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26 ottobre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°4


TTutta Russia (ma anche... Ukraina) per il settimanale concerto de laVerdi: si va a ritroso nel tempo, dal Prokofiev in procinto di rientrare in URSS al Ciajkovski entrato... nella piena maturità. Sul podio il redivivo e sempre convincente Stanislav Kochanovsky.

Con lui si presenta la bella Carolin Widmann per offrirci il Secondo Concerto per violino del russo (nato nell’est dell’Ukraina) Prokofiev.

Si tratta in pratica dell'ultima composizione portata a termine da Prokofiev in prossimità del suo ritorno in URSS e - per compiacere l’establishment, oltre e forse più ancora del pubblico - presenta una struttura assai tradizionale. Un Allegro moderato rigorosamente in forma-sonata, con i due temi contrastanti (SOL minore il primo, scuro e pensoso, e SIb maggiore il secondo, più contemplativo); un Andante assai, dove il violino espone una lunghissima e appassionata melodia in MIb, cui segue un Allegretto in RE; infine un Allegro ben marcato, un Rondo in SOL minore dalla struttura assai semplice (A-B-A-C-A-B-A-Coda).   

A dispetto della normalità formale, il pezzo presenta difficoltà non trascurabili e ciò non ha fatto che esaltare i meriti della 43enne monacense, ben supportata da Kochanovsky e dall’Orchestra. Ne è uscita un’esecuzione da incorniciare, e come cornice lei ci ha regalato un prezioso bis bachiano, un pezzo che non si smetterebbe mai di gustare: la Sarabanda dalla Seconda partita, in RE minore.
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Un russo che in Ukraina (ma all’ovest) ci faceva lunghe vacanze (e pure ci componeva capolavori) era Ciajkovski, che a Kamenka, ospite nei possedimenti del cognato Davidov, sfornò nel 1884 la sua Terza Suite per orchestra.

Le quattro composizioni di questo genere seguono assai da lontano la struttura barocca: l’uso del nome è poco più che un trucco escogitato dall’Autore per liberarsi dai rigidi canoni della forma sinfonica - che resta tuttavia sullo sfondo - e dare più spazio alla sua libera ispirazione. Anche nel caso di questa Terza, come ad esempio in quello della Serenata op.48, si potrebbe infatti parlare di una sinfonia anomala: suddivisa in quattro tempi, ma con l’ultimo che prende l’ipertrofica forma di Tema con Variazioni. Seguiamone l’interpretazione islandese del compianto Gennadi Roždestvenski.
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Il primo dei quattro movimenti è sottotitolato Elegia, tanto per chiarire da subito che non si tratta di musica a contenuto filosofico, ma sentimentale... Ci troviamo qua e là accenni, anche sfumati a precedenti composizioni, o anticipi di qualcosa che arriverà in seguito nella produzione dell’Autore. É un Andantino molto cantabile in SOL maggiore, 6/8 (2/4) dove troviamo due temi che in effetti si contrastano poco, essendo entrambi di natura contemplativa.

Il primo, che si ode subito negli archi (43”) è seguito da un controsoggetto in minore (1’24”). La breve transizione che segue (2’08”) ricorda da vicino un passaggio della Serenata composta 4 anni prima e un frammento che ricorda l’Andantino della Quarta. Dopo che il primo tema è stato riesposto anche dai fiati, ecco il secondo tema (3’29”) - qui un primo strappo alle severe regole sinfoniche - che è in tonalità di MIb maggiore. Par di sentirvi (3’40”) un presagio di Bella addormentata (Fata lillà) ma soprattutto (4’07”) la Francesca da Rimini, di 8 anni più longeva. Il tema si sviluppa assai introducendo anche un nuovo motivo, poi viene ripreso fino a chiudere l’esposizione.

Curioso poi lo sviluppo-ripresa: a 6’02” riecco il primo tema esposto bizzarramente nella tonalità del... secondo (MIb) e poi (7’45”) il secondo tema in quella del primo (SOL, qui nel rispetto delle regole). Dopo un ritorno della transizione, a 9’34” è ancora il primo tema a chiudere sommessamente sul SOL.

Segue ora la Valse mélancolique, tempo Allegro moderato, 3/4. Come anticipa il titolo, si tratta di una sommessa e a tratti cantilenante danza che richiama musica da balletto, terreno assai congeniale al compositore. È un brano strutturato in tre sezioni ABA, la prima permanendo in ambito SOL (MI minore e SOL maggiore) la seconda sconfinando nella sottodominante DO.

Aprono gli archi (12’21”) seguiti poi dai flauti che espongono il primo dolente tema in MI minore, subito ripreso con un’escursione (13’06”) a SOL maggiore. A 13’17” ecco un breve, veloce passaggio discendente-ascendente dei tre flauti che ancora richiama la Valse dell’op.48. A 13’24” flauti e clarinetti si librano in svolazzi di crome, sempre in SOL maggiore; poi a 13’43” ecco due ampie e solenni scalate che sfociano nel ritorno a MI minore, per la ripresa (14’09”) del primo tema esposto da corno inglese e viole e successivamente sviluppato.

A 15’10” una transizione caratterizzata da salti di ottava delle viole porta (15’23”) alla sezione B, in tonalità DO maggiore, ma sempre di sapore piuttosto mesto e strascicato (sequenza di semiminima-minima): è un’insistente serie di ottave che lentamente va crescendo di spessore, fino a culminare (17’32”) nella riproposizione della sezione A, tornata al MI minore, che va poi lentamente a spegnersi, sulla triade in pppp MI-SOL-SI degli archi.

Come nella forma sinfonica, segue uno Scherzo, tempo bipartito, ma a due facce (6/8 e 2/4) cioè caratterizzato ora da terzine, ora da duine. Quanto alla tonalità, siamo ancora in MI minore, ma sempre a cavallo con la relativa SOL maggiore. Assai vagamente vi possiamo riconoscere le tre classiche sezioni: Scherzo-Trio-Scherzo, ma anche qui non c’è grande contrasto fra i temi. L’attacco dei legni (19’54”) è effettivamente in SOL maggiore, con una frase di tre battute spiritate chiusa dall’accordo sulla triade. Subito gli archi rispondono con una frase più accomodante, in ritmo puntato. Lo scherzo si anima continuamente di nuovi colori finchè (20’56”) sfocia in una seconda parte più enfatica, dominata dagli ottoni, che porta (21’25”) alla riproposizione stringata del tema dello Scherzo, ridotto all’essenziale.

A 21’49” attacca quello che si può definire il Trio: la tonalità svaria tra SOL e RE maggiore, l’andamento ha un che di ripetitivo e ostinato, con frequenti svolazzi dei flauti a intercalare il motivo di carattere marziale. Una pesante progressione ascendente ci riporta (23’47”) al MI minore dello Scherzo, costellato da interventi di piccole percussioni, che va poi a chiudersi con uno schianto generale.

Colossale davvero, sia per struttura che per durata (pari al 48% dell’intera Suite!) ecco il conclusivo Tema con variazioni, Andante con moto, 4/8, SOL maggiore. Il Tema (24 battute, più una croma di attacco, precisamente come parecchie delle 12 Variazioni) viene esposto dai violini primi, con accompagnamento scandito dal resto degli archi. È un motivo scanzonato, quasi ad evocare un incedere a saltelli delicato o un ballo popolare. Si può suddividere in tre sezioni, ciascuna di 8 battute: soggetto (25’42”) - controsoggetto, con inversione di alcuni intervalli (26’00”) - soggetto (26’17”).

26’33” Variazione 1: Mentre tutti gli archi ripetono il tema in unisono, ma in pizzicato, come a trasformarlo in accompagnamento, flauti e clarinetti lo contrappuntano gaiamente con brillanti figurazioni.  

27’23” Variazione 2 (Molto più mosso): Il tema viene qui scomposto e destrutturato, con i suoi frammenti affidati a strumenti diversi, mentre i violini primi si sbizzarriscono in indiavolate biscrome, dalla prima all’ultima battuta.    

28’08” Variazione 3 (Tempo del tema): É affidata ai soli legni. Il primo flauto espone il soggetto del tema, accompagnato dagli altri legni. Poi ne accompagna (28’30”) il controsoggetto esposto dal secondo clarinetto; infine (28’54”) riprende il soggetto portandolo a conclusione.   

29’19” Variazione 4 (Tempo del tema): É in tonalità SI minore e presenta uno sdoppiamento del controsoggetto, ammontando quindi a 32 battute. Il soggetto viene esposto in minore da corno inglese e clarinetti, seguiti dal resto dei legni. Il controsoggetto, nella sua prima apparizione (29’46”) in SOL maggiore è affidato a violini e viole, ma poi ha una stupefacente ripetizione (Poco più animato, 30’10”) in MI minore, con i tromboni che trascinano l’intera orchestra in un colossale Dies Irae, che poi precipita negli archi fino alla ripresa, in SI minore (30’33”) del soggetto del tema.

30’59” Variazione 5 (Allegro risoluto): É in 3/4 e consta di ben 54 battute. Si presenta quasi come una fuga, con un fitto contrappunto che rende sfumata la suddivisione fra soggetto e controsoggetto del tema.

32’25” Variazione 6 (Allegro vivace): É in 6/8 e la struttura torna quella tripartita (8-8-8 battute). Il soggetto è presentato con pesanti accordi e ritmo marziale tali da renderlo quasi irriconoscibile. Più sciolto e scorrevole il controsoggetto (32’38”) che poi fa spazio al ritorno del soggetto (32’50”) sempre brutalmente scandito.

33’03” Variazione 7 (Moderato): É di appena 18 battute in 2/4 ed è affidata ai soli legni, e ricorda da vicino i corali bachiani. È il soggetto del tema ad esservi esposto e variato, fino a chiudere sulla sopratonica LA e quindi preparare il terreno alla successiva variazione.

33’44” Variazione 8 (Largo): É ancora più breve della precedente: sole 11 battute in 3/4 in tonalità LA minore. É il corno inglese ad intonare il tema con una triste e dolente melopea.

35’00” Variazione 9 (Allegro molto vivace): Sono 40 battute sempre in LA, ma maggiore (più la cadenza finale del primo violino). É uno spezzone del soggetto del tema a farla da padrone, con tutta l’orchestra che ribolle in un crescendo (Più presto, 35’22”) sfociante sul FA# dell’accordo che introduce (35’40”) la cadenza del violino solista. La quale a sua volta fa da apripista per la successiva variazione.

36’19” Variazione 10 (Allegro vivo e un poco rubato): Sono ben 90 battute di 3/8 in tonalità SI minore. È sempre il violino solista a guidare la danza, con sporadici interventi dei legni (che richiamano il soggetto del tema). A 37’40” il fagotto apre la strada all’intervento di clarinetto e oboe, poi corno inglese, che modulano a LA maggiore per esporre una lunga melodia ispirata solo vagamente al tema principale e che sfocia (38’15”) nel ritorno del SI minore intonato dal violino solista, che riprende il suo recitativo e chiude la variazione con una nuova, breve cadenza.

39’55” Variazione 11 (Moderato mosso): Sono 41 battute di 4/4 in SI maggiore. Il soggetto del tema vene qui ampiamente sviluppato, da archi e legni con grande enfasi. A 41’25” si rientra sul SOL maggiore per la chiusura della variazione e la preparazione al gran finale.

41’49” Variazione 12 - Finale - Polacca (Moderato assai): Siamo all’apoteosi, ben 213 battute di 3/4 in SOL maggiore. Dapprima ascoltiamo un’introduzione con fanfare che passano gradatamente dal SI minore al SOL maggiore di impianto. A 42’28” (Allegro moderato) ecco il tema principale farsi largo protervamente nei tromboni e poi nelle trombe; tutta l’orchestra comincia a ribollire e sembra prendere la rincorsa per arrivare (43’00”) al Tempo di polacca, molto brillante.

Difficile individuare un legame chiaro tale da poter considerare il motivo della Polacca come una variazione del tema principale del movimento: Ciajkovski però è un maestro nel farli convivere e ci costruisce un finale dei suoi, enfatico e retorico ma altrettanto trascinante, che non può non esaltare l’ascoltatore.  
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Beh, non c’è da stupirsi se questa Suite superi in popolarità anche più d’una delle sei sinfonie del compositore russo!

Come l’ha interpretata Kochanovsky? E come l’ha eseguita l’Orchestra? Il giovane maestro russo deve conoscere anche particolari poco pubblicizzati della composizione della Suite, se è vero che ha fatto - specie nel finale polacco - alcune scelte agogiche (brevi ritardando e poi tempi forsennati) che si tramanda essere state pensate da Ciajkovski anche se non riportate nelle edizioni a stampa. L’orchestra lo ha assecondato alla grande: da ricordare le splendide cavate dei celli (ieri guidati da Scarpolini) in specie nel secondo tema dell’Andantino iniziale, ma non solo; o lo sbudellante canto del corno inglese della Scotti; o i virtuosismi di Santaniello, per non parlare degli ottoni nel finale, davvero al calor bianco, tanto da far esplodere la sala (non proprio esaurita, va detto) in applausi entusiastici.

19 ottobre, 2019

Händel felicemente orfano della Cecilia


Ieri alla Scala è arrivato in Egitto Kuwait il Giulio Cesare di Händel, come sappiamo ormai da tempo orfano della sua tanto attesa Cleopatra, rimasta sdegnosamente a casa in compagnia di Semele (che si è fatta poi sostituire da... Agrippina) e Ariodante. Ciò non ha però fatto mancare il numero legale (di spettatori, nella fattispecie...): Piermarini con visibili vuoti in platea, ma al confronto con la prima di Quartett c’era un pienone... In ogni caso chi voglia apprezzare (o denigrare) la Cecilia-Cleopatra può sempre connettersi con youtube e vederle all’opera a Salzburg (con una regìa demenziale) compresi Antonini sul podio e Jaroussky come Sesto...
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Una prima osservazione riguarda i... tagli. L’opera (edizione originale del 1724) dura al netto circa 3 ore e 3/4. Con i due normali intervalli ci si avvicinerebbe a... Wagner. Ebbene, come già indicava la locandina online del Teatro, qui lo spettacolo ha quella durata, ma incluso intervallo: il che, conti alla mano, significa che dell’originale è stata tagliata circa mezz’ora. Magari con la lodevole intenzione di non far fare troppo tardi agli stoici spettatori accorsi nonostante tutto a teatro (oppure per esigenze registiche, o per entrambe le ragioni...) Ma ahinoi, a parte alcune parti in recitativo secco (e ci può stare) si tratta di tagli invero barbari, che ci privano di grande musica. I personaggi più penalizzati quantitativamente sono Achilla (che si perde due arie e l’intera scena della confessione dei suoi misfatti e del conseguente pentimento) e Cornelia (due arie in meno).

Nel dettaglio, scompaiono:

Atto I
- Aria n°9 di Cesare Non è sì vago e bello
- Aria n°10 di Cleopatra Tutto può donna vezzosa
- Seconda strofa (Qual sia di questo core) dell’aria n°13 di Cleopatra e ripresa della prima strofa (Tu la mia stella sei)
- Prima parte della scena XI con l’aria n°15 di Achilla Tu sei il cor di questo core

Atto II
- Seconda strofa (Se così Lidia vezzosa) dell’aria n°20 di Cesare e ripresa della prima strofa (Se in un fiorito ameno prato)
- Aria n°22 di Achilla Se a me non sei crudele
- Aria n°24 di Cornelia Cessa ormai di sospirare
- Seconda strofa (Mi sveglia all’ira) dell’aria n°31 di Sesto e ripresa della prima strofa (L’aura che spira)

Atto III
- Tutta la scena I di Achilla (aria n°32 Dal fulgor di questa spada spostata però nell’atto II, a fine della scena X)
- Confessione e morte di Achilla nella scena IV
- Aria n°38 di Sesto La giustizia ha già sull’arco
- Aria n°41 di Cornelia Non ha più che temere
- Seconda strofa (In me/te non splenderà) del duetto Cesare-Cleopatra n°43 (Caro/Bella Più amabile beltà)

Come si vede, ben sette arie cassate totalmente e altre tre in parte: una bella sforbiciata! Di conseguenza si opera un solo intervallo e, per non squilibrare troppo i tempi delle due parti, la pausa è posta all’interno del second’atto, ma non - come cita il libretto di sala - dopo il ricongiungimento Cornelia-Sesto (scena VI) ma assai prima, al termine della scena II, dopo l’aria n°20 (parzialmente tagliata) di Cesare.
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Un’altra considerazione riguarda gli interpreti: si sa che le parti di Cesare, Tolomeo e Nireno furono affidate in origine a (e quindi scritte per) contralti castrati, specie oggi lodevolmente estinta (almeno in ambito teatrale...) Ebbene, l’uso da qualche tempo invalso di impiegare dei controtenori (qui Mehta, Dumaux e Schifano) personalmente non mi convince del tutto: poichè la loro vocalità poco ha a che fare con quella potentissima (di cui esistono testimonianze concrete) dei castrati, che meglio è surrogabile - come si è quasi sempre fatto e spesso ancora si fa - con voci femminili, tipicamente di contralto. Qui - altra scelta discutibile - anche il ruolo di Sesto (in origine soprano en-travesti) è affidato ad un controtenore (Jaroussky). Insomma, si toglie l’en-travesti al personaggio per dirottarlo sulla voce!

Ma a parte queste considerazioni di principio, devo dire che tutti gli interpreti hanno mostrato grande padronanza dei rispettivi ruoli, a partire dalla Danielle de Niese, voce robustissima anche se spesso non tenuta adeguatamente a freno (mi riferisco alla tendenza a sbracare gli acuti a piena voce) e soprattutto alla Sara Mingardo, una Cornelia davvero perfetta, che non meritava lo scippo di due arie. Scippo subito anche dall’Achilla di Christian Senn, al quale però rimprovero (e non è la prima volta) un eccesso di forzature dei toni che finisce per compromettere una prestazione che sarebbe più che discreta. Oneste le figure di contorno e bene il coro di Casoni, impegnato poco (inizio e fine) ma sempre all’altezza. Giovanni Antonini si conferma solido interprete di questo repertorio e l’Orchestra barocca della Scala prosegue con successo il percorso di approfondimento di questo repertorio: impressionante in particolare lo schieramento di corni naturali.  
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Torno ora alla Mingardo per dire come già l’avessi apprezzata in Cornelia anni fa a Torino e per introdurre qualche considerazione sulla regìa di Robert Carsen. Non ripeto qui le premesse esposte proprio in occasione di quella produzione torinese, dove mettevo in evidenza le difficoltà che un regista creativo incontra con questo repertorio. Devo dire che Carsen, forte della sua esperienza, ha saputo metter su uno spettacolo godibilissimo senza minare la struttura e nemmeno i dettagli del soggetto originale.

L’ambientazione da subito pare spostata dall’Egitto al Golfo Persico, poichè si capirà alla fine che c’è di mezzo il petrolio (quasi introvabile nella terra dei Faraoni). Cesare potrebbe essere il generale Norman Schwarzkopf della guerra contro Saddam in Kuwait e Tolomeo uno sceicco troppo ambizioso che farà una brutta fine, lasciando spazio a colleghi di lui più accomodanti con gli yankee. Fin qui niente di nuovo sotto il sole, se è vero che il petrolio ha già sostituito persino l’oro in un Ring a Bayreuth!

Non manca qualche tocco di Kitsch, ma sempre contenuto entro i limiti del buon gusto. Un paio di cadute di tono e di stile (giudizio mio personale) nelle scene degli approcci di Tolomeo a Cornelia e poi dello stesso a Cleopatra, che sfiorano, pur senza valicarne i confini, la volgarità.

Carsen risolve, o cerca di risolvere, il problema capitale di come presentare le interminabili (quanto musicalmente divine!) arie col da-capo con invenzioni a volte geniali, altre un po’ meno. Ad esempio è strepitosa l’interpretazione dell’aria n°14 di Cesare (Va tacito e nascosto) nella scena IX del primo atto: trattandosi di un incontro diplomatico fra romani ed arabi, ecco che assistiamo ad un esilarante scambio di doni fra le due delegazioni, quella di Roma che porta preziosi oggetti targati FENDI e un pallone da calcio (Qatar-2022) e quella araba che reca capi d’abbigliamento locali e un’anguria!

Magistrale anche la resa della scena del Parnaso (aria n°19 di Cleopatra/Lidia V‘adoro, pupille) introdotta da immagini tratte da famosi film su Cleopatra. Un poco fredda l’ambientazione delle scene III e IV del second’atto (quelle del giardino): qui siamo in una palestra dove Cornelia lava il pavimento e dove Tolomeo canta l’aria n°23 (Sì, spietata, il tuo rigore) in cui Carsen rischia di cadere un po’ in basso, ecco... Come fa poi con l’aria n°34 (Domerò la tua fierezza) sempre di Tolomeo (scontro con Cleopatra, scena II del terz’atto).

Simpatica e intelligente la resa dell’aria di Cleopatra n°40 (Da tempeste il legno infranto) che comporta la presenza di una vasca da bagno in cui la principessa si immerge (come da leggenda) e ne esce, sempre schermata da un provvidenziale (o molesto, a seconda dei punti di vista...) lenzuolo retto dalle ancelle.

Anche Carsen però non sempre può tutto, e così spesso e volentieri si rifugia in... corner, o meglio in proscenio, dove relega il/la cantante per la conclusione di parecchie arie, calandogli/le alle spalle uno schermo, che serve anche a mascherare il cambio-scena. Sempre curata nei dettagli - ma qui il regista canadese è davvero un maestro - la recitazione di singoli e masse.

Alla fine ecco la sorpresa: i romani sono proprio... italiani! Barili di petrolio rossi e divise rosse di addetti alle trivellazioni recano un marchio inconfondibile: il cane cammello a sei zampe! Il coro finale vede un enorme oleodotto la cui saracinesca viene aperta da un romano e da un arabo e le due delegazioni (ENI e... Q8?) scambiarsi in pompa magna protocolli di accordo (e perchè non pensare, ehm, anche a qualche corposa mazzetta?)
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Grandissimo successo finale (dopo gli applausi seguiti sempre alle arie) con minuti e minuti di ovazioni per tutti indistintamente: complessi musicali e team di regìa.

Da non perdere! 

16 ottobre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°3 (anteprima)


Il terzo appuntamento stagionale de laVerdi (in programma venerdi e domenica) ha avuto nel pomeriggio una speciale anteprima (una specie di seconda prova generale) nel bellissimo Auditorium della IULM, la giovane quanto già affermata Università milanese (operante anche a Roma) che ha la sua modernissima sede a 2-3 tiri di schioppo dall’Auditorium di Largo Mahler. E anche (soltanto un tiro in più...) dall’Università Luigi Bocconi, nella quale Facoltà di lingue straniere (inopinatamente chiusa nel 1968) operavano i due fondatori della IULM: Silvio Baridon e Carlo Bo, i quali risposero alla chiusura della Facoltà bocconiana con la creazione di un’Università specializzata in lingue moderne, poi allargatasi al più vasto mondo delle arti e della cultura.

E proprio in nome di questi nuovi orizzonti, e per festeggiare la conclusione di un importante progetto di ricerca sulla produzione artistica degli ultimi 50 anni, è nata la commissione che l’Università ha fatto a Nicola Campogrande (vecchia voce - e pure sexy - di Radio3) per la composizione di una nuova opera musicale, intitolata Le sette mogli di Barbablù. Il coinvolgimento de laVerdi è legato agli stretti rapporti culturali esistenti con l’Università e all’ormai consolidata consuetudine del compositore con l’Orchestra, che ebbe il suo culmine in occasione della stagione dell’EXPO, prima che Campogrande approdasse al prestigioso incarico di Direttore Musicale del MITO.

Adesso però arrivano le cattive notizie... Presumibilmente a causa di carenze nella pubblicizzazione dell’iniziativa, è accaduto che nella sala dell’Auditorium principale dello IULM-6 di via Carlo Bo (600+ posti) fossero sedute meno persone di quante gremivano il palchetto sul quale era sistemata l’Orchestra! Ahi ahi... spettacolo assai desolante, devo dire, soprattutto perchè nei paraggi era tutto un pullulare di giovani studenti che avevano appena terminato le attività della loro giornata in ateneo e ai quali avrebbe fatto un gran bene assistere all’evento. Così l’inossidabile Ottavia Piccolo (voce narrante nell’opera), il Direttore Principale Ospite Patrick Fournillier, tutti i ragazzi dell’Orchestra e naturalmente il compositore hanno potuto ricevere l’applauso di soli pochi intimi (sono certo che le cose andranno diversamente venerdi e domenica in Largo Mahler).
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Il soggetto è tratto da Les sept femmes de la Barbe-Bleue di Anatole France (1886), una simpatica, fantasiosa e (dall’apparenza) scientifica ricostruzione della leggenda del famoso personaggio creato attorno al 1660 da Charles Perrault, volta a smentire tutte le dicerie (incluse altre opere letterarie e teatrali) sorte su di lui come serial-killer di giovani mogli. Innanzitutto Barbablù viene identificato in tale Bernard de Montragoux, signorotto proprietario di un castello (les Guillettes) ubicato nella foresta fra Compiègne e Pierrefonds (un centinaio di Km a nord di Parigi).

In sostanza, il tanto vituperato Barbablù era - secondo France, e a dispetto della sua figura imponente e dello sguardo spiritato - una persona mite e sensibile, che non ebbe alcuna responsabilità per la scomparsa delle sei mogli ed anzi fu vittima della macchinazione della settima e della di lei famiglia, amante compreso. In questa fiction - un vero scoop ante-litteram, con tanto di citazioni di fonti, testimonianze e documenti - France ricostruisce le identità di tutte le mogli di Barbablù e le vicende che portarono alla morte (o alla scomparsa) delle prime sei e poi all’assassinio di Barbablù da parte della settima. Spiega anche ciò che si trovava nella famosa stanza proibita (la stanzetta delle principesse sfortunate) del castello delle Guillettes: affreschi e dipinti fiorentini raffiguranti appunto donne sfortunate della mitologia, vittime di vicende cruente, e il pavimento di porfido che dava all’ambiente un colore rossiccio, facendolo sembrare imbrattato di sangue. 
   
Prima moglie: Colette Passage, ammaestratrice di orsi, si stancò presto del ménage familiare e si dedicò sempre più spesso alla sua bestia preferita. Scomparve misteriosamente dopo aver visitato la stanza segreta, e non fu mai più ritrovata.

Seconda moglie: Jeanne de la Cloche, una donna alcolizzata che Barbablù cercò invano di riportare ad una vita più sobria. Un giorno, dopo aver accoltellato il marito credendolo intenzionato ad avvelenarla, lei entrò ubriaca nella stanza segreta, scambiò i dipinti per donne in carne e ossa, assassinate, fuggì invano rincorsa dal marito ferito che cercava di salvarla e si gettò in uno stagno, affogando.  

Terza moglie: Gigonne Traignel, figlia di un fattore di Barbablù, guardiana d’oche, sempre calzante zoccoli e puzzolente di cipolla. Diventata con il matrimonio donna ricca e nobile, le sue pretese di lusso divennero smodate, così come il desiderio insoddisfatto di essere ricevuta a Corte per diventare la favorita del Re. Delusa, si prese un’itterizia che la portò alla tomba. E Barbablù ne fece costruire per lei una davvero sontuosa.

Quarta moglie: Blanche de Gibeaumex, figlia di un militare ferito-di-guerra (ad un orecchio!) che convinse un riluttante Barbablù a sposarla. Poi lei si mise a tradirlo con diversi amanti, finchè un giorno un amante abbandonato non la trovò nella stanza segreta in intimità con un nuovo amante, e la infilzò con la sua spada. La scoperta del cadavere non fece che peggiorare la reputazione di quella stanza segreta.

Quinta moglie: furono i medici a consigliare a Barbablù, distrutto dal dolore e in preda a una grave crisi che l’aveva ridotto in pericolo di vita, un nuovo matrimonio. Angèle de la Garandine era una sua cugina nullatenente e così Barbablù era certo che gli sarebbe rimasta fedele e riconoscente. Lei era però talmente ingenua e credulona che un giorno - mentre Barbablù era a caccia di beccacce - si fece convincere da un frate questuante a salire sul suo asino per andare nel bosco dove l’attendeva l’Arcangelo Gabriele per farle indossare delle giarrettiere di perle... Forse se la mangiò un lupo (!) dato che non fu più ritrovata.

Sesta moglie: Alix de Pontalcin, una povera orfanella, spogliata di tutti i suoi averi da uno sbifido tutore, era sul punto di entrare in convento, ma fu convinta da amici a sposare Barbablù. Purtroppo però lei rifiutò pervicacemente di consumare il matrimonio, tanto che il marito chiese al Santo Padre l’annullamento del legame secondo il diritto canonico, ottenendo il divorzio anche grazie a sostanziose donazioni alla Chiesa. Barbablù giurò a se stesso che mai più una femmina avrebbe messo piede in casa sua!

E veniamo al clou della storia, la settima moglie: dopo alcuni anni, durante i quali erano cresciute in paese le più fantasiose ed anche orripilanti supposizioni sulla fine che avevano fatto le mogli di Barbablù, prese dimora nel maniero di Motte-Giron, a poca distanza dal castello del sei-volte-vedovo (o divorziato...) una certa signora Sidonie de Lespoisse, vedova con quattro figli, due femmine e due maschi. Il suo passato e l’identità del defunto marito restarono sempre un mistero: chi diceva che lui avesse trafficato in Spagna e Savoia, chi sosteneva fosse morto in India; alcuni giuravano che la vedova avesse immensi possedimenti, altri ne dubitavano assai.

Sta di fatto che lei faceva gran sfoggio di opulenza, invitando tutta la nobiltà del circondario alle feste nel suo maniero. La sua figlia maggiore, Anne, era diventata una donna assai abile (dopo aver pettinato Santa Caterina!); quella minore, Jeanne, era in età da marito, ma nascondeva dietro un’apparente ingenuità una precoce esperienza del mondo. I due maschi erano militari: Cosme, arruolato nei Dragoni, era un poco di buono, gran briccone e abile cornificatore. Il fratello Pierre, Moschettiere, al confronto era una brava persona, anche se era a sua volta un donnaiolo e si manteneva con le vincite al gioco delle carte. La signora Lespoisse era in realtà povera in canna e tutto ciò che possedeva erano prestiti ricevuti da usurai parigini, che pretendevano che lei sposasse una delle sue figlie a qualche facoltoso signorotto, minacciando in caso contrario di toglierle tutto: ormai si vedeva nuda in una casa vuota...

Fu allora che mise gli occhi su Barbablù e gli fece visita con la prole in pompa magna e per ben 15 giorni, insieme ad un certo cavaliere de la Merlus, che organizzava battute di caccia e scherzi notturni, vinceva regolarmente al gioco e soprattutto non toglieva mai gli occhi dalla bella Jeanne (senza che Barbablù sospettasse di nulla... lui si era bevuto che i due fossero fratelli di latte) con la quale si appartava nottetempo, finite le feste e i giochi.

Finalmente Barbablù si decise e chiese la mano proprio della più giovane delle due sorelle. Il matrimonio fu celebrato con gran sfarzo a Motte-Giron, anche se gran parte delle preziose suppellettili e dei lussuosi abiti della padrona di casa e dei suoi congiunti erano stati affittati da ebrei parigini, che se li riportarono via subito dopo il termine della cerimonia.

Fu così che, sotto la sapiente regìa della madre - la più gran filibustiera di Francia - l’intera famiglia di Jeanne si installò presso Barbablù, incluso l’intraprendente de la Merlus, che non si staccava un attimo dalla sposa. Un bel giorno Barbablù dovette fare un viaggio di sei settimane per gestire l’eredità di un cugino, morto in battaglia come un eroe, ehm... colpito da una palla vagante di colubrina mentre giocava a dadi su un tamburo! Prima di partire invitò la moglie a trascorrere i giorni in sua assenza invitando amici e avendo un buon tempo; le diede anche tutte le chiavi del castello (appartamenti, dispense, casseforti) compresa quella della stanza segreta.

Ma mentre Perrault narra che le proibì severamente di accedere a quel luogo, in realtà Barbablù si limitò a metterla in guardia dal visitarlo, a causa della sua cattiva fama (dalla quale le precedenti mogli avevano tratto parecchio nocumento). Invece la disinvolta Jeanne non esitava ad abbandonare la compagnia degli amici che le rendevano visita per correre proprio nella stanza segreta. Ma non - come scrive sempre Perrault - per morbosa curiosità, bensì per... interesse sessuale: laggiù l’attendeva regolarmente il brillante (e ben dotato, evidentemente) de la Merlus! 

Ma se si fosse trattato solo di corna, la cosa avrebbe fatto in fin dei conti poco scandalo: anche il più severo dei moralisti avrebbe trovato qualche vaga ragione per giustificare quei comportamenti, abbastanza usuali. No no, la cosa grave è che Jeanne progettò a mente fredda l’assassinio del marito! In combutta con la sorella Marie (artefice del complotto); con i fratelli (dietro la promessa di una brillante carriera miliare); con la madre e - ça va sans dire - con il suo amante de la Merlus.

Barbablù ritornò a casa un po’ prima del previsto, ma non per cogliere la moglie in flagrante, bensì convinto di farle una bella sorpresa. Lei gli restituì le chiavi, ma Barbablù si accorse che quella della stanza segreta doveva essere stata usata: così si disse dispiaciuto, augurandosi che quella visita non dovesse portare qualche disgrazia a tutti. In quel momento Jeanne gridò che la stavano ammazzando, richiamando l’amante e i fratelli. De la Merlus balzò fuori da un armadio ma, da solo, fu presto immobilizzato dal corpulento Barbablù. Allora Anne, accorsa sul posto, chiamò finalmente i fratelli che fecero irruzione nella stanza e trafissero alle spalle il padrone di casa.

Jeanne rimase unica ereditiera di tutte le sostanze del marito: diede una dote alla sorella, acquistò i gradi di capitano per i fratelli e sposò felicemente de la Merlus, che divenne istantaneamente un uomo di specchiata onestà!
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Il melologo di Campogrande (tre quarti d’ora o poco più) prevede una voce narrante, la splendida 70enne (più una settimana!) Ottavia Piccolo, che espone il racconto, una libera riduzione del testo di Anatole France tradotto da Paola Verdecchia, mentre l’Orchestra ne sottolinea i passi salienti, un po’ come accade alle musiche di scena di buona memoria. Sono in tutto 20 numeri musicali con agogica prevalentemente di Andante e Largo (una sola punta di Allegro) che normalmente si intercalano con le parti del racconto, raramente sovrapponendosi alla voce.

Campogrande non ha mancato, introducendo la recita, di lanciare pesanti frecciate ai movimenti che caratterizzarono la musica del ‘900 come fenomeno di totale rottura con ogni tradizione (la musica andò da una parte, il pubblico dall’altra...) e ha rivendicato il ritorno a quella tradizione, di cui lui è interprete convinto. La sua è musica assolutamente diatonica, apparentabile a quella delle grandi colonne sonore dei film (l’attacco pare proprio Korngold!) Devo dire che i vari brani evocano con una certa efficacia le diverse atmosfere e anche le diverse personalità che si incontrano nel soggetto di France: sono di ascolto piacevole e tutto il melologo scorre via con buon ritmo e senza cadute di tensione, godibile e scevro da astruse cerebralità. Il che non è poco; e avrebbe meritato più... audience!

11 ottobre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°2


Il secondo concerto della stagione de laVerdi - dall’impaginazione classica: ouverture, concerto solistico e sinfonia - ha una dedica particolare: non è un personaggio, nè un avvenimento importante, una ricorrenza, un concetto filosofico, un oggetto letterario o magari uno strumento musicale. No, è una tonalità! Il divino, regale, apollineo, eroico MI bemolle maggiore. Attorno al quale gravitano tutti e tre i brani in programma (ma alla fine saranno quattro!) interpretati da un Direttore e un solista non ancora trentenni!

Il londinese Kerem Hasan (evidentemente figlio di emigrati) e attuale Direttore Principale dell’Orchestra di Innsbruck apre la serata con l’Ouverture dalla Zauberflöte, che subito impone a piena orchestra, fortissimo, un severo, triplice accordo:


É la triade a tre bemolli ripetuta in tre configurazioni diverse: a) 1° rivolto di MIb maggiore (SOL-SIb-MIb); b) DO minore (DO-MIb-SOL); e c) fondamentale di MIb maggiore (MIb-SOL-SIb). Anticipa, ma con l’abbrunamento del secondo accordo (che sostituisce il 2° rivolto di MIb maggiore, mediante i DO suonati al posto dei SIb da archi bassi, viole, trombone basso e fagotti) il famoso dreimalige Akkord in SIb (1°, 2° rivolto e fondamentale) nei soli fiati, che comparirà al centro dell’Ouverture per poi caratterizzare l’inizio del second’atto dell’opera, al momento dell’iniziazione di Tamino.

Effervescente l’esecuzione dei ragazzi de laVerdi, un gran bel modo per mettere il pubblico in ottima disposizione per il seguito.
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Di cui è protagonista Felix Klieser da Göttingen, che arriva ad ingambare il suo corno per proporci il Terzo Concerto di Mozart, catalogato K447. No, lui non può proprio imbracciare il suo strumento, poichè un atroce scherzo del destino lo ha fatto venire al mondo completamente privo degli arti superiori. Però, accipicchia, uno che suona così divinamente con i piedi non lo si era mai udito prima!

Purtroppo lui non può proprio arrivare a tutto, così impiega le dita del piede sinistro per premere sulle levette e il piede destro per azionare uno speciale meccanismo che sostituisce... la mano destra che normalmente si infila nella campana per ottenere gli effetti sonori desiderati.

Che dire, un fenomeno che ha dell’incredibile e lascia tutti a bocca aperta, oltre che strappare un uragano di applausi. E lui ringrazia e ci suona (solo soletto) il Rossini del Rendez-vous de chasse, scritto in origine per quattro corni e - ça va sans dire - rigorosamente in MIb maggiore!
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Il funambolico Kerem ha chiuso la serata dirigendo l’Eroica, che Beethoven apre con uno sbrigativo quanto fulminante zweimalige Akkord nella tonalità... del concerto:

Lo stesso accordo comparirà nell’ultimissima battuta della Sinfonia, ma con tre sottilissime varianti: il secondo corno raddoppierà il primo all’ottava inferiore (invece di suonare la mediante SOL); i primi violini faranno convergere SOL e SIb sulla tonica e le viole suoneranno solo la tonica MIb, tacendo il SOL. Tutto ciò non deve essere per nulla casuale (già era avvenuta una cosa simile alla fine dell’Allegro con brio): è un modo per rafforzare ulteriormente, se possibile e in chiusura dell’opera, il peso complessivo della tonica all’interno della triade.

Un celebre (e francamente fasullo) rompicapo per gli addetti ai lavori fu per anni e anni costituito dalla conclusione dello sviluppo del primo movimento, dove si trova la (supposta, dal discepolo Ries) entrata anticipata del secondo corno, sul tema principale in tonica MIb, mentre primi e secondi violini suonano in tremolo uno spezzone (SIb-LAb) di accordo di settima di dominante:
Fu così quindi che Direttori solerti arrivassero a correggere Beethoven: chi spostando alla dominante il tema del corno (SIb-RE-SIb-FA) per portarlo appunto in armonia con lo sfondo dei violini; chi invece abbassando il LAb dei secondi violini a SOL, per mutare l’accordo di settima di dominante in quello di tonica, allineando l’armonia dello sfondo alla melodia del corno!
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Hasan dirige la sinfonia con piglio toscaniniano e gesto scarno ma efficace. Ponendo attenzione anche ai piccoli dettagli di dinamica (come passaggi repentini da forte a piano) che a volte vengono trascurati. In questi casi sarebbe da stabilire quanto sia il Direttore a far tesoro dell’esperienza fatta a contatto con un’Orchestra coi fiocchi, che conosce questa musica meglio delle sue tasche; o quanto l’Orchestra abbia succhiato valore aggiunto dal contatto con le idee interpretative di questo giovanissimo Direttore...

In ogni caso mi è parso di cogliere un buon feeling fra il podio e le sedie: e l’esecuzione è stata davvero apprezzabile ed apprezzatissima dal pubblico. Da encomiare tutte le prime parti (dei fiati, in specie) con menzione speciale per il pacchetto dei corni, impeccabile nel difficile Trio dello Scherzo.

07 ottobre, 2019

Pescatori a Torino


Una nuova produzione del Regio di Torino (che ultimamente ha rinnovato tutto il vertice, dal Sovrintendente al Maestro del Coro) Les Pêcheurs de perles, ha visto ieri pomeriggio andare in scena la seconda recita.

Allestimento interamente nelle mani della coppia Julien Lubek / Cécile Roussat che propongono programmaticamente una lettura (detto senza offesa) da teatro-dei-piccoli, proprio innocente e scevra da ogni possibile dietrologia che da sempre è nata attorno al soggetto. Allestimento al risparmio (almeno spero!): scena praticamente fissa e spoglia (basse scogliere marine) arricchita (si fa per dire) da qualche quinta di palma e da un tronetto di Brahma-tricefalo nel terzo atto. Colori che più sgargiante non si può, inclusi quelle delle luci, e costumi più o meno improbabili. I cori sono sempre ben piantati sul posto, così da garantire ai coristi il massimo confort per il canto; movimenti dei protagonisti sempre misurati e un po’ anche impacciati. Qualche modesta coreografia, a supporto dei passaggi strumentali e corali. Appropriata, perchè in funzione didascalica, la sporadica presenza di una controfigura di Leïla. Insomma, nessun velleitarismo, ma allo stesso tempo nulla che distragga lo spettatore dal godersi questa musica che va giù proprio come un rosolio.

Qui alcune note sull’opera, che ho proposto anni fa. La versione qui presentata è sedicentemente quella originale (1863) come pazientemente ricostruita negli ultimi anni, dopo che per un secolo e più, dalla fine dell’800, erano circolate in tutto il modo versioni spurie, nate addirittura in Italia e poi codificate in Francia (Benjamin Godard). In particolare, il finale non è quello davvero stravolto da tante produzioni creative. Però, tanto per mettere un granello nell’ingranaggio, ecco che il libretto, pubblicato nel programma di sala, presenta ancora per il duetto Zurga-Nadir del primo atto la versione spuria (che riprende Oui, c’est elle! C’est la déesse) al posto dell’originale (Amitiè sainte) che per nostra fortuna è però regolarmente cantato... E a proposito di canto, come già per la prima del 3, Zurga non è interpretato dal titolare Capitanucci, ancora indisposto, ma dal sostituto Pierre Doyen, che vien dal Belgio.
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Sul podio il 37enne americano Ryan McAdams, al quale potrei rimproverare qualche eccessiva dose di zucchero in alcuni passaggi strumentali, che già ne sono abbastanza ricchi di loro, ma in generale la sua concertazione mi è parsa più che efficace e la risposta dell’Orchestra del tutto soddisfacente. 

Benissimo anche il coro di Andrea Secchi, che nell’opera rappresenta il quinto protagonista, tale è la sua presenza in scena.

E fra i protagonisti chi mi è piaciuto di più è la... riserva: Pierre Doyen ha una voce corposa che, fosse anche un filino più morbida, ne farebbe un baritono con i fiocchi. In ogni caso la sua è stata una prestazione fra il discreto e il buono, con punta di diamante l’aria dell’accorata invocazione a Nadir, nel terz’atto.

Hasmik Torosyan è stata una Leïla più che dignitosa: una non eccelsa immedesimazione nel personaggio e qualche vetrosità sugli acuti in mezzo-forte, oltre ad una potenza di voce non straordinaria le impediscono di guadagnarsi, sul mio personalissimo cartellino (copyright Rino Tommasi) più di un 7, ecco. Apprezzabili i suoi delicati vocalizzi sulla barcarola del coro in chiusura del primo atto.

Il francesino Kévin Amiel è stato un Nadir così-così (a lui qualcuno ha indirizzato un paio di ululati...): la parte è difficile, se non proprio proibitiva, e certi ricordi che tornano all’orecchio (Kraus, per citarne uno...) fanno da termine di paragone piuttosto duro. Ma lui è giovane e non può che migliorarsi.

Buono anche lo standard di Ugo Guagliardo nei panni di Nourabad, parte sostenuta con sufficiente autorevolezza e buon portamento.  
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Ecco, una produzione senza grandissimi nomi e senza sfoggio (e dispendio!) di potenti mezzi, che ha però pienamente soddisfatto un pubblico assai folto, che ha tributato lunghi e convinti applausi a tutti: quale differenza rispetto ai modesti applausi di cortesia che un Piermarini semideserto ha riservato sabato sera alla prima di Quartett. L’impietoso confronto la dice più lunga di tanti paludati studi di sociologia della musica!

06 ottobre, 2019

Francesconi imperversa a Milano


In concomitanza e assonanza con l’edizione 2019 di Milano Musica, dedicata al compositore, la Scala ripropone Quartett di Luca Francesconi, che vide la luce più di 8 anni orsono, commissionata proprio dal Teatro. Dopo l’anteprima-giovani del 2, ieri sera è andata in scena la prima delle sei recite in cartellone. Rispetto al 2011 è cambiato solo il Direttore, mentre sono tornati i due (unici) protagonisti e il team di regìa.

Qui alla Scala si assiste infatti all’allestimento originale dell’opera, che è già stata ed è tuttora rappresentata in giro per il mondo anche in produzioni diverse. Quanto invece al contenuto musicale, parecchie sezioni dell’opera (coro e orchestra grande - OUT, dietro le quinte - registrate qui dal vivo nelle recite del 2011) vengono adesso diffuse nei teatri che ospitano Quartett attraverso sistemi di amplificazione. Con risultati a volte disastrosi, come riportano da Berkeley. Per fortuna qui tutto è andato assai bene: evidentemente i tecnici IRCAM han fatto del loro meglio.

Personalmente ero rimasto assai perplesso ai tempi della prima, e il mio scetticismo non era sfumato rivedendo e riascoltando l’opera (in questa ripresa català del 2017, con l’allestimento originale della Fura e gli stessi due protagonisti) in vista dell’appuntamento di ieri. Ma devo dire che anche questa nuova esperienza non mi ha portato a rivedere quel giudizio.

Il soggetto - questo è risaputo - gia’ non è dei più facili da assimilare: in particolare lo sdoppiamento dei due personaggi (scene 6-8 e 10-12) non è semplice da decifrare per uno spettatore che non abbia ben presente questo espediente inventato dall’autore del dramma originale (Heiner Müller) e conservato da Francesconi; anche perchè la lingua (inglese) non aiuta certo a seguire nel modo più efficace la trama.

Certo, lo spettacolo di per sè sarà pure di buon livello e di forte impatto, ma ciò che mi convince meno è proprio la musica! E non solo per la sua atonalità (ad esempio il seriale Wozzeck mi risulta assai meno indigesto); ma perchè la trovo (in specie proprio il canto) eccessivamente sostenuta, affettata, scarsamente dotata di varietà di inflessioni e di pathos; invece pare un continuo lamento isterico, una serie di esternazioni allucinate che - a voler malignare - si potrebbe definire una... lagna. Le parti puramente strumentali sollevano la media, ma restano poca cosa. Verdi usava parlare di tinta per le sue opere: ma non era mai un colore fisso e monotono, perbacco!  

Mi viene qui da fare una riflessione che spesso mi ronza in mente, ascoltando musica di questo genere: ma se lo stesso soggetto potesse essere oggi musicato non dico dallo Strauss della Salome e di Elektra, ma anche solo dal Korngold di Die tote Stadt, cosa ne uscirebbe? Ebbene, con tutto il rispetto dovuto a Francesconi, mi sentirei di scommettere che il risultato sarebbe assai più accattivante. Insomma, ripeto quanto esposto l’altro ieri in occasione dell’apertura di Milano Musica all’Auditorium: questa è musica difficile da capire razionalmente (a dispetto del massiccio impiego di strumenti... scientifici per la sua composizione ed esecuzione) ed esasperante se ascoltata in modo passivo. Gli enormi spazi vuoti al Piermarini e l’accoglienza tiepidina allo spettacolo (che pure sta registrando una discreta presenza presso i teatri nel mondo) la dicono lunga su quanto poco (non dico nulla) la musica contemporanea riesca a far rinverdire i fasti di un passato glorioso dal quale continua invece ad allontanarsi sempre più.

Ovviamente sono solo da lodare le prestazioni dei protagonisti: Maxime Pascal, già applaudito qui un paio d’anni fa per una primizia di Sciarrino, e soprattutto i due interpreti Allison Cook e Robin Adams, ormai evidentemente in simbiosi con le loro parti, avendole cantate ripetutamene in giro per il mondo.
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PS: sto partendo in treno per Torino, dove mi aspetta... l’antidoto!