In concomitanza e assonanza con
l’edizione 2019 di Milano Musica,
dedicata al compositore, la Scala ripropone Quartett
di Luca Francesconi, che vide la luce
più di 8 anni orsono, commissionata proprio dal Teatro. Dopo
l’anteprima-giovani del 2, ieri sera è andata in scena la prima delle sei
recite in cartellone. Rispetto al 2011 è cambiato solo il Direttore, mentre sono
tornati i due (unici) protagonisti e il team di regìa.
Qui alla Scala si assiste infatti all’allestimento
originale dell’opera, che è già stata
ed è tuttora rappresentata in giro per il mondo anche in produzioni diverse. Quanto
invece al contenuto musicale, parecchie sezioni dell’opera (coro e orchestra
grande - OUT, dietro le quinte - registrate qui dal vivo nelle recite del 2011)
vengono adesso diffuse nei teatri che ospitano Quartett attraverso sistemi di
amplificazione. Con risultati a volte disastrosi, come riportano da Berkeley.
Per fortuna qui tutto è andato assai bene: evidentemente i tecnici IRCAM han fatto
del loro meglio.
Personalmente ero rimasto assai perplesso
ai tempi della prima, e il mio
scetticismo non era sfumato rivedendo e riascoltando l’opera (in
questa ripresa català del 2017, con l’allestimento originale della Fura
e gli stessi due protagonisti) in vista dell’appuntamento di ieri. Ma devo dire
che anche questa nuova esperienza non mi ha portato a rivedere quel giudizio.
Il soggetto - questo è risaputo - gia’
non è dei più facili da assimilare: in particolare lo sdoppiamento dei due
personaggi (scene 6-8 e 10-12) non è semplice da decifrare per uno spettatore
che non abbia ben presente questo espediente inventato dall’autore del dramma
originale (Heiner Müller) e conservato da Francesconi; anche
perchè la lingua (inglese) non aiuta certo a seguire nel modo più efficace la
trama.
Certo,
lo spettacolo di per sè sarà pure di buon livello e di forte impatto, ma ciò
che mi convince meno è proprio la musica!
E non solo per la sua atonalità (ad
esempio il seriale Wozzeck mi risulta
assai meno indigesto); ma perchè la trovo (in specie proprio il canto)
eccessivamente sostenuta, affettata, scarsamente dotata di varietà di
inflessioni e di pathos; invece pare un continuo lamento isterico, una serie di
esternazioni allucinate che - a voler malignare - si potrebbe definire una...
lagna. Le parti puramente strumentali sollevano la media, ma restano poca cosa.
Verdi usava parlare di tinta per le
sue opere: ma non era mai un colore fisso e monotono, perbacco!
Mi
viene qui da fare una riflessione che spesso mi ronza in mente, ascoltando
musica di questo genere: ma se lo stesso soggetto potesse essere oggi musicato non
dico dallo Strauss della Salome e di Elektra, ma anche solo dal Korngold
di Die tote Stadt, cosa ne uscirebbe?
Ebbene, con tutto il rispetto dovuto a Francesconi, mi sentirei di scommettere
che il risultato sarebbe assai più accattivante. Insomma, ripeto quanto esposto
l’altro ieri in occasione dell’apertura di Milano
Musica all’Auditorium: questa è musica difficile da capire razionalmente (a
dispetto del massiccio impiego di strumenti... scientifici per la sua
composizione ed esecuzione) ed esasperante se ascoltata in modo passivo. Gli
enormi spazi vuoti al Piermarini e l’accoglienza tiepidina allo spettacolo (che
pure sta registrando una discreta presenza presso i teatri nel mondo) la dicono
lunga su quanto poco (non dico nulla) la musica contemporanea riesca a far
rinverdire i fasti di un passato glorioso dal quale continua invece ad
allontanarsi sempre più.
Ovviamente sono solo da lodare le prestazioni dei
protagonisti: Maxime Pascal, già applaudito
qui un paio d’anni fa per una primizia di Sciarrino,
e soprattutto i due interpreti Allison
Cook e Robin Adams, ormai
evidentemente in simbiosi con le loro parti, avendole cantate ripetutamene in
giro per il mondo.
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PS: sto partendo in treno per Torino, dove mi aspetta... l’antidoto!
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