Ieri sera è
andata in scena al Comunale bolognese
la seconda (delle sei) della Lady Macbeth di Dimitri Shostakovich. Purtroppo in un teatro semi-deserto, e
andatosi ulteriormente a desertificare durante i due intervalli. Che dire? Perle ai porci… oppure Shostakovich come Renzi?
Spettacolo
davvero eccellente quello della compagnia del Teatro Helikon di Mosca, arrivata qui con due cast che si
alterneranno regolarmente fino alla conclusiva del 10, accompagnati da
Orchestra e Coro del Comunale.
Il regista Dimitrij Bertman coglie in pieno lo
spirito dell’opera, sia a livello della personalità dei protagonisti (Katerina
in primis, una donna che non chiede altro che di essere amata) che a quello
della denuncia sociale di una società dominata dall’avidità e dallo
sfruttamento (dello schiavo e della donna). L’ambientazione è moderna, ma una
volta tanto ciò non nuoce per nulla all’efficacia e alla coerenza del racconto.
La scena (di Igor'
Neznyj) ha un fondo fisso, costituito da un labirinto di
condotte d’acqua: richiamo all’attività degli Izmailov, proprietari di un
mulino (con annessa diga e condotte forzate) ma anche alla condizione materiale
e psicologica di Katerina, ulteriormente sottolineata da una serie di gabbie
metalliche in cui la donna è spesso costretta a muoversi. Gabbie che bene
servono nel terz’atto ad ospitare gli invitati alla festa di matrimonio e
soprattutto nell’ultimo a rinchiudervi i carcerati destinati alla Siberia.
La fedeltà al
libretto è pressoché totale, se si escludono alcune libertà che il regista si
prende, come quella di far scardinare a Sergei la porta della camera di
Katerina in occasione del loro primo incontro carnale, oppure di far tornare
Zinovy accompagnato da due zoccole, o ancora di far ricomparire nel quarto
atto, solo per camminare in lungo e in largo nella prigione, i… cadaveri dei
due Izmailov. L’unica pecca (secondo me) da addebitare al regista è la comparsa
(da sotto le gonne di Katerina, durante l’ultima sua drammatica esternazione
del lago nero) di un bambolotto
simboleggiante evidentemente un figlio: riferimento chiaro, quanto improprio,
al contenuto del racconto di Leskov,
ma del tutto incomprensibile qui… a meno di non considerarlo una sconfessione
del programma etico e femminista di
Shostakovich e un dar ragione alle pretese della società (zarista ma non solo)
di ridurre la donna a puro strumento di riproduzione. La scena finale del tuffo
in acqua di Katerina e Sonetka è sempre problematica da rendere con efficacia:
anche qui niente tuffi, ma un altro sport: il tiro alla fune! Evabbè, scusato.
Ieri il ruolo
di Katerina toccava a Svetlana
Sozdateleva, che per me è stata assolutamente perfetta: innanzitutto
vocalmente, perché interpretare una parte così senza cadere nel volgare
(musicalmente parlando: urla e schiamazzi) è davvero difficile, e invece lei ha
sempre mantenuto un perfetto controllo dell’emissione. Così come eccellente è
stata la sua immedesimazione nella psicologia del personaggio.
Buono anche il
Sergei di Vadim Zaplechny, che forse
non è riuscito sempre ad imporre la sua voce (ad esempio nella scena delle
molestie ad Aksynia).
Dei due
Izmailov il vecchio Boris (80 anni!) sembrava più giovane del 50enne figlio (!)
Comunque il padre (Dmitrij Skorikov) ha
mostrato autorevolezza sia nel canto che nel portamento superiore a quelle del
figlio (Dmitrij Ponomarev) il che
tutto sommato quadra con testo e musica!
Maja Barkovskaja
impersonava la cuoca Aksynia: efficace nella voce; forse troppo, come dire…
arrendevole nella scena delle molestie (l’avvocato dei molestatori avrebbe buon
gioco a farli assolvere!)
Eccellente il
capo dei poliziotti (Alexandr
Miminoshvili) che ha anche messo in mostra doti di showman durante il trascinante
quanto satirico balletto del
terz’atto alla stazione di polizia.
Stanislav Shvets
impersonava il prete e il vecchio carcerato (nel finale): come prete mi è parso
poco… brillo, ecco! Efficace la sua accorata cantilena sulla strada verso la
Siberia.
Personalmente
non ho troppo apprezzato il contadino cencioso (e ubriaco) di Mikhail Serishev, che nel terz’atto
canta una vera e propria aria: a
parte che il regista gli ha messo in mano un microfono da balera, è la sua voce
ad essermi parsa inadeguata alla sarcastica drammaticità del ruolo.
Stesso
discorso per la Sonetka di Ksenia
Vjaznikova, poco efficace vocalmente, quanto… gnocca fisicamente (!)
Sorvolo sui
comprimari, non certo per biasimo, ma per non scrivere ovvietà.
Invece un
bravo all’Orchestra del Comunale e
soprattutto al Coro di Andrea Faidutti,
perfettamente all’altezza sia della parte vocale che di quella mimica.
Vladimir Ponkin è il
concertatore dello spettacolo: mi è parso cercare l’enfasi in tutti i sensi:
nei grandi momenti d’insieme (gli interludi, ad esempio) dove ha cavato suono e
fracassi strepitosi da un’orchestra che aveva sì e no un terzo dell’organico
previsto da Shostakovich (!) e tenendo tempi fin troppo sostenuti in altri
momenti (esempio la scena finale del terz’atto). In ogni caso, una direzione
encomiabile e segno di grande dimestichezza con questa ostica partitura.
Ecco, a parte
le poltrone e i palchi vuoti… una serata da incorniciare.
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