XIV

da prevosto a leone
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16 novembre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.7

Finalmente Emmanuel Tjeknavorian arriva sul podio dell'Auditorium da Direttore Musicale! Dopo aver diretto (15 settembre scorso) il Concerto inaugurale alla Scala, si cimenta oggi con un programma di impaginazione tradizionale.

Pubblico foltissimo e con nutrita rappresentanza di teen-agers, il che fa sempre bene al morale, ecco!

Concerto aperto da un brevissimo, ma notissimo, brano di Hector Berlioz, la Marche hongroise, nota anche come Marcia di Rákóczi, valoroso nobile magiaro che capeggiò, all’inizio del 1700, i moti di ribellione contro gli Asburgo.

La storia della composizione è abbastanza bizzarra, come lo stesso Autore ebbe a ricordare assai coloritamente nelle sue Mémoirs (secondo volume, Terza lettera a Humbert Ferrand). Vi troviamo un riferimento dettagliatissimo a questo brano: esso viene composto in un battibaleno a Vienna, nel febbraio del 1846, alla vigilia della partenza per la tappa ungherese del tour del compositore nei territori dell’Impero asburgico.

Dunque, arrivato dopo incredibili peripezie (esondazioni del Danubio, avventuroso viaggio in carrozza e rischi di annegamento) nella capitale magiara (Pest, ai tempi non ancora gemellata con Buda...) il compositore ha in programma un concerto al locale Teatro, e non gli par vero di infilarci, come bis di chiusura (fa sempre le cose in grande, il nostro!) la sua freschissima trascrizione del motivo musicale più popolare laggiù (come poteva essere in Francia la Marsigliese…) 

Alla vigilia però emergono serie preoccupazioni: il timore che l’iniziativa possa essere fraintesa e contestata dal pubblico perché accusata di lesa-maestà… Il caporedattore di un influente giornale di Pest si fa consegnare la partitura e ne trae un giudizio non proprio lusinghiero, criticando in particolare l’assenza di passaggi in fortissimo, come si attenderebbe il pubblico ungherese, patriottico come pochi.

Berlioz non si perde d’animo, rinforza l’orchestrina del Teatro con strumentisti della Filarmonica e chiude il concerto con la Rákóczi. Miracolo! La marcia ha un successo di portata storica, il pubblico va addirittura in delirio, la interrompe più volte con manifestazioni di giubilo, in un fracasso da stadio! Berlioz deve ripeterla e alla fine viene letteralmente portato in trionfo, promosso sul campo eroe nazionale. Persino un vecchio e malandato patriota corre ad abbracciarlo, lodando la Francia e i suoi sentimenti rivoluzionari!

E non per nulla la Rácóczy, ricordo di una sua grandiosa impresa, venne poi infilata da Berlioz alla fine della Prima Parte de La damnation de Faust, appositamente ri-ambientata in Ungheria!

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Il vulcanico Tjek la dirige con piglio davvero garibaldino, meritandosi applausi calorosi. L’unico appunto che mi sento di fare non ha nulla di musicale, ma di… logistico: quando il concerto è aperto da un breve brano orchestrale seguito da uno con il pianoforte, di norma la tastiera è già messa in posizione, con il coperchio ovviamente abbassato, così da evitare un intervallo supplementare. Purtroppo, ieri ciò non è avvenuto (sono certo che si poteva trovare comunque il modo di non sacrificare due violini e due celli). 

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Un poco più che ragazzino (22 anni) che però è già affermatissimo in giro per il mondo, il viennese (come Tjeknavorian, con il quale fa regolarmente coppia anche in concerti cameristici) Kiron Atom Telian, si siede alla tastiera per suonarci un altro celebre brano, il Primo Concerto di Chopin.

La sua è stata una prestazione davvero stupefacente: dopo aver pazientemente atteso che l’Orchestra sciorinasse i temi dell’Allegro maestoso, lui ha attaccato lo strumento quasi con ferocia, scolpendone mirabilmente le prime due battute; poi è stato tutto un crescendo di passione e ispirazione. Nella centrale Romance ci ha dato una lezione di puro rubato chopiniano, portandoci come in un sogno metafisico. Nel Rondo finale poi ha tirato fuori tutta la sua tecnica trascendentale, sempre ben assecondato dall’Orchestra, che il Tjek ha gestito con discrezione, scatenandola solo nei tutti dove la tastiera tace.

Grande entusiasmo per questa coppia cinquantenne (28+22) di musicisti e in particolare per il mingherlino Kiron, che non ci ha lasciato senza un bis, e già che c’era ne ha fatti due, completandoci così una salutare indigestione di Chopin: Studio oceanico e Mazurka in SI minore! 

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La serata si è chiusa nel nome di Brahms-il-progressivo. Così ebbe a definirlo un compositore – Arnold Schönberg - che dai primi anni del ‘900 aveva, a detta di tutti, preso strade letteralmente agli antipodi di quelle percorse dall’ottocentesco, burbero amburghese.

Nel 1935 Schönberg, di cui ricorrono i 150 anni dalla nascita, forse per prendersi un po’ di… vacanze dai suoi viaggi musicali piuttosto, ehm, faticosi… si divertì ad orchestrare il Primo Quartetto con pianoforte di Brahms.

Togliendo di mezzo, per prima cosa, proprio il pianoforte!

A parte gli scherzi, la scelta di Schönberg ha un senso ben preciso, proprio relativamente all’attributo di progressista da lui affibbiato a Brahms. Poiché il Quartetto in questione è un’opera nella quale un Brahms ancora giovane (28 anni) introduce elementi di grande modernità e innovazioni al limite del… consentito, quanto a rispetto delle forme codificate.

Così nel primo movimento la forma-sonata è interpretata con libertà al limite della dissacrazione: tre temi, ardite concatenazioni tonali, sezioni assai poco equilibrate (esposizione pletorica, sviluppo e coda finale limitati quasi al solo primo tema…); l’Intermezzo è una specie di Scherzo-con-Trio, dove il da-capo dello Scherzo viene seguito da una reminiscenza del Trio per concludere il movimento; nell’Andante con moto, dopo le dolci melodie che lo aprono e lo chiuderanno, ecco un’imprevedibile irruzione di un motivo in ritmo puntato, dal piglio maschio e militaresco; e anche lo scatenato Rondo finale è di struttura assai eterodossa.

E poi, Brahms comincia qui ad impiegare quella che diventerà una caratteristica peculiare delle sue composizioni: la perenne rielaborazione di micro-strutture sonore, sottoposte ad una specie di continua variazione, per creare figurazioni nuove ma allo stesso tempo richiamanti quelle originali: insomma, un continuo sviluppo!

Schönberg non cambia una sola nota di Brahms, ma si permette invece di intervenire su agogica e dinamica, oltre ovviamente (avendo a disposizione un’intera compagine tardoromantica) a distribuire alle diverse sezioni dell’orchestra le frasi musicali e l’accompagnamento in modo assai libero.

In questa fulminante presentazione dell’originale e della sua… copia il Direttore e violinista Joshua Weilerstein arriva a definire il risultato ottenuto da Schönberg come la Sinfonia n°0 di Brahms! E in effetti anche chi ha dimestichezza con il Quartetto fatica quasi a riconoscerlo, in questa lussureggiante veste di cui lo ricopre l’orchestratore!

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Il Tjek ha tutta la partitura in testa e l’ha diretta con il suo gesto signorile (proprio viennese verrebbe da dire…) trascinando l’Orchestra, evidentemente sempre più in sintonia con lui, ad una prestazione davvero maiuscola, accolta da ripetute chiamate con battimani ritmati. E venerdi prossino il nostro torna con un programma che più romantico non si può!

02 dicembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.5

Dopo aver diretto tre settimane fa la Quinta nel Mahler-Festival con la OSN-RAI, Robert Treviño torna sul podio dell’Auditorium per offrirci un programma tutto francese, che procede a ritroso nel tempo per 70 anni, dal primo ‘900 al profondo ’800: da Ravel a Berlioz.

Di Maurice Ravel erano originariamente in programma due brani sullo stesso soggetto fiabesco, quello delle Mille e una notte. Si sarebbe dovuto partire con Shéhérazade, ouverture de féerie, che rimase nel cassetto per quasi 80 anni prima di essere pubblicata (1975); ma qualcosa dev’essere andato storto, e così il concerto si è aperto con Shéhérazade, Trois poèmes pour chant et orchestre, del 1903, dedicati a tre rispettabili Madame e qui interpretati dalla 37enne mezzosoprano lituana Justina Gringyté, che spesso si esibisce con il Direttore texan-mexicano.

Di chiaro ascendente Debussy-iano, questo trittico è basato su testi poetici (di carattere piuttosto decadente e con sfumature simboliste) tratti da una collana di cento poesie, ispirate a Shéhérazade, di tale Léon Leclère, che già a quei tempi si ammantava di un bifronte nick wagneriano (Tristan Klingsor) e con il quale Ravel condivideva la frequentazione dell’appena neonato gruppo di artisti d’avanguardia (e appunto sfegatati per Debussy) noto come Les Apaches.

Anche le tre dedicatarie delle liriche avevano a che fare con quell’ambiente: Janne Hatto (dedicataria di Asie) fu la prima interprete del trittico; Marguerite de Saint-Moceaux (dedicataria di La Flûte enchantée) era famosa per i suoi prestigiosi ricevimenti e come mecenate di musicisti ed artisti, fra i quali proprio Debussy e Ravel; Emma Léa Moyse (dedicataria di L’Indifférent) già amante di Fauré, fu la seconda moglie proprio di Debussy, dopo aver divorziato dal banchiere Sigismond Bardac.  

1. Asie  
È il più lungo dei tre testi, un autentico viaggio nei misteri e nel fascino orientale: dopo una breve introduzione - davvero orientaleggiante - dell’oboe sul triplice richiamo Asie! Asie! Asie! e sull’evocazione, sostenuta dal corno inglese, di quel mondo che sa di fiabe che si raccontano ai bambini, ecco l’inizio del lungo e affascinante viaggio. Per ben 14 volte il testo ripete Je voudrais, il desiderio di conoscere, di esplorare, di immergersi in quel magico universo. E a quel vorrei segue di volta in volta: 1. una goletta che solca il mare spinta dalla sua vela violetta; 2. un’isola fiorita sperduta in mezzo al mare tempestoso; 3. Damasco o una città persiana, con gli agili minareti; 4. turbanti di seta sopra volti scuri e bianche dentature; 5. occhi e pupille piene d’amore e pelli ingiallite; 6. vesti di velluto con lunghe frange; 7. calumet risucchiati da bocche avvolte da bianche barbe; 8. sguardi ambigui di mercanti, visir che muovendo un dito decretano vita o morte; 9. Persia, India e Cina, Mandarini, Principesse e letterati che discettano di poesia e bellezza; 10. un palazzo incantato ornato da preziose stoffe raffiguranti personaggi al centro di un giardino: 11. assassini che assistono divertiti all’esecuzione di un innocente operata da un boia con una curva scimitarra; 12. povera gente e regine; 13. rose e sangue; 14. chi muore d’amore e chi di odio.     

Ciascuno di questi desideri è accompagnato da delicate figurazioni impressioniste, che sfociano in un drammatico crescendo dell’intera orchestra, che poi va sfumando per dare spazio all’epilogo: l’onirico viaggio lascia al poeta il desiderio di raccontarlo a chi ama sognare, sorseggiando di tanto in tanto - alla maniera di Sinbad - una tazza araba, per interrompere sapientemente il racconto… 

Chissà, potrebbe essere proprio la bella Shéhérazade a raccontare questo squarcio notturno: introdotta dalla sensuale melodia del flauto, la favorita del sultano, che lei ha abilmente addormentato con uno dei suoi mille ammalianti racconti, comincia ad udire – mentre il tempo, da Très lent diventa improvvisamente Allegro – una melodia, ora mesta, ora gioiosa, suonata dal suo amante. Il tempo torna Lent, per farle assaporare quelle note che, dalla finestra, arrivano sulla sua guancia come un misterioso bacio. La figurazione iniziale del flauto ritorna per chiudere questo delicato siparietto.

Qui siamo all’Oriente più… confuciano: come non pensare all’atmosfera (Er stieg vom Pferd und reichte ihm den Trunk) del mahleriano Abschied? Un passante dai tratti effeminati transita davanti ad una porta a cui si affaccia il soggetto recitante (maschio o femmina? chissà…): che ne è attirato sensualmente, e lo invita a fermarsi per bere del vino con lui. Finora il tempo è continuamente Lent, anzi, poi, ancora Plus lent. Ma il passante (mentre il tempo si agita un poco) si allontana con un grazioso gesto di efebica indifferenza, dopodichè il tempo torna alla perenne lentezza. 
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Davvero encomiabile la prestazione della bella Justina, che ha sfoggiato la sua voce ben tornita e la sua raffinata sensibilità, pienamente in sintonia con il sapore decadente di testo e musica. Musica di cui Treviño ha a sua volta messo in luce tutte le sfumature e le nuances, ben assecondato dall’orchestra, soprattutto i legni che sono protagonisti assoluti.

Accoglienza calorosissima del pur non oceanico pubblico.
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E infine l’inflazionata FantasticaUn’interpretazione da manuale, quella del Direttore, che mai si è abbandonato (e di occasioni e… tentazioni questa Sinfonia ne presenta a josa) a gratuite e facili iniziative. Da incorniciare l’introduzione al primo movimento, dove la musica sembra davvero nascere e crescere dal nulla; poi la raffinatezza del Bal (protagoniste le arpe di Elena Piva e Marta Pettoni); mirabile la resa della Scène aux Champs (il corno inglese di Paola Scotti e l’oboe fuori scena di Emiliano Greci) con tratti da impressionismo ante-litteram; e quindi, sempre senza soluzione di continuità, la Marcia al supplizio e il Sabba conclusivo, dove Treviño ha scatenato le furie degli ottoni (le tube di Davide Viana e Alberto Tondi sugli scudi, in un protervo Dies Irae) portando il pubblico ad un parossistico entusiasmo, con ripetuti battimani ritmati e ovazioni per Kapellmeister e Musikanten!  

Si replica domani, ma anche oggi pomeriggio sarà ancora e sempre Treviño, per... collaudare l’Orchestra under-25.

03 agosto, 2020

Time-out. Muti-Berlioz (2)


La seconda (e ultima) parte del dittico berlioziano interpretato da Riccardo Muti al Ravenna-Festival del 2008 ha come oggetto l’Op.14b, Lélio, ou Le retour à la vie.  

Come per la Fantastique, la cui lezione aveva avuto luogo nel 2007, anche il Lélio fu oggetto di prova d’orchestra al Teatro Alighieri. Come era accaduto a Salzburg l’anno precedente (e come anche a Parigi e Chicago successivamente) la voce recitante è quella di Gérard Depardieu.

Qui il video della prova. Che non era una generale (tenuta il giorno successivo) mancando il coro e il baritono, ma appunto una lezione sulla genesi e sulle caratteristiche salienti della composizione. Tre anni orsono avevo scritto alcune note sul Lélio, in occasione di una sua comparsa nella stagione de laVerdi, e quindi rimando i curiosi a quei commenti, influenzati anche da questa lezione mutiana (dare a Riccardo quel ch’è di Riccardo) colà menzionata.

Muti riconosce che il Lélio manca di unità musicale, essendo il risultato di un’operazione di assemblaggio di sei brani composti in precedenza e qui impiegati per supportare le confessioni - ultra-romantiche per davvero - dell’Autore.  

Per questa lezione non è presente il coro, che è chiamato ad interpretare tre dei sei numeri musicali. Così, mentre i sette interventi del recitante non subiscono alcun taglio, quelli che prevedono il coro vengono o mutilati (La chanson des brigands, di cui si prova solo l’introduzione) oppure eseguiti dalla sola orchestra, senza le voci, surrogate da... mugugni del maeschtre. In particolare Muti si scatena nella Tempesta, il brano di gran lunga più corposo (oltrechè conclusivo) dell’opera, arricchendo l’esecuzione anche con dotte citazioni shakespeariane.      

Depardieu, con la sua stazza da portaerei, è ovviamente al centro dell’attenzione, cosa del resto prevista dall’Autore e resa plasticamente evidente dalle dimensioni king-size della poltrona a lui riservata al proscenio. Muti lo accoglie con... calore, sottolineando impietosamente gli effetti che la temperatura torrida di Ravenna ha prodotto su quella gran massa di carne.

Non manca qualche piccola gag, come in occasione del Chant de bonheur e de La harpe éolienne, souvenirs, con le richieste di Muti di spegnere il condizionamento, il che provoca qualche smorfia di disappunto dell’attore. Il quale per il resto mette in mostra le sue qualità e la sua... imponente presenza scenica.

Muti, alla fine della lezione, mentre Depardieu raccoglie gli applausi del pubblico, pronuncia una frase tutta da interpretare: credevo di aver lasciato qualcosa di più... (!?)

Infine, ecco qui riproposto l’audio dell’esecuzione in concerto al Pala deAndré, inclusi gli 8 minuti di applausi finali per i protagonisti, in particolare per Depardieu, del quale si odono più che altro grugniti e risolini di soddisfazione e ringraziamento.

(2. fine)

28 luglio, 2020

Time-out. Muti-Berlioz (1)


Purtroppo il Covid-19 ha abbastanza scombussolato anche la mia agenda, che di solito a giugno-luglio prevede qualche capatina al Ravenna-Festival: quest’anno, tra cambi di programma della manifestazione e contrattempi vari ho dovuto rinunciare alla trasferta a casa di Muti (però faccio un applauso alla Direzione del Festival, che ha deciso di trasmettere in streaming - diretto e on-demand - tutti gli eventi). E così, tanto per ingannare il tempo, ho rispolverato un paio di incontri che il Maeschtre ebbe con Berlioz al Ravenna-Festival ormai più di due lustri addietro (2007 e 2008).

Incontri che ebbero come oggetto quel particolare - e un po' velleitario, diciamolo pure - dittico berlioziano costituito dalla Fantastica (2007-8) e dal Lélio (2008) che recano lo stesso numero d’opera, 14. Oggi è assai raro che vengano eseguiti insieme, come aveva immaginato e prescritto il compositore (ci ha provato con successo laVerdi con Flor un paio di stagioni orsono) e Muti in quelle occasioni incise su DVD e CD rispettivamente le sessioni di prova (tenutesi al Teatro Alighieri) e l’esecuzione (al Pala DeAndrè).

Insieme ad altre sei (Verdi, Schubert, Cimarosa, Mozart, Paisiello, Dvořák) le due puntate su Berlioz sono state pubblicate nel 2009 (e vendute in edicola) sotto l’egida di Repubblica-L’Espresso e poi dalla RMM nella collana Prove d’Orchestra. Dato che sono già state trasmesse in TV un paio di volte (da RAI5 e RAI1) spero di non incorrere negli strali censori di RMM pubblicandole su questo blog (che non ha certo l’audience di youtube...)

Ecco quindi la prima delle due puntate, dedicata alla Symphonie Fantastique. Muti qui - come anche nel successivo Lélio - assembla ben due orchestre: la sua creatura (Orchestra Giovanile Luigi Cherubini) e quella del compianto (ma nel 2007-8 ancora vivo e vegeto) Piero Farulli (Orchestra Giovanile Italiana di Fiesole). Il che gli dà modo, ad esempio, di schierare quattro arpe per il secondo movimento.

Qui il video della prova. (Purtroppo i tools di conversione e join dei componenti originali del DVD hanno portato qualche scompenso... leggi una certa asincronia fra video e audio. Pazienza.)    

Muti non smentisce la sua fama di persona non proprio raffinata, quasi rimproverando e prendendosi gioco di uno spettatore (o spettatrice) che chiede di alzare il volume del microfono. Poi si produce in un autentico strafalcione musicale, quando sostiene che l’Idée fixe di Berlioz non c’entra per nulla con i Leitmotive di Wagner: perchè è vero esattamente il contrario, e lui stesso lo spiega involontariamente raccontando - anche con gli interventi degli strumentisti - di come quel tema torni più volte sempre variato, modificato, addirittura stravolto... precisamente come succede ai temi nel trattamento di Wagner.

Prima della prova, Muti non perde occasione per ripetere che la musica non si comprende (al massimo si può afferrare la struttura di un brano...) e che quindi ciascuno di noi la può e la deve interpretare secondo la propria sensibilità e il proprio gusto: beh, detto a proposito di musica a programma, ciò equivale a dequalificare assai il programma stesso, indicato dall’Autore! Va detto però che spesso furono proprio gli stessi Autori (dopo Berlioz, Mahler, uno per tutti) a creare confusione, presentando programmi espliciti per le loro sinfonie per poi disconoscerli e ritirarli, invitando l’ascoltatore semplicemente ad... ascoltare, per poi farsi un’idea personale dell’opera.

Emblematica la frecciata che il Maestro riserva (alla fine del primo movimento) a chi dovrebbe aver a cuore la cultura e la musica nel nostro Paese: se uno solo dei ragazzi che suonano qui, dopo anni e anni di studio non dovesse trovare posto in un’orchestra, per lo Stato italiano ciò sarebbe un delitto. (Beh, temo ahinoi che oggi ci siano in giro parecchi serial-killer...)

Muti non si risparmia anche qualche auto-compiaciuta gigioneria, come all’attacco del finale...


(1. continua)

01 febbraio, 2020

laVerdi-19-20 - Concerto n°14


Il fresco-di-nomina Direttore Musicale della Detroit Symphony Orchestra, Jader Bignamini, sale sul podio dell’Auditorium per dirigere (avendo a novembre scorso saltato il precedente) l’unico suo concerto della stagione 19-20.

Impaginazione di stampo classico, con un brano di apertura seguito da concerto solistico e da sinfonia. Ma l’apertura in questo caso non è un’ouverture o un pezzo brillante, bensì una composizione nuova di zecca e in prima esecuzione assoluta, opera commissionata da laVerdi ad Alessandro Melchiorre, intitolata Dal Buio. Ecco come l’Autore ne descrive sommariamente lo svilupparsi:

Il brano, dopo un esordio molto calmo - gli archi soli accompagnati dal suono suggestivo del superball, una particolare bacchetta usata dai percussionisti su tam tam e timpano grave - segue una crescita naturale caratterizzata dall’addizione delle diverse famiglie strumentali (agli archi dapprima si aggiungono i legni e infine gli ottoni) e procede per successive ondate sino a un climax dopo il quale il movimento di diverse melodie che si intrecciano perde energia e ritorna - con qualche variante - a una situazione affine a quella dell’esordio.

Sono poco più di 15 minuti di suoni che ci arrivano come in... sogno (all’inizio e alla fine si fa buio completo): un tappeto di note lunghissime (all’inizio un RE) che via via si anima e si arricchisce di contributi delle diverse sezioni orchestrali, percussioni comprese, mentre torna la luce in sala. Il brano compie un ampio arco per tornare lentamente, con il riabbassarsi delle luci, alla calma, mentre un violino solista (quello della seconda spalla Dellingshausen, collocato in alto, all’estremità sinistra della galleria) ci riaccompagna verso la quiete primordiale (lo stesso RE che aveva aperto il brano).

Brano che ha una sua efficace narrativa, e si fa apprezzare per la sobrietà del flusso sonoro, che induce riflessione e stuzzica la fantasia. Insomma, un’opera moderna che rifugge da certo stucchevole modernismo. Il pubblico ha apprezzato, con calorosi applausi ad Autore ed interpreti.
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Segue il rampante Luca Buratto (artista residente) che si cimenta con il Concerto in SOL di Maurice Ravel. Che lui dice di amare assai e lo si vede sente, da come lo affronta con approccio quasi ascetico (e non solo nel mirabile Adagio centrale). Le reminiscenze jazzistiche sono per lo più lasciate agli strumenti (clarinetto piccolo in testa) mentre Luca, che mi pare maturato anche dal punto di vista... comportamentale (meno dimenamenti) si concentra sulla cantabilità e affronta da par suo le impervie sfide tecniche poste da questa difficile partitura.

Agli applausi scroscianti di un pubblico assai folto lui replica con ben due encore: il Menuet (n°5) dal raveliano Tombeau de Couperin e il lungo ma strepitoso Allegro grazioso dalla Sonata K333 del Teofilo.
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A chiudere ecco la Fantastique di Hector Berlioz, che Bignamini ha appena diretto (domenica 26/1) a Detroit proprio per festeggiare la sua fresca nomina laggiù.

Che dire? Esecuzione travolgente, ma... non sempre ciò è sinonimo di accuratezza e rigore. Mi è parso di cogliere in Bignamini troppe libertà nell’agogica e nelle dinamiche (eccezion fatta per l’impeccabile Scène aux Champs) e una enfatizzazione eccessiva (per me) dei contrasti: insomma, la ricerca di facili effetti a buon mercato (non è che il nostro si stia per caso già adeguando al pubblico yankee, notoriamente propenso a farsi prendere da facili entusiasmi?)

In ogni caso pure il pubblico milanese si è entusiasmato e lo ha subissato di applausi, anche ritmati. Buon per lui e tanti auguri per la sua avventura americana!

21 dicembre, 2019

Gardiner-Berlioz incantano la Scala


Ieri sera ecco quindi il primo dei due concerti scaligeri di questo Natale, con il compassato Sir John Eliot Gardiner a dirigere l’oratorio berlioziano L’enfance du Christ. Teatro con ampi spazi vuoti (ma peggio per gli assenti, soltanto in parte giustificati dal tempo infame...) nel quale sono risuonate le celestiali note di questo lavoro dalla gestazione assai inconsueta, ma che lascia davvero nell’ascoltatore un’emozione profonda, quella che evidentemente hanno provato gli spettatori di ieri, esplosi alla fine in interminabii applausi per tutti i protagonisti e protagoniste di una serata da incorniciare.

Le caratteristiche del brano, che effettivamente sembrano richiamare - attraverso il frequente impiego di scale modali - musica antica, sono evidentemente congeniali a Gardiner, che ha dato del lavoro una lettura davvero ispirata, perfettamente coadiuvato da Orchestra, Cori e Solisti.

E per l’Orchestra basterà segnalare lo stupefacente trio della terza parte, dove i flauti di Marco Zoni e Max Crepaldi (ex-alfiere de laVerdi) e l’arpa di Olga Mazzia hanno letteralmente incantato tutti, Gardiner compreso, che si è accomodato su uno sgabello a fianco del podio (in coabitazione con il Padre-di-famiglia Thomas Dollè) ad ascoltare, rivolto al pubblico, i quasi sette minuti di quella delizia!

Sempre perfetti i cori di Casoni, nelle parti più concitate (gli indovini, i buzzurri romani di Sais) come in quelle festose e idilliache (gli Ismaeliti); anche le voci bianche (Angeli) udite in lontananza dietro le quinte hanno ricevuto il meritato applauso alla fine, raggiungendo sul palco gli adulti. Straordinario poi il coro a cappella che accompagna la voce del narratore (O mon âme...) alla chiusura dell’opera, che ha proprio lasciato tutti senza fiato, con la triade di MI maggiore esalata sul conclusivo Amen che Gardiner ha tenuto per qualche secondo con le braccia alzate (si direbbe proprio... come in estasi!)

I solisti tutti all’altezza, a cominciare dal Narratore (+ Centurione) Allan Clayton, che ha mostrato bella voce di tenore lirico; poi la santa coppia Ann Hallenberg (Maria) e Lionel Lhote (Giuseppe); e l’autorevole Thomas Dolié (Padre + Polydorus). L’Erode di Nicolas Courjal mi è parso più accorato che terrorizzato nel suo monologo, poi si è scatenato nel successivo incontro con gli Indovini.

In definitiva, un gran bel Buon Natale, di quelli che fanno bene allo spirito (che ne ha davvero bisogno...) 

In contemporanea con il concerto scaligero, il Duomo ha ospitato un’anteprima (2 delle 6 cantate) dell’Oratorio di Natale eseguito da laBarocca di Ruben Jais. Che questa sera in Auditorium affronterà l’intera maratona del sommo Sebastiano. 

19 dicembre, 2019

Gardiner augura Buon Natale alla Scala


Il Concerto natalizio scaligero del 2019 (domani la prima, sabato la replica) è dedicato a Berlioz (di cui si celebrano i 150 anni dalla morte) con un titolo assai appropriato alla circostanza: L’enfance du Christ, diretta da Sir John Eliot Gardiner.

É una composizione della maturità (pubblicata nel 1855) che si discosta assai dagli stilemi caratteristici del Berlioz magniloquente e (almeno apparentemente) contorto di tanti lavori precedenti (che gli avevano attirato le critiche dei tradizionalisti parigini) essendo pervasa da grande lirismo coniugato ad un’estrema parsimonia di mezzi. La gestazione di questo oratorio in forma di trilogia (Sogno di Erode - Fuga in Egitto - Arrivo a Sais) era stata assai complicata, e corredata persino da un simpatico scherzetto organizzato dal compositore ai danni dei suoi detrattori in occasione di un concerto della Philarmonique, da lui stesso diretto.

In una delle sue tante lettere, Berlioz racconta di come martedi 14 novembre 1850 alle ore 20, nella sala Sainte-Cécile, fra altre composizioni presentate nel primo concerto della seconda stagione della grande Société philharmonique de Paris, venisse eseguita la prima sezione della Fuga in Egitto (Introduzione strumentale e Coro di pastori) che lui aveva sbozzato tempo addietro, annotandola su un pezzo di carta, mentre si annoiava a morte ad una serata in società dove non si faceva altro che giocare a carte. Ma la locandina del concerto la indicò truffaldinamente come opera composta nel 1679 da un fantomatico (perchè totalmente sconosciuto) maestro di cappella, Pierre Ducré, da Berlioz fortunosamente ritrovata in un polveroso archivio della Sainte-Chapelle e da lui orchestrata.

Ebbene: il brano riscosse un grandissimo successo proprio fra i detrattori del compositore, convinti che mai e poi mai uno come Berlioz avrebbe saputo comporre musica così mirabile... Quando poi la verità venne a galla, la rivincita di Berlioz fu solo apparente: poichè i suoi detrattori argomentarono che lui, se davvero aveva saputo produrre una tal musica, allora aveva sbagliato tutto nel comporre le sue opere precedenti, tiè!
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Il soggetto (qui il testo integrale, dello stesso Berlioz, francese-italiano) tratta delle vicende di Gesù situabili, più o meno, in 3-4 giorni dopo l’Epifania, quanti ne servirono a Giuseppe&famigliola per fuggire precipitosamente da Betlemme e rifugiarsi in Egitto (precisamente a Sais, distante 400Km circa) dopo l’angelico avvertimento riguardo le non proprio amichevoli intenzioni di Re Erode:



Così come negli oratori e nelle passioni bachiane troviamo la figura dell’Evangelista, che racconta la vicenda alternandosi con arie, cori e corali, anche qui c’è la figura del Narratore che serve ad introdurre e/o concludere le tre parti dell’oratorio.  

É lui che apre la prima parte (Le songe d’Hérode, ultima ad essere composta) facendone un breve sommario: Gesù è nato ma ancora non ha potuto manifestarsi; in compenso Erode è già in allarme, temendo la perdita del trono e medita azioni spaventose. Due militari romani si incontrano durante una ronda, e ci danno conferma dello stato alterato del Re; il quale si esibisce in un monologo disperato, esternando i suoi incubi; gli indovini giudei si riuniscono per cercare risposte alle allucinazioni di Erode: c’è lì da qualche parte un neonato che detronizzerà il Re e l’unico rimedio per neutralizzarlo - ignorandosene l’identità - è di toglier di mezzo tutti i neonati di Betlemme, Gerusalemme e Nazaret! A Betlemme Maria e Giuseppe gioiscono della nascita di Gesù, ma un angelo arriva ad annunciare disgrazie e a consigliare la fuga verso l’Egitto, seduta stante.

La seconda parte (La fuite en Egypte) è stata - come detto - la prima ad essere composta ed anche separatamente rappresentata. Dopo un’introduzione strumentale di sapore arcaico, il coro dei Pastori omaggia e saluta Gesù e i genitori, in partenza frettolosa verso l’Egitto. Il Narratore racconta adesso di una sosta ristoratrice della famigliola in un’oasi verdeggiante e ricca d’acqua fresca. Gli angeli si stringono adoranti attorno a Gesù.

La terza ed ultima parte (L’arrivée à Sais) è aperta ancora dal Narratore, che ci ragguaglia sulle drammatiche difficoltà del lungo viaggio nel deserto e dell’approssimarsi di Giuseppe&famiglia alla loro destinazione: Sais, una città romanizzata ed abitata da gente superba e inospitale. Per ben due volte Giuseppe bussa alla porta di case di Sais per chiedere aiuto e ospitalità, e ne viene brutalmente respinto da occupanti romani intolleranti (forse emuli dei Faraoni che avevano vessato Mosè...); ma al terzo, disperato tentativo, fatto insieme alla sua Maria, ecco che il miracolo si compie: è una famiglia ismaelita quella che li accoglie come fratelli e li fa davvero sentire a casa propria, intonando per loro un mirabile trio (due flauti e arpa) che lascia senza fiato per l’emozione! Mentre i profughi, fisicamente spossati ma finalmente felici, vanno a prendere il meritato sonno, è ancora il Narratore (spalleggiato dal coro) ad inneggiare all’amore! 
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Un corposo studio su L’Enfance du Christ comparve nel 1898 dalla penna di Jacques-Gabriel Prod’homme, e vi si trova - oltre alla storia piuttosto bizzarra della composizione, alla sinossi del libretto e all’interessante resoconto delle reazioni della critica - anche un’approfondita e acuta analisi musicale, che mette in evidenza le peculiarità di quest’opera forse ancor oggi non valorizzata come meriterebbe, almeno quanto a pubbliche esecuzioni (le incisioni invece non mancano di certo).

Alla Scala si ricorda, nel dopoguerra, una sola esecuzione integrale, diretta da Peter Maag, avvenuta sotto Natale (12-13-17 dicembre) del 1980 nella Basilica di Santo Stefano e - una novità, per quei tempi - in forma scenica. Poi, il 20 dicembre 2012, Robin Ticciati propose la sola Fuga in Egitto, dopo la Fantastique.
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Il baronetto Gardiner, rinomato specialista di musica antica e barocca, ma anche di Berlioz (e già interprete di quest’opera) garantisce un Buon Natale di gran qualità. Radio3 trasmette il primo dei due appuntamenti, domani 20 ore 20.    

04 luglio, 2019

Berlioz tempestosamente ricordato a Ravenna


Lo scorso 8 marzo, oltre che la stucchevole festa della donna (la quale poi per altri 364 giorni rischia che le facciano la festa per davvero...) ricorreva il 150° anniversario della scomparsa di tale Louis-Hector Berlioz. Pochi se ne sono ricordati e fra questi, meritoriamente, il Ravenna-Festival, che ha voluto dedicare alla memoria del vulcanico compositore il concerto di ieri sera, protagonista - noblessse oblige - la prestigiosa ONF, guidata dal suo Direttore musicale, Emmanuel KrivineConcerto funestato (forse Berlioz avrebbe detto arricchito!) dalle intemperanze di Giove pluvio, tonante e fulminante (come si vedrà). 

A Berlioz si è arrivati con un percorso retrogrado, iniziato da un autore che - almeno nell’immaginario collettivo - starebbe quasi agli antipodi del lunatico francese: Johannes Brahms, del quale abbiamo ascoltato le splendide Variazioni su un tema di Haydn, ultimo test attitudinale (1873) cui il burbero amburghese si sottopose in vista della sua tanto attesa e reclamata discesa in campo nell’arena sinfonica (1876). Insomma, una composizione che valse ad ottenere a Brahms il passaggio dell’esame (al pianoforte) con la severa Clara (Wieck, maritata Schumann) e a convincerlo a fare finalmente sul serio con la Sinfonia in DO minore.    

Il tema originario (Chorale in honorem St. Antonii, scritto per organico di banda) è quasi certo che non sia di Haydn: si è scoperto infatti che doveva essere un canto di pellegrini boemi ripreso da Ignatz Joseph Pleyel. Certo è invece che Brahms ne ha fatto un impiego magistrale: le otto variazioni che seguono l’esposizione del tema (tutte sempre nel SIb di impianto, cinque in modo maggiore e tre – 2-4-8 - in minore) ne sviluppano tutte le potenzialità, o ne derivano altri motivi a mo’ di reminiscenza. Nel Finale (tempo di passacaglia, ecco un altro chiaro richiamo al glorioso passato, ma anche anticipazione del futuro... quarta sinfonia!) Brahms inventa ancora una nutrita serie di (piccole) variazioni, su un motivo di basso ostinato di 5 battute, tenuto inizialmente (per 9 volte) dai soli contrabbassi, ma che poi passa ai violoncelli, alle viole e quindi emerge in primo piano nei corni e ancora (in minore) negli oboi, poi nei flauti e di nuovo nei corni, per tornare (in maggiore) a corni e violoncelli, prima della trionfale e conclusiva ripresa del tema.

Esecuzione mirabile dei nazionali di Francia, che si sono così meritati grandi applausi da un pubblico non proprio oceanico, ma più caldo del caldo asfissiante che gravava (fino a quel momento almeno) anche qui sulla riviera romagnola. Ma già qualche lampo penetrato dal plexiglas del cupolone faceva presagire il peggio.
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Per compiere l’avvicinamento a Berlioz, la prima parte della serata è stata completata dal sesto dei poemi sinfonici di Franz Liszt, Mazeppa, ispirato a Byron (1819) ma soprattutto a Hugo (1828) il cui poemetto è stampato in testa alla partitura. Il soggetto tratta delle vicissitudini di questo giovane ukraino (Ivan Stepanovič Mazepa-Koledinsky) che, avendo occupato il posto di un notabile polacco... ehm, nel di lui letto, fu legato nudo come un verme ad un cavallo alimentato ad alghe marine (!) e poi spedito via al galoppo. Morto per sfinimento il cavallo e moribondo lui, Mazeppa fu però rimesso in sesto da una banda di Cosacchi ed eletto a loro condottiero! Naturalmente c’è chi ci vede l’allegoria dell’Artista (sempre un po’... scapestrato) che vince ogni ostacolo per raggiungere nobili traguardi.

Ecco qui Gianandrea Noseda dirigerlo con la BBC Philharmonic (sua antica dimora).
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L’Introduzione è in 6/4, RE minore, e dopo uno schianto dell’orchestra che evoca il nitrito del cavallo che scatta via con Mazeppa in groppa, vi compaiono continue folate degli archi (il galoppo) e semiminime prima ascendenti e poi discendenti (le salite e discese percorse dal destriero nella sua folle corsa); si odono anche scoppi come di tuono e fulmine (o sono altri nitriti del cavallo imbizzarrito...) Insomma un’atmosfera da tregenda! Che a me ricorda irresistibilmente l’incipit di Walküre! E forse non è un caso che Wagner, già amicissimo (prima di diventarne genero) di Liszt, con il quale scambiava continuamente notizie su progetti e idee, si sia ispirato a Mazeppa (che era in gestazione a Weimar proprio quando Wagner vi transitò fuggendo da Dresda e diretto a Zurigo) per aprire la prima giornata del suo Ring. Che, fra l’altro, è nello stesso RE minore e in un tempo (3/2) simile, anche se a scansione diversa, a quello del poema sinfonico.

L’Introduzione è seguita (1’08”) da una lunga sezione, caratterizzata dal tema principale che evoca la cavalcata di Mazeppa, dapprima esposto dai tromboni, poi (2’10”) dalle trombe. Una transizione (3’22”) porta all’esposizione (3’37”) di una variante lenta del tema principale. Essa viene riproposta a 4’48”, e conduce poi attraverso un ponte di preparazione (5’26”) all’esposizione del tema principale in modo maggiore (5’45”) e con fiero cipiglio. A 6’19” il tema torna nei tromboni e successivamente (7’15”) negli archi. A 8’20” troviamo una lunga transizione, in cui compare (9’31”) smozzicato, l‘incipit del tema principale: è il momento della fine della corsa: cavallo e... soma si accasciano sfiniti.  

Ma sappiamo che Mazeppa viene salvato ed eletto a capo dai cosacchi. E a questo punto ecco la sezione conclusiva del lavoro, che Liszt aggiunse in un secondo momento e che può (secondo le indicazioni dell’Autore) anche essere eseguita separatamente da ciò che la precede! Si tratta della marcia tartara, aperta (10’24”) da fieri squilli di trombette, che consta a sua volta di due sezioni: la prima (11’10”) esposta a piena orchestra, dal carattere smaccatamente eroico, e la seconda (12’03”) che presenta un tema squisitamente orientale, nei legni, magari proprio cosacco... Il tutto viene ripetuto (12’46”) con formale da-capo.

A 14’21” il tema cosacco si appesantisce, assumendo caratteristiche quasi minacciose (15’06”) ma preparando così il trionfale ritorno (15’37”) del tema principale, in modo maggiore, che a sua volta conduce alla secca conclusione.
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Krivine non ha certo risparmiato enfasi e retorica (come del resto si addice a kermesse di questo genere) e altri segnali atmosferici hano tutto sommato contribuito a sceneggiare la... sceneggiata di Liszt, anche questa accolta da lunghi applausi.
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Fu proprio Franz Liszt, in un lungo scritto del 1855 (Berlioz und seine Harold-Symphonie) a magnificare la qualità della composizione che ha chiuso (rocambolescamente, per la verità) il concerto: Harold en Italie, propostoci dalla splendida viola imbracciata da Antoine Tamestit, che guarda caso si era esibito nello stesso brano con la Santa Cecilia (e Gardiner) proprio lo scorso marzo. Qui invece vediamo la Sinfonia eseguita meno di un mese fa dalla ONF con Krivine (a casa loro) e con la loro prima viola (Nicolas Bône) nella parte di Harold.

Le cronache (e le stesse Mémoirs del compositore) ci raccontano che l’opera fu in pratica commissionata all’inizio del 1834 a Berlioz da Niccolò Paganini, che desiderava così portare al pubblico le preziosità di una viola Stradivari recentemente venuta in suo possesso. Berlioz - come sempre esagerato - pensò ad una specie di cantata con orchestra, coro e viola solista intitolata Les derniers instants de Marie Stuart, e addirittura rese pubblica la notizia, prima di venire disilluso proprio da Paganini, che mai e poi mai si sarebbe abbassato a fare da comprimario in qualcosa di così sesquipedale. Berlioz per tutta risposta invitò allora la star internazionale a comporsi il concerto da sè! (Cosa che Paganini effettivamente farà, ma senza grande successo).

Così Berlioz si buttò a capofitto su Byron e sul suo Child Harold's Pilgrimage per trarne questa sinfonia-a-programma, presentata nel novembre 1834 con discreta fortuna. Qualche anno dopo un Paganini malmesso e totalmente afono (il figlioletto Achille gli faceva da portavoce) potè assistere ad un’esecuzione dell’Harold e ne rimase folgorato, arrivando ad inginocchiarsi ai piedi di Berlioz per baciargli la mano: 



L’indomani gli inviò una lettera comunicandogli di aver incaricato il barone Rotschild di erogargli 20.000 franchi, a testimonianza della sua grande stima e ammirazione. Chiusi pettegolezzi e dietrologie, veniamo al sodo.
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Così come la (di poco) precedente Fantastique, anche Harold (che è articolato in 4 parti) ha una sua idée fixe, un motivo che caratterizza l’ombrosa personalità del personaggio, e ritorna spesso e volentieri:

Dopo che una sua variante in minore è comparsa in tutti i legni (1’40”) lo ascoltiamo per la prima volta (3’29”) dalla viola solista - accompagnata dall’arpa - nell’Adagio (SOL maggiore) con il quale inizia il primo movimento, sottotitolato Harold aux montagnes. Scènes de mélancolie, de bonheur et de joie, che poi proseguirà in Allegro. Ebbene, seguendo la moda degli auto-imprestiti di cui Rossini (allora Roi de Paris) era un campione, Berlioz prende di peso il motivo da una sua composizione di un paio d’anni prima (l’Ouverture Rob-Roy, ispirata a Walter Scott) e precisamente dal centrale Larghetto, espressivo assai (da 4’25” a 8’20” nella citata esecuzione) pure in tonalità SOL maggiore, dove il tema è peraltro esposto dal corno inglese, sempre con l’arpa ad accompagnare. Berlioz sembrò quasi vergognarsi di questo imprestito: nelle sue Mémoirs si guarda bene dal citarlo, e in compenso ricorda l’Ouverture Rob-Roy come un ciarpame che lui stesso avrebbe dato alle fiamme (?!) dopo la prima deludente esecuzione a Parigi.

A 4’28” ecco il controsoggetto del tema principale, che chiude a 5’39”. Qui l’idée fixe viene riesposta dal solista, contrappuntata dai legni, dopodichè ecco arrivare (6’58”) il secondo tema, Allegro (siamo alla felicità e alla gioia...) esposto in orchestra, poi ripreso, dopo qualche esitazione (7’42”) dalla viola. A 8’22” appare un nuovo motivo, in funzione di cadenza (anch’esso preso da Rob-Roy, vedi a 2’53”) che porta (8’54”) al da-capo del secondo tema e della sua appendice, chiuso a 10’03” con l’inizio di un suo sviluppo assai articolato. A 11’14” riecco il motivo cadenzante, poi (11’47”) la viola espone una variante più tranquilla del tema, ripresa in orchestra. Dopo una pausa di riflessione, a 12’29” l’oboe esplode il motivo cadenzante, seguito dagli altri fiati; si fa largo un accenno di idée fixe, dapprima in orchestra (12’47”) e poi, dopo un vigoroso crescendo orchestrale (13’24”) anche nella viola. Ecco ancora (13’57”) il motivo cadenzante nei fiati e nella viola, che porta alla concitata conclusione.

Marche de pèlerins chantant la prière du soir (Allegretto, MI maggiore).  

Dopo un’introduzione (15’17”) caratterizzata da un sommesso dialogo dell’arpa con fiati e archi, spetta a questi ultimi (15’34”) esporre il tema di questo movimento di lenta e faticosa marcia. Tema che è completato da controsoggetti (fino a 16 varianti) che ne arricchiscono la struttura. A 16’32” ecco nella viola riapparire l’idée fixe di Harold, che è qui al seguito dei pellegrini in marcia: il suo canto si contrappunta infatti al tema principale. Tema che riappare (17’17”) negli archi, inframmezzato da terzine e quartine ribattute nei fiati. A 18’36” subentra un intermezzo (Canto religioso) dove alle note in corale di legni e poi archi si sovrappone la viola solista con un continuo arpeggio di ben 79 battute! A 20’05” sono i legni a riprendere il tema di marcia, rilevati poi dagli archi. Dopo alcuni reiterati SI di flauto e oboe, un ultimo arpeggio della viola chiude sul MI acuto.

Sérénade d'un montagnard des Abruzzes à sa maîtresse (Allegro assai, Allegretto, DO maggiore).

Il movimento è caratterizzato dalla presenza di due temi e dal riapparire dell’idée fixe. Su un ritmo di saltarello scandito dalle viole, subito (22’24”) attacca in ottavino ed oboe il primo tema scanzonato. A 23’04” ecco il corno inglese (evocando un’ocarina abruzzese) esporre il secondo tema, più languido e crepuscolare, in Allegretto. Ad esso si sovrappone (24’07”, è Harold che osserva...) l’immancabile idée fixe nella viola. Questa sezione si protrae a lungo, fino ad essere interrotta (26’28”) dall’impertinente ritorno del primo tema. A 27’02” torna protagonista il secondo tema, ma questa volta è la viola di Harold ad esporlo, mentre il flauto lo contrappunta con l’idée fixe! (insomma, Harold e il montanaro abruzzese si sono scambiati i ruoli...) Siamo in chiusura e (27’55”) ricompare fugacemente il primo tema, poi seguito dal secondo nella viola, che conduce alla sommessa cadenza finale.

Orgie de brigands. Souvenirs des scènes précédentes (Allegro frenetico, SOL minore).

L’ultima parte della Sinfonia si apre (28’59”) con una breve anticipazione (11 battute) del tema principale (l’orgia dei briganti). Dopodichè Berlioz imita la nona beethoveniana, proponendo reminiscenze dei tre precedenti movimenti, sempre esposte dalla viola (i... ricordi di Harold). Subentra dapprima un Adagio (29’13”, Souvenir de l’Introduction) dove la viola, accompagnata dal fagotto sul brusio degli archi, ci ricorda appunto l’atmosfera udita proprio all’aprirsi dell’opera. Riprende (29’42”) il tema orgiastico che poi (30’02”) lascia spazio alla seconda reminiscenza (Souvenir de la Marche des Pelerins, marcia che aveva occupato la seconda parte dell’opera). Altro fugace ritorno orgiastico, poi (30’17”) ecco la viola ricordare il tema languido del terzo movimento (Souvenir de la Serenade). Altro scoppio dell’orchestra e (30’36”, Souvenir du premier Allegro) si ripropone il secondo tema del movimento iniziale. Ancora l’orgia dei briganti e poi (31’05”, Souvenir de l’Adagio) ecco il tema di Harold, l’Idée fixe, tornare timidamente, quasi smozzicato.

Un progressivo crescendo orchestrale porta finalmente (32’02”) alla proposizione estesa del tema principale (anche qui troveremo reminiscenze di Rob-Roy...) L’esposizione è assai articolata: inizia in SOL minore, poi (32’49) vira alla relativa SIb maggiore; poi (33’30”) a SIb minore, con pesanti interventi (33’46”) di tromboni e tuba. A 34’08 ecco una transizione più calma ed elegiaca, che porta a chiudere l’esposizione. Questa viene però ripetuta (35’10”) senza sostanziali differenze. A 37’43” subentra una sezione di sviluppo dei temi, che porta (38’25”) alla ricapitolazione, interrotta (38’41”) dalla ricomparsa del motivo della marcia dei pellegrini. Poi (39’33”) riprende il tema principale che conduce (39’44”) alla pesante e retorica coda.   
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Durante l’intervallo i presagi di temporalone si sono fatti più minacciosi e così, quando ancora non si era arrivati a metà della prima parte della Sinfonia, ecco nascere un tremendo accompagnamento, come di una batteria di grancasse rullanti (la pioggia battente sul cupolone) che ha accompagnato la musica fino alla fine. Per la cronaca, all’inizio si era presentato solo il Direttore, e forse qualcuno avrà pensato che Tamestit l’avesse data buca... poi però il vagabondo Harold si è fatto timidamente avanti, dal fondo sulla sinistra, dalla parte dei contrabbassi, per proporre la sua idée fixe. E per il resto della sinfonia ha poi continuato ad alternare la presenza al proscenio con altre peripatetiche gite fra i leggii dell’orchestra, tanto per sceneggiare un po’ il viaggio di Harold. Fine del primo movimento accolta da... scroscianti (!!!) applausi del pubblico, mentre i due protagonisti quasi si scusavano per la qualità della loro performance.

Forse sperando in un rapido allontanarsi della buriana, tutti hanno attaccato il secondo movimento, che a dir la verità ha proprio accentuato la faticosa mestizia della marcia dei pellegrini, aggiungendovi qualcosa che Berlioz non aveva immaginato (ci penserà con Les Troyens): l’orage! Altri applausi del pubblico, tra lo sconcertato e il divertito, così, Imperterrito, Krivine ha dato il via alla tarantella del terzo tempo. Non oso pensare come si sarà trovata la bella suonatrice di corno inglese ad esalare la sua serenade in mezzo a quel frastuono. Ma anche Tamestit credo abbia rischiato il tracollo del suo strumento pur di poterci far udire qualche nota. Così, prima della ripresa del saltarello, altri applausi e il Direttore getta la spugna! Non si può proseguire. Conciliabolo improvvisato sotto il podio; arriva il padrone di casa (Riccardo Muti) e chiede a Krivine se può attendere 15-20’ sperando nel miracolo. Così vien fatto e - a pioggia tornata... normale - si riprende: ma non dal punto dell’interruzione, bensì (grande sensibilità di Krivine e dei suoi) dall’attacco della marcia dei pellegrini!

Si arriva così fino alla fine, e il pubblico mostra tutto il suo apprezzamento con autentiche ovazioni. Muti torna sotto il podio a stringere la mano a Krivine e Tamestit, e tutti ce ne torniamo a casa (ancora fra lampi e scrosci) un filino... rinfrescati!
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Tornando alla festa della donna, una sua esagerata, godereccia e anti-retorica interpretazione è la notte rosa, che qui in Romagna si celebra ormai tradizionalmente agli inizi di luglio. E ce n’è davvero per tutti i gusti!