatrale. Ecco, la fruizione live ha – appena appena – migliorato il mio giudizio sulla parte musicale e non è servita a migliorarlo su quella registica. Insomma: questo Fidelio per me resta una mezza delusione.

Barenboim conferma il suo approccio all’opera: che affronta come fosse… Parsifal (smile!) Già nell’Ouverture l’Adagio diventa un Largo e l’Allegro un Andante, e così via degradando: tutta la freschezza mozartiana di cui Fidelio è ricco, soprattutto nel primo atto, si perde così in uno stracco e uniforme tran-tran (non è il caso che l’atto duri quasi un’ora e mezza!) Un filino meglio il secondo atto, stante la componente altamente drammatica, ma in complesso la lettura del sostituendo Direttore Musicale non mi ha per nulla convinto. L’orchestra invece non si è comportata male (perdoneremo la tromba che – dislocata probabilmente in loggione nell’Ouverture – ha sfornato due strafalcioni in sole sei battute del secondo richiamo).

Sul fronte delle voci, pessime notizie da Mojca Erdmann e Florian Hoffmann (Marzelline e Jaquino) che evidentemente alla radio-tv si sentivano per via della collocazione… laringea del microfono (smile!) Che poi il pubblico li abbia applauditi quasi con lo stesso calore riservato a Youn, Vogt e alla Kampe la dice lunga sulle illimitate possibilità di rifilargli impunemente (al pubblico) qualunque bufala.

Ecco, la Anja Kampe ha confermato (alle mie orecchie) i limiti che già parecchi anni fa (con Abbado) aveva denunciato: difetto di potenza in particolare nella cosiddetta ottava bassa, dove è risultata poco udibile. Sugli acuti così-così, mescolando cose dignitose ad urletti che è difficile dire se emessi a bella posta per sottolineare frangenti drammatici, o… a bella posta per mascherare delle deficienze congenite. Per me, un voto appena appena sufficiente.

Una sufficienza più ampia darò alla voce sempre efebizzante (si può dire?) del redivivo Klaus Florian Vogt, che però ha almeno il pregio di farsi sentire benissimo e di avere ottima intonazione.

Kwangchul Youn è uno che in teatro ci guadagna, rispetto alla radio, che tende ad ingrossarne la voce (sempre per via dei microfoni, immagino). Forse non è un basso profondo, ma il ruolo di Rocco non è mica detto che tale debba essere per forza.

Il Pizarro di Falk Struckmann tende pericolosamente allo schiamazzo, e come al solito gli andrebbe ricordato che il cattivo non è autorizzato anche ad essere cattivo cantante, anzi! Peter Mattei fa il suo compitino (cammeo, si dice in gergo) con diligenza ed è quanto basta. Il Coro di Bruno Casoni mi è parso migliorato rispetto alla prima, e bene hanno fatto i suoi due membri (Oreste Cosimo e Devis Longo) chiamati a parti solistiche nel primo atto.

A proposito di udibilità, quasi nulla si è sentito delle parti parlate: qualcuno potrebbe concludere con un grandissimo chi-se-ne-frega (tanto nessuno capisce il crucco e anche se lo capisce chi se ne frega lo stesso perché non è cantato…) Allora però andrebbe riconsiderata la decisione di continuare a proporre (sia pure ampiamente mutilati) questi residui obsoleti del Singspiel!

La regìa della Deborah Warner guadagna poco rispetto alla ripresa TV (che ha il vantaggio, se usata sapientemente, di alternare primi piani a campi lunghi). Al di là di tutte le dotte spiegazioni filo-socio-antropologiche, si tratta di una pura e semplice lettura del libretto, il quale presenta un soggetto archetipico, ergo facilmente trasportabile sotto qualunque tempo e latitudine. Quindi la Warner, come si dice in gergo, ha solo fatto il suo dovere, mettendoci poi qualche puerile ingrediente di attualità: costumi casual e strumenti di lavoro da oltre-cortina-anni50. Se c’è una critica seria da fare all’allestimento è probabilmente il suo costo: secondo me, ogni euro speso in più di 100.000 è stato buttato al vento (e sono soldi nostri!)

Sembra un paradosso, ma uno dei pochi pregi di questa produzione è la rinuncia all’inserimento della Leonore3 prima dell’ultima scena: a parte che non avrebbe avuto senso a fronte della scellerata decisione del Direttore di cambiare l’Ouverture, ma almeno ci ha permesso di apprezzare la grande efficacia drammatica del finale così come mirabilmente concepito – e con quale fatica! - da Beethoven. Non saprei dire se l’unico, isolato buh che è arrivato dal loggione al calar del sipario fosse per Warner o Barenboim (che però all’uscita ha ricevuto solo applausi).  

Tirando tutte le somme, siamo alle solite: con i costi e la prosopopea della Scala abbiamo uno spettacolo di livello non superiore a quello di molte produzioni cosiddette provinciali. Con le tutte le risorse che ci si investono, si avrebbe il dovere di dare di più.

2 commenti:

mozart2006 ha detto...

Questa inaugurazione era comunque l' ultimo prodotto della gestione Lissner. Io confesso che un bell’ in cauda venenum da Lissner me lo aspettavo, anche se con tutte le porcate che ci aveva già fatto ingoiare non ce n' era davvero bisogno.
Il guaio è che lui, beato, crede veramente di fare cose egregie, per cui anche se gli dai legittimamente del pirla la reazione che ottieni è un doloroso stupore per la tua incapacità di comprendere l’ intrinseca bellezza del suo operato. Con uno così, la tremenda serie di (Baren)boiate che la Scala ci ha servito in questi anni forse è stata ancora il male minore.
Ciao!

daland ha detto...

@mozart2006
Sì, Barenboim non è certo stato il lato peggiore della gestione Lissner, anzi: solo per il suo Wagner (di qualità, ma anche di quantità, vedi i due cicli del Ring) il direttore molto di buono ha lasciato. Dal punto di vista musicale non so se o quanto il suo successore saprà far di meglio.
La mia sarà una fissazione dovuta ai miei precedenti professionali, ma quello che fatico a mandar giù è il livello infimo di "performance/price" che il teatro ha raggiunto negli ultimi tempi: davvero auspicherei una seria "spending review", che però facesse pagare ai responsabili le loro incapacità (e i loro conflitti di interessi).
Ciao!