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02 dicembre, 2017

Milano Musica chiude all'Auditorium


Largo Mahler ha ospitato ieri una delle tappe (anzi l’ultima, che si replica domenica) della rassegna Milano Musica, dedicata come sappiamo a Salvatore Sciarrino. Del quale era in programma la prima esecuzione italiana del Libro notturno delle voci, una specie di eterodosso Concerto per flauto dedicato all’esecutore di oggi, Mario Caroli (speriamo il flauto non si offenda, e nemmeno il concerto...) del 2009.

L’opera (!) si suddivide in tre parti, con tanto di sottotitoli:

1. In val d'abisso
2. Fauci dell'emozione
3. Mario Caroli e l'iridescenza di un Re

Purtroppo nè i titoli, nè (soprattutto) i contenuti musicali ci aiutano a distinguere chiaramente una parte dall’altra. Quindi possiamo sentenziare trattarsi di un’opera caratterizzata da grande unità tematica...

Sciarrino si è specializzato nel riprodurre in musica qualunque tipo di suono(/rumore) in ciò prendendo spunto dalla filosofia di Mahler (a proposito dei suoi Naturlaute) ma portandola all’estremo. Così non ascoltiamo più i classici cuculi, o le melodie stiracchiate di un violino di strada, o i campanacci di vacca su un alpeggio... ma arrivano alle nostre orecchie muggir di buoi, latrar di cani o miagolar di felini in calore, per citare solo qualche esempio. Poi ci sono anche sirene antifurto, porte metalliche di vecchi ascensori che sbattono, sinistri cigolìi, sgocciolar di rubinetti guasti... tutti suoni che rompono il silenzio notturno, ci pare di udirli nel dormiveglia, ritmato dal respiro affannoso di due violoncelli.

Il flauto qui è usato nel primo movimento come un fischietto di quelli che un tempo corredavano i nostri vestitini da marinaretto; nel secondo come strumento per produrre... starnuti; e nel terzo per emettere il suono che si ottiene naturalmente soffiando in una canna di bambù.

Che dire, restarne rapiti? Farci prendere da esasperazione? Sghignazzarci sopra? Beh, ognuno si attrezzi un po’ come gli pare... c’è libertà di scelta, di gusti e di critica; e per fortuna (dei compositori, soprattutto) non c’è in giro nessun nipotino di Zdanov, ecco. Però dobbiamo riconoscere che qualche progresso si è compiuto: rispetto alla registrazione della prima assoluta in terra tedesca (citata più sopra, del 2009) ieri la durata del brano ha superato di poco i 25 minuti. Grazie!

PS: Caroli deve avere comunque un buon rapporto con il suo flauto: per farsi perdonare di averlo bistrattato a quel modo, ha concesso un bis dove lo strumento è stato impiegato precisamente per lo scopo per il quale fu inventato: emettere suoni e non rumori (!)
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La serata era stata aperta (come da prassi che vuole che, in presenza di un brano moderno, gli si anteponga uno di tradizione, per in qualche modo obbligare il pubblico a sorbirsi il moderno...) da Ravel, con la sua Valse, ovviamente in versione orchestrale. Si tratta di un grottesco sberleffo alla Vienna presuntuosa e godereccia di metà ‘800, dove sentiamo raffinate atmosfere impressioniste intercalate a volgarità da fetida balera… Però il tutto è sempre un piacere per l’ascolto, e qui difficilmente si pone il problema di come reagire di fronte a ciò che arriva alle nostre orecchie. Va da sè che i ragazzi (e Angius ovviamente) han dato il loro fattivo contributo alla riuscita dell’impresa..
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Dopo la pausa ecco Debussy, con in suoi tre Nocturnes, una particolare variante di musica-a-programma.

Nuages, lo dice il titolo, evoca un incessante passare di nuvole sopra la Senna, precisamente presso il ponte di Solférino, ma qui l’indicazione è tanto minuziosa quanto ininfluente sul contenuto musicale, che mai pretende l’impossibile (la descrizione di un fenomeno naturale) bensì esprime in modo mirabile l’impressione provata da chi osserva il muoversi delle nuvole, sempre diverso, ma allo stesso tempo sempre uguale a se stesso. Chissà se quella specie di Dies Irae esposto da clarinetti e fagotti è un riferimento voluto o casuale... 

In Fêtes Debussy si ispira poeticamente ad una serata al Bois de Boulogne, evocandone però non tanto le prosaiche manifestazioni (tarantelle, marce della Guardia repubblicana, fanfare che arrivano da lontano, passano e si perdono) ma le sensazioni (meglio… le impressioni) che esse provocano nel suo animo, e sono queste che il compositore ci vuol trasmettere con i suoi suoni.

Sirènes si riallaccia in quache modo a Sciarrino, che ha trattato il mito di Orfeo più volte, non ultima la sua recente opera data in prima mondiale alla Scala. In più, è davvero raro ascoltare questo brano in sala da concerto, poichè richiede tassativamente la presenza di un coro femminile (che fa solo vocalizzi peraltro): così è un merito de laVerdi (che un coro, e coi fiocchi, ce l’ha) averci fatto questo bel regalo. Per la cronaca Angius ha schierato le signore di Erina Gambarini proprio in mezzo all’orchestra, scelta appropriata data la natura degli interventi canori.
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Ha chiuso la serata un ennesimo bolerodisciarrinoravel, che il tamburino militare del solito Ivan Fossati (rimastosene stavolta in piccionaia fra i colleghi percussionisti, invece di accomodarsi davanti al Direttore, come fa di solito) ha scandito imperterrito, dalla prima all’ultima battuta. Anche questa è musica discutibile e persino offensiva nella sua struttura, eppure - chissà mai perchè? - la si ascolta sempre con gran trasporto e alla fine la sala addirittura trema sotto lo scrosciare degli applausi.   


Ma ora vedo profilarsi minacciosa all’orizzonte un’affilatissima ghigliottina...

19 novembre, 2017

Sciarrino si traveste da Stradella per la Scala


In attesa della materializzazione dell’ectoplasma denominato Fin de partie (che aleggia da anni negli spazi del Piermarini) ecco arrivare a tambur battente una primizia nostrana, dovuta a quel genio che risponde al nome di Salvatore Sciarrino (cui è contemporaneamente dedicata la 26ma edizione di Milano Musica). Ieri sera è andata in onda la terza delle sei recite in cartellone, in una sala non propriamente presa d’assalto (tanto per usare un pietoso eufemismo...)

Ti vedo, ti sento, mi perdo... Parole che potrebbe aver pronunciato, rapita dalla musica - o magari anche da qualcosa di meno, ehm, immateriale... - di Alessandro Stradella, tale Agnese van Huffele, che nella Venezia del 1677 era amante di un certo Alvise Contarini (il Doge in persona, o un suo omonimo?) E il rapimento si materializzò all’istante con la fuga a Torino dei due, ben presto colà raggiunti da sicari fedelissimi del... becco, decisi a far polpette del disinvolto 38enne musicista viterbese. Impresa mancata non di molto, che convinse comunque il nostro a lasciare Torino per fare – pochi anni dopo - proprio la fine miracolosamente scansata lassù: morire ammazzato come un cane in piazza Banchi a Genova, dove – per avere a portata di mano la materia prima per il suo hobby preferito – si era fatto ospitare dal musicista dilettante Giovambattista Guani, titolare di una bottega di parrucchiere per signora (!)

L’opera di Sciarrino è però verosimilmente ambientata a Roma, nel Palazzo Colonna, dove una decina d’anni prima di togliere il disturbo Stradella aveva fatto i suoi primi passi come musicante. Ma solo dopo aver avuto rapporti di... camera nientedopodomanichè con la Regina Cristina di Svezia! Ecco, sul palcoscenico vediamo – sullo sfondo - un... palcoscenico dove si prova uno spettacolo musicale (una cantata con soprano, coro e strumenti); al centro si muovono servi e lacchè del palazzo addetti alle incombenze più materiali, e ai pettegolezzi più volgari; al proscenio due intellettuali (musicista e poeta) si scambiano battute sulla tresca dello Stradella con una famosa cantante, e attendono l’arrivo proprio del musicista in persona – che tuttavia mai arriverà, nemmeno fosse Godot, sostituito dalla notizia del suo poco onorevole ammazzamento, recata da un giovin cantore con violinista al seguito - disquisendo di arte e filosofia, raggiunti di tanto in tanto dal soprano protagonista della cantata.

Nel secondo atto dell’opera – dove (pare) sono passati anni – si ha una compressione della dimensione-tempo: in pratica tutte le vicende delle avventure (galanti e non) di Stradella (fuga da Roma, fuga da Venezia, fuga da Torino e morte a Genova) scorrono davanti ai nostri occhi raccontate da secche notizie che arrivano in poche scene successive: è una bizzarra (ma non nuova, vedi Wagner-Parsifal) applicazione della relatività ristretta del buon Einstein, una variante rovesciata del paradosso dei due gemelli: qui c’è Stradella che fugge da Roma e passa un bel po' d'anni vagando per mezza Italia (spingendosi pure a Vienna...) mentre in tutto questo tempo i suoi coetanei rimasti a Roma invecchiano solo di un’ora scarsa (!?)

Evabbè... a parte questi sconfinamenti nella fisica pura che andrebbero studiati con il calcolo tensoriale, il soggetto - che Sciarrino ha inventato da letture di Ovidio, Apollonio Rodio, Rilke, Bashō, Stromboli, Giazotto, Iudica e Frassica (ma io consiglierei a tutti questo thriller) – porta in primo piano problematiche non da poco, quali il principio di libertà e di totale indipendenza dell’Arte e dell’Artista da qualsivoglia vincolo (materiale ma anche estetico) e poi l’intrinseco connubio fra Arte (e in particolare Musica) ed Eros. E Stradella fu di sicuro la personificazione dell’Artista rivoluzionario, insofferente di padroni, di regole e convenzioni ed anche conquistatore di cuori (ed esploratore di... orifizi). 

Ma c’è di più: Orfeo vs Sirene! Il campione della musica umana contro le subdole rappresentanti della musica naturale (A.Stradella vs A.Scarlatti?) E poi ancora: Stradella antesignano di Schubert e di Chopin! E da composizioni di Stradella arrivano nell’opera di Sciarrino melodie e vaghi ricordi, reminiscenze più che citazioni, che il nostro riveste di suoni dal carattere impressionista (Debussy docet...)

Suoni che provengono da ogni dove: ovviamente dalla buca, ma anche dalla scena (concertino e poi legni) e da dietro le quinte (fiati, arpa e pianoforte). Suoni non convenzionali, con ampio uso di glissandi, di fruscii, di armonici acutissimi: insomma una tavolozza personalissima e davvero ricercata.

Il canto è un’applicazione estesa del principio del recitar-cantando, una sorta di declamato arricchito da inflessioni, tic, persino balbuzie: un canto che cerca di modellarsi sui fonemi della lingua, un approccio che è stato - più o meno appropriatamente - paragonato a quello di un Musorgski o di uno Janáček.

Insomma, tante idee, tanta carne al fuoco; che testimoniano quanto meno della serietà ed onestà dell’approccio del compositore palermitano, oggi apprezzato e stimato in tutto il mondo. Per quel che può valere (poco più di nulla) il mio giudizio, colloco questa proposta ben al di sopra di altre (Francesconi, Raskatov e Battistelli) che la Scala ha commissionato per poi propinarcele in anni recenti.

Resta il fatto che per lo spettatore medio (che dello Stradella forse conosce a malapena l’esistenza) risulta obiettivamente difficile apprezzare la messe di riferimenti, sottintesi, allusioni (soprattutto musicali!) di cui Sciarrino riempie la sua partitura. Alla fine ciò che di primo acchito si apprezza di tutta l’opera sono il prologo e un paio di intermezzi, dove all’orecchio arrivano suoni che richiamano effettivamente il barocco. Con una malignità potrei dire che una Suite di 10-12 minuti che raccolga quei pochi sprazzi di musica vagamente orecchiabile potrebbe avere in sala da concerto assai più presa dell’intera opera vista ed ascoltata in teatro...
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Sulla messinscena che dire? Dato che l’Autore ha già in partenza dettato le linee generali della scenografia (oltre al precisissimo riferimento storico) al regista non resta in questi casi che applicarsi per eseguire al meglio la volontà dell’Autore, oltretutto presente di persona all’intero processo di costruzione dello spettacolo. Si deve perciò dare per sicuro che ciò che Jürgen Flimm e il suo scenografo George Tsypin ci mostrano sia precisamente ciò che Sciarrino intende farci vedere, cosa che in molte regìe moderne (di opere del passato) accade sempre meno spesso...

Apprezzabili i costumi allegri e dai colori sgargianti di Ursula Kudrna, e le luci (Olaf Freese) che di volta in volta ci indirizzano l’attenzione sui tre diversi livelli della scena. Dove sono da segnalare anche le divertenti coreografie di Tiziana Colombo.
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Il 32enne Maxime Pascal pare un ragazzino ma ha già alle (e sulle) spalle una carriera brillante e persino un’orchestra (Le Balcon). La sua dimestichezza con la musica d’oggi ne fa interprete ideale di opere come questa e lui lo dimostra padroneggiando ogni sfumatura di ogni singola nota di Sciarrino. L’Orchestra – come detto distribuita su tre livelli – pare assecondarlo al meglio (dico pare perchè forse solo Sciarrino potrebbe dare un giudizio di merito sull’interpretazione e sull'esecuzione...) cavando fuori sonorità inconsuete e timbri a volte irriconoscibili, che evidentemente il compositore ha inteso creare appositamente per supportare i suoi testi.   
  
Fra le voci, la protagonista assoluta è la Cantatrice di Laura Aikin, che ha oggettivamente la parte più ricca e pesante di tutte: lei la sostiene con grande cura dei dettagli, non solo nel canto più (diciamo così) tradizionale ma anche in quella sorta di declamato alla Sprechgesang di cui Sciarrino riveste il suo ruolo (e non solo il suo). Peccato che la sua voce scarseggi di decibel il che, in aggiunta alle dinamiche particolarissime imposte dalla partitura, la rende scarsamente udibile negli sterminati volumi del Piermarini. Il massimo (minimo, anzi) si raggiunge nella bella arietta del second’atto, dove la sua voce viene irrimediabilmente coperta dalla pur non gigantesca orchestra che l’accompagna (qui Pascal ha forse qualcosa da farsi perdonare).

Degli altri interpreti, quello che canta (in senso comune) di più (anche se arriva solo alla fine...) è il Giovane Cantore (appunto) qui impersonato da Ramiro Maturana (accademico scaligero) che ha fatto una più che discreta figura. Tutti gli altri sono chiamati a declamare e/o emettere suoni che un ascoltatore naif potrebbe francamente prendere per lamenti, mugolii o rantoli di musicalità assai discutibile, ecco.
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Alla fine applausi di stima e cortesia, ma direi ben meritati per tutti: una chiusura di stagione se non altro interessante. Un commento conclusivo (trito e ritrito, lo so perfettamente): opere come queste rischiano di essere rovinate dal rappresentarle in questo teatro (nelle più piccole sale berlinesi magari tutto cambierà...): ennesima occasione per stigmatizzare la stolta chiusura della Piccola Scala, ambiente ideale (per cantanti-orchestra ma anche per il pubblico) per questo tipo di rappresentazioni. Amen.