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27 settembre, 2024

La nuova Orontea della Scala.

E così ieri sera abbiamo potuto finalmente goderci questa Orontea di Marco Antonio Cesti che mancava dai cartelloni del Teatro dal lontano 1961.

Una produzione da promuovere a pieni voti (personalmente avrei aggiunto anche il pomposo maxima cum laude se fossero stati evitati i tagli). Giacchè Giovanni Antonini e Robert Carsen hanno messo tutta la loro esperienza e consuetudine con l’opera barocca per confezionare uno spettacolo invero coinvolgente, giustamente apprezzato con entusiasmo dal pubblico scaligero. O almeno da quella parte (pochi ma buoni?) rimasta sino alla fine…

La vicenda è opportunamente portata fuori dal tempo e dallo spazio del testo di Cicognini, per sottolineare l’attualità dei sentimenti che muovono i diversi personaggi, pulsioni che sono le stesse oggi (a Milano!) di quelle di lontane epoche storiche. Scene e costumi (di Gideon Davey) sono perfettamente funzionali a questo approccio. Efficace (come sempre) la gestione delle luci (di Carsen e Peter van Praet).

La scena (poggiata sull’ormai immancabile supporto rotante) consente i rapidi mutamenti richiesti dal vorticoso svilupparsi dell’azione: si passa dalla galleria d’arte con letto centrale (per ospitare  Orontea in crisi dopo il colpo di fulmine e poi le effusioni di Silandra e Corindo) e le feste che chiudono il primo e l’ultimo atto; per passare successivamente allo spoglio atelier (dove Alidoro dipinge Silandra, con ciò che segue); o all’ufficio di rappresentanza della Regina (con skyline della moderna Milano); e ad un parcheggio sotterraneo per gli incontri Aristea-Giacinta. 

In questo ambiente si muovono i personaggi, tutti perfettamente centrati sulle rispettive, diverse caratteristiche psicologiche e comportamentali dall’esperta mano del regista. Masse di figuranti riempiono le scene di… bevute e festeggiamenti.
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Torno ancora sulla questione tagli: quello dell’intero Prologo (che fu riscritto da Apolloni proprio per Cesti - che lo ricoprì di mirabile musica - in sostituzione dell’originario di Cicognini) e che serve a creare le premesse a ciò cui si assisterà proprio nella primissima scena dell’atto iniziale. Filosofia e Amore ne sono i due protagonisti e, in senso lato, rappresentano le posizioni divergenti di Orontea e Creonte.

Francamente inspiegabili poi i corposi tagli inflitti alla parte del personaggio buffo di Gelone: nell’atto primo, scena 7, scompare la sua risposta prosaica al nobile inno all’amore di Corindo, e con essa si perde questo vivace contrasto di sentimenti; nella scena 13 è cassato un suo gustoso intervento (Ah, scelerato) nel dialogo con Tibrino; nel second’atto sono interamente soppresse le scene 15 e 16, dove Gelone è spassoso protagonista, dapprima narrando un suo sogno e poi scoprendo Alidoro svenuto (dopo lo scontro con Orontea e Silandra); nella scena 7 del terz’atto è soppresso il suo divertente Balordo è chi non sa… (subito dopo è tagliata l’esternazione di Corindo).

Alidoro viene privato (atto primo, scena 10) della seconda strofa della sua esternazione dopo il suo secondo incontro con Orontea.    

A Silandra viene tolta (atto primo, scena 11) l’ultima strofa del suo incontro con Alidoro, prima del conclusivo a due, dove lei ammette di aver avuto altri amanti (Corindo, ndr) ora scordati dopo aver incontrato lui.

Davvero inspiegabile anche il taglio della seconda delle tre strofe (Adorisi sempre) di Orontea (atto 2, scena 1).

Nella scena 7 del second’atto è omessa una parte del dialogo fra Aristea e Giacinta, con le profferte della prima e i dinieghi della seconda; Giacinta è privata (atto 3, scena 10, Infelice cor mio) dei rimorsi per aver attentato alla vita di Alidoro, di cui ora è innamorata! Subito dopo è Aristea che perde la sua esternazione (Il pianto, i sospiri…) sulla maggior efficacia dell’oro rispetto all’amore! Poi, nella scena 12, dopo la sua dichiarazione ad Alidoro, Giacinta è privata delle due strofe finali, con il suo accorato Il mio ben dice ch’io speri…

Insomma, per questa nuova e importante produzione si poteva osare di più (imitando Jacobs e Bolton) anche a costo di anticipare l’orario d’inizio dello spettacolo alle 19:30 (tanto chi poi si annoia, se ne va ugualmente…) [Il prossimo, intonso Rosenkavalier inizierà, giustamente, alle 19!]
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Sul piano musicale, convincenti le scelte di strumentazione di Antonini (dove l’Autore lascia ampia libertà di approccio al Direttore) volte a garantire perfetta udibilità dell’orchestrina (20 elementi in tutto) nell’immenso spazio del Piermarini.

Tutti da elogiare i membri del cast vocale.

Stéphanie d’Oustrac si cala perfettamente nella personalità dissociata (sicura > insicura > innamorata > gelosa > irosa) della Regina, cui dà la sua voce con tutta la necessaria varietà di accenti.

Carlo Vistoli è un perfetto Alidoro: narciso, sciupafemmine, incostante, cinico, è il naturale contraltare dell’insicura Orontea (che si merita proprio un marito come lui!)

Mirco Palazzi riveste della sua corposa e morbida voce di basso il personaggio di Creonte, una specie di Mazzarino, o di Richelieu, cocciutamente legato alla Realpolitik.

Francesca Pia Vitale è l’interprete ideale (per la voce sempre ben proiettata e per la presenza scenica davvero… ehm… stimolante) per il volubile e un po’ carognesco personaggio di Silandra. E, analogamente alla coppia Orontea-Alidoro, anche l’ingenuo Corindo di Hugh Cutting sembra proprio fatto apposta per accoppiarsi con quell’incostante ragazzina un po’ viziata.

Marcela Rahal (cui manca solo qualche decibel) si è ben calata nella parte della babbiona assatanata di sesso, anche lei perfettamente accoppiata con l’enigmatica e subdola Giacinta (opportunamente travestita da easy-rider) che Maria Nazarova ha interpretato con verve e bella voce squillante.

Luca Tittoto è stato un Gelone praticamente perfetto, e proprio per questo non avrebbe meritato tutti i tagli che lo hanno… mutilato! Con lui, Sara Blanch è stata un convincente Tibrino, suddito fedele, valletto, aspirante guerriero e, chissà, pure lui (lei) colpito/a dal fascino di Alidoro.

Alla fine solo applausi e bravo! per tutta la compagnia di musicanti. Su Carsen e i suoi due soci è piovuta qualche sporadica contestazione, ma ampiamente sommersa dai consensi.

25 settembre, 2024

Nuovo appuntamento con il Barocco alla Scala: L'Orontea.

La terzultima offerta operistica della Scala per il 23-24 (prima dei botti finali con Strauss e Wagner…) è riservata ad una nuova proposta barocca: L’Orontea di Marco Antonio Cesti (messa in scena originariamente ad Innsbruck, 1656). La nuova produzione (la precedente, in quel salotto poi mandato in vacca che si chiamava Piccola Scala, con Bartoletti-Squarzina e la leggendaria Berganza, risale al 1961!) è affidata alla solida coppia formata dallo specialista Giovanni Antonini e dal creativo Robert Carsen: ci sono quindi tutte le premesse per uno spettacolo di alto livello.

Venerdi 20 settembre il foyer Toscanini ha ospitato un interessante convegno sull’opera, introdotto e moderato da Raffaele Mellace, con autorevoli interventi di Lorenzo Bianconi (che già nel lontano 1982 aveva scritto l’introduzione alla registrazione di Jacobs) che ha inquadrato la figura e l’opera di Cesti nel suo tempo (Monteverdi, Cavalli…); di Paolo Fabbri, che ha proposto un’articolata esegesi dell’opera; di Davide Daolmi che ne ha esemplificato, con ascolti, i fondamenti musicali. È intervenuto anche il Direttore Antonini per spiegare l’approccio alla concertazione dell’opera, dove il concertatore è chiamato a mettere parecchia farina del suo sacco, stante l’essenzialità (canto e continuo, e poco più…) di ciò che si ritrova sui righi vergati dall’Autore.

Altre interessanti considerazioni di Antonini e Carsen riguardo i tratti salienti (musicali e registici) dell’opera sono pubblicate sulla Newsletter di Settembre del Teatro.  

Chi vuol prepararsi adeguatamente alla visione, o rinfrescarsi la memoria, può trovare in rete almeno due registrazioni di alto livello: quella già citata, che ha fatto epoca, di Jacobs del 1982 e quella più recente (2015) di Bolton. La durata netta supera le 3 ore (Jacobs) ed è di 2h55’ (Bolton). Assai interessante è anche questa produzione australiana del 2022, nonostante sia sfregiata da varie sforbiciate, soprattutto negli atti 2 e 3 (2h30’).

A proposito di tagli, il sito del Teatro annuncia una durata netta di 2h33’ (48+48+57 minuti) quindi paragonabile a quella della citata produzione australiana, di 35’ e 20’ più breve delle registrazioni di Jacobs e Bolton. Stando al libretto pubblicato sul sito, essi riguardano: l’intero Prologo (quindi non vedremo né Filosofia, né Amore, perdendoci così un pertinente riferimento a ciò che seguirà immediatamente dopo). Poi alcune esternazioni del gaudente Gelone (distribuite nei tre atti). Nel second’atto l’aria Adorisi di Orontea, uno scambio di battute Aristea-Giacinta e le intere scene 15 e 16 (Gelone, Alidoro, Orontea). Nel terz’atto, oltre a Gelone (Scena 7) parte del monologo di Giacinta (Scena 10, Infelice cor mio) e la conclusione del monologo di Aristea (Scena 10, Il pianto, i sospiri) oltre all’esternazione di Giacinta (Scena 12, Il mio ben…)

Un maligno può pensare che questi tagli servano più che altro a far terminare lo spettacolo ben prima di mezzanotte e/o a rispettare vincoli di natura sindacale…
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Il soggetto (già un paio di volte musicato da altri a Venezia e Napoli, prima della proposta di Cesti a Innsbruck, e successivamente ancora a Vienna e Chantilly) si deve all’Academico instancabile D. Hiacinto Andrea Cicognini (testo modificato e completato poi per Cesti da Giovanni Filippo Apolloni). Ci racconta una storia semiseria ambientata in Egitto, avente per protagonista nientemeno che la Regina (Orontea, appunto). Che ci viene subito presentata come una Turandot ante-litteram: una femmina frigida e totalmente chiusa ad ogni sentimento o contatto con l’altro sesso.

Ma che – al contrario del dramma pucciniano - si tratti di cosa assai poco seria lo scopriamo ben presto: non appena le viene presentato un bel giovine pittore (Alidoro), povero migrante rifugiato laggiù dalla Fenicia e scampato ad un tentato omicidio, la gelida Orontea non solo si sgela sull’istante, ma è già bell’e che cotta a puntino! E, dopo aver esternato sorpresa e insieme disagio per ciò che le sta accadendo, si dichiara senza pudore innamorata del ragazzo, suscitando le ire dell’aio e confidente Creonte, che la vorrebbe sposa ad un sovrano.

Naturalmente accadranno poi lungo le tre ore dell’opera mille altre peripezie, in particolare un turbinio di improvvisi amori, disamori e riamori, innescati dal fascino irresistibile che Alidoro esercita su ogni fanciulla del circondario (oltre che sul giovane Tibrino, soprano en-travesti, suo salvatore). Principalmente su tale Silandra, che per lui (che ne è ben felice) pianta in asso, appena dopo un romantico duetto, il promesso Corindo, provocando le ire della gelosa Orontea che la sorprende con il bel pittore e passa subito dall’amore all’odio per il fedifrago, facendo però così scoprire all’ignara Silandra il parallelo legame di Alidoro con la Regina. 

La quale cambia di nuovo idea e lascia ad Alidoro una lettera traboccante d’amore e con la promessa di farne il suo consorte! Alidoro esulta, lasciando l'illusa Silandra (ubi major…) con un palmo di naso. Ma è il severo Creonte che ora impone alla Regina di cacciare il giovane amante; e lei stavolta, sia pur a malincuore, inspiegabilmente acconsente; il beffato Alidoro allora prova a consolarsi ricorrendo al back-up Silandra, che però adesso lo maledice a sua volta, come fedifrago, per poi tornare mogia e pentita dal suo Corindo! 

Alidoro suscita allora l’interesse della bella Giacinta, interpretata da un soprano ma travestitasi da bel ragazzo (Ismero) che si scopre fosse il responsabile dell’attentato al pittore. La quale Giacinta è a sua volta fatta oggetto delle attenzioni (qui si anticipano problematiche LGBTQ+@#§%$&£...) dell’attempata Aristea (sedicente madre di Alidoro) interpretata da un tenore (peraltro alla Scala sostituito da un mezzosoprano)!

Il tutto condito poi da scenette da puro avanspettacolo, protagonista Gelone, vecchio epicureo perennemente ubriaco, che commenta insieme a Tibrino gli avvenimenti d’attualità con salace distacco. 

Si dovrà necessariamente aspettare la fine del terz’atto per gustare il definitivo scioglimento, in gloria e felicità per tutti, di questo dramma giocoso: quando un’improbabile catena di indizi, messi in fila da Creonte (fattosi anche investigatore alla Sherlock Holmes) dopo il ritrovamento di alcuni ritratti di Alidoro, permetterà di riconoscere nel povero migrante un nobile di alto lignaggio (figlio nientemeno che del Re dei Fenici) e degno quindi di impalmare la Regina!
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Ecco, un plot che non poteva non colpire l’immaginazione del pubblico del 17° secolo. Ovviamente anche per merito della musica di Cesti. Che ci apprestiamo a godere da domani sera.

19 ottobre, 2019

Händel felicemente orfano della Cecilia


Ieri alla Scala è arrivato in Egitto Kuwait il Giulio Cesare di Händel, come sappiamo ormai da tempo orfano della sua tanto attesa Cleopatra, rimasta sdegnosamente a casa in compagnia di Semele (che si è fatta poi sostituire da... Agrippina) e Ariodante. Ciò non ha però fatto mancare il numero legale (di spettatori, nella fattispecie...): Piermarini con visibili vuoti in platea, ma al confronto con la prima di Quartett c’era un pienone... In ogni caso chi voglia apprezzare (o denigrare) la Cecilia-Cleopatra può sempre connettersi con youtube e vederle all’opera a Salzburg (con una regìa demenziale) compresi Antonini sul podio e Jaroussky come Sesto...
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Una prima osservazione riguarda i... tagli. L’opera (edizione originale del 1724) dura al netto circa 3 ore e 3/4. Con i due normali intervalli ci si avvicinerebbe a... Wagner. Ebbene, come già indicava la locandina online del Teatro, qui lo spettacolo ha quella durata, ma incluso intervallo: il che, conti alla mano, significa che dell’originale è stata tagliata circa mezz’ora. Magari con la lodevole intenzione di non far fare troppo tardi agli stoici spettatori accorsi nonostante tutto a teatro (oppure per esigenze registiche, o per entrambe le ragioni...) Ma ahinoi, a parte alcune parti in recitativo secco (e ci può stare) si tratta di tagli invero barbari, che ci privano di grande musica. I personaggi più penalizzati quantitativamente sono Achilla (che si perde due arie e l’intera scena della confessione dei suoi misfatti e del conseguente pentimento) e Cornelia (due arie in meno).

Nel dettaglio, scompaiono:

Atto I
- Aria n°9 di Cesare Non è sì vago e bello
- Aria n°10 di Cleopatra Tutto può donna vezzosa
- Seconda strofa (Qual sia di questo core) dell’aria n°13 di Cleopatra e ripresa della prima strofa (Tu la mia stella sei)
- Prima parte della scena XI con l’aria n°15 di Achilla Tu sei il cor di questo core

Atto II
- Seconda strofa (Se così Lidia vezzosa) dell’aria n°20 di Cesare e ripresa della prima strofa (Se in un fiorito ameno prato)
- Aria n°22 di Achilla Se a me non sei crudele
- Aria n°24 di Cornelia Cessa ormai di sospirare
- Seconda strofa (Mi sveglia all’ira) dell’aria n°31 di Sesto e ripresa della prima strofa (L’aura che spira)

Atto III
- Tutta la scena I di Achilla (aria n°32 Dal fulgor di questa spada spostata però nell’atto II, a fine della scena X)
- Confessione e morte di Achilla nella scena IV
- Aria n°38 di Sesto La giustizia ha già sull’arco
- Aria n°41 di Cornelia Non ha più che temere
- Seconda strofa (In me/te non splenderà) del duetto Cesare-Cleopatra n°43 (Caro/Bella Più amabile beltà)

Come si vede, ben sette arie cassate totalmente e altre tre in parte: una bella sforbiciata! Di conseguenza si opera un solo intervallo e, per non squilibrare troppo i tempi delle due parti, la pausa è posta all’interno del second’atto, ma non - come cita il libretto di sala - dopo il ricongiungimento Cornelia-Sesto (scena VI) ma assai prima, al termine della scena II, dopo l’aria n°20 (parzialmente tagliata) di Cesare.
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Un’altra considerazione riguarda gli interpreti: si sa che le parti di Cesare, Tolomeo e Nireno furono affidate in origine a (e quindi scritte per) contralti castrati, specie oggi lodevolmente estinta (almeno in ambito teatrale...) Ebbene, l’uso da qualche tempo invalso di impiegare dei controtenori (qui Mehta, Dumaux e Schifano) personalmente non mi convince del tutto: poichè la loro vocalità poco ha a che fare con quella potentissima (di cui esistono testimonianze concrete) dei castrati, che meglio è surrogabile - come si è quasi sempre fatto e spesso ancora si fa - con voci femminili, tipicamente di contralto. Qui - altra scelta discutibile - anche il ruolo di Sesto (in origine soprano en-travesti) è affidato ad un controtenore (Jaroussky). Insomma, si toglie l’en-travesti al personaggio per dirottarlo sulla voce!

Ma a parte queste considerazioni di principio, devo dire che tutti gli interpreti hanno mostrato grande padronanza dei rispettivi ruoli, a partire dalla Danielle de Niese, voce robustissima anche se spesso non tenuta adeguatamente a freno (mi riferisco alla tendenza a sbracare gli acuti a piena voce) e soprattutto alla Sara Mingardo, una Cornelia davvero perfetta, che non meritava lo scippo di due arie. Scippo subito anche dall’Achilla di Christian Senn, al quale però rimprovero (e non è la prima volta) un eccesso di forzature dei toni che finisce per compromettere una prestazione che sarebbe più che discreta. Oneste le figure di contorno e bene il coro di Casoni, impegnato poco (inizio e fine) ma sempre all’altezza. Giovanni Antonini si conferma solido interprete di questo repertorio e l’Orchestra barocca della Scala prosegue con successo il percorso di approfondimento di questo repertorio: impressionante in particolare lo schieramento di corni naturali.  
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Torno ora alla Mingardo per dire come già l’avessi apprezzata in Cornelia anni fa a Torino e per introdurre qualche considerazione sulla regìa di Robert Carsen. Non ripeto qui le premesse esposte proprio in occasione di quella produzione torinese, dove mettevo in evidenza le difficoltà che un regista creativo incontra con questo repertorio. Devo dire che Carsen, forte della sua esperienza, ha saputo metter su uno spettacolo godibilissimo senza minare la struttura e nemmeno i dettagli del soggetto originale.

L’ambientazione da subito pare spostata dall’Egitto al Golfo Persico, poichè si capirà alla fine che c’è di mezzo il petrolio (quasi introvabile nella terra dei Faraoni). Cesare potrebbe essere il generale Norman Schwarzkopf della guerra contro Saddam in Kuwait e Tolomeo uno sceicco troppo ambizioso che farà una brutta fine, lasciando spazio a colleghi di lui più accomodanti con gli yankee. Fin qui niente di nuovo sotto il sole, se è vero che il petrolio ha già sostituito persino l’oro in un Ring a Bayreuth!

Non manca qualche tocco di Kitsch, ma sempre contenuto entro i limiti del buon gusto. Un paio di cadute di tono e di stile (giudizio mio personale) nelle scene degli approcci di Tolomeo a Cornelia e poi dello stesso a Cleopatra, che sfiorano, pur senza valicarne i confini, la volgarità.

Carsen risolve, o cerca di risolvere, il problema capitale di come presentare le interminabili (quanto musicalmente divine!) arie col da-capo con invenzioni a volte geniali, altre un po’ meno. Ad esempio è strepitosa l’interpretazione dell’aria n°14 di Cesare (Va tacito e nascosto) nella scena IX del primo atto: trattandosi di un incontro diplomatico fra romani ed arabi, ecco che assistiamo ad un esilarante scambio di doni fra le due delegazioni, quella di Roma che porta preziosi oggetti targati FENDI e un pallone da calcio (Qatar-2022) e quella araba che reca capi d’abbigliamento locali e un’anguria!

Magistrale anche la resa della scena del Parnaso (aria n°19 di Cleopatra/Lidia V‘adoro, pupille) introdotta da immagini tratte da famosi film su Cleopatra. Un poco fredda l’ambientazione delle scene III e IV del second’atto (quelle del giardino): qui siamo in una palestra dove Cornelia lava il pavimento e dove Tolomeo canta l’aria n°23 (Sì, spietata, il tuo rigore) in cui Carsen rischia di cadere un po’ in basso, ecco... Come fa poi con l’aria n°34 (Domerò la tua fierezza) sempre di Tolomeo (scontro con Cleopatra, scena II del terz’atto).

Simpatica e intelligente la resa dell’aria di Cleopatra n°40 (Da tempeste il legno infranto) che comporta la presenza di una vasca da bagno in cui la principessa si immerge (come da leggenda) e ne esce, sempre schermata da un provvidenziale (o molesto, a seconda dei punti di vista...) lenzuolo retto dalle ancelle.

Anche Carsen però non sempre può tutto, e così spesso e volentieri si rifugia in... corner, o meglio in proscenio, dove relega il/la cantante per la conclusione di parecchie arie, calandogli/le alle spalle uno schermo, che serve anche a mascherare il cambio-scena. Sempre curata nei dettagli - ma qui il regista canadese è davvero un maestro - la recitazione di singoli e masse.

Alla fine ecco la sorpresa: i romani sono proprio... italiani! Barili di petrolio rossi e divise rosse di addetti alle trivellazioni recano un marchio inconfondibile: il cane cammello a sei zampe! Il coro finale vede un enorme oleodotto la cui saracinesca viene aperta da un romano e da un arabo e le due delegazioni (ENI e... Q8?) scambiarsi in pompa magna protocolli di accordo (e perchè non pensare, ehm, anche a qualche corposa mazzetta?)
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Grandissimo successo finale (dopo gli applausi seguiti sempre alle arie) con minuti e minuti di ovazioni per tutti indistintamente: complessi musicali e team di regìa.

Da non perdere! 

19 marzo, 2009

Commenti all’Alcina di Carsen alla Scala.

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Uno dei risultati - indubbiamente positivi - dello sbarco dell’Alcina di Carsen alla Scala è di aver sollevato discussioni sull’ormai annoso problema legato alla libera interpretazione di grandi opere del passato, e della loro riproposizione in chiave “moderna” e comunque diversa dallo stereotipo originale.

Magìa sì, magìa no è uno dei leit-motive di queste discussioni nei forum e delle recensioni che si leggono sui giornali. L’approccio e i tagli di Carsen sono un altro comune argomento di discussione.

Vediamo alcuni commenti scritti prima e dopo la prima, e reperibili in rete.

Angelo Foletto su Repubblica annunciava la prima con un riassunto dell’impostazione di Carsen (quale si poteva già leggere sul sito del teatro) derivata presumibilmente dall’esperienza parigina, con un fugace accenno ai ruoli di padrona e cameriera con cui Carsen veste Alcina e Morgana. E su quella di Antonini, di cui sembra citare passi di un’intervista.

Daniela Zuccoli sul Corriere anticipava così l’opera di Händel. Una presentazione succinta, ma assai fedele dell’approccio del regista canadese. Chi legge capisce benissimo che l’Alcina che vedrà alla Scala è ben diversa dall’originale barocco-magico, tutta incentrata invece su psicologia e analisi dei sentimenti.

Elsa Airoldi, sempre prima della prima, sul Giornale riferiva dell’approccio di Carsen, che mostrava di gradire, nella scolpitura dei sentimenti dei personaggi e nella scelta del finale, caratterizzato dal “senso di perdita”.

Sempre sul Giornale, a proposito della prima, Lorenzo Arruga si inventa - perchè l’ipotesi più probabile è che lui non ci fosse, o avesse nelle orecchie gli auricolari di un blackberry, e gli occhi fissi sul relativo schermino - un’accoglienza trionfale, con solo “...una manciatella sterile di buu...” Su Carsen comincia dicendosi incapace di “...capire cosa ci si guadagna a togliere la prospettiva della favola e della storia, vestire i personaggi come noi e lasciare a terra mostri volanti e affini...” per concludere, con logica stringente, che “... il suo gioco è ordinato, agile, coerente”. Esattamente come le idee di Arruga! Che ha lodi sperticate persino per il povero Alastair Miles, definito nientemeno che “autorevole”. Come Arruga, appunto.

Francesca Zardini, su AffariItaliani, elogia tutti, dal regista al maestro, ai cantanti, senza far cenno alla mezza gazzarra che aveva accompagnato la prima. Ma quel che stupisce è la disarmante ingenuità con cui tocca il tasto della regìa, da lei dapprima apprezzata senza riserve, ma poi di fatto criticata apertamente, per via dei tagli ai “sortilegi” (Atlante, l’anello di Angelica e lo scrigno). Quando basterebbe un minimo di analisi della concezione del regista per concludere che quei tagli ne sono la matematica conseguenza. O viceversa, se si censurano quei tagli, bisognerebbe allora aver il coraggio di criticare l’impostazione di fondo di Carsen, di cui sono figli.

Paolo Isotta, all’indomani della prima, oltre a considerazioni non del tutto fuori luogo riguardo la prassi di applaudire ogni aria, come era costume dei tempi, e come del resto si fa con Rossini, Donizetti e Verdi... parla di grande successo e di sua gran felicità, anche se cita la data di lunedi (sic!) e la contestazione a Carsen (vero) e alla Bacelli (falso, poichè la contestata era la Petibon) e ad Antonini (falso, come riportano tutte le testimonianze). Poi sembra dar ragione all’interpretazione tutta psicologica di Carsen, salvo però dirgliene di tutti i colori riguardo a scene, costumi e movimenti attoriali. Boh... chi lo capisce è bravo.

Alberto Mattioli su LaStampa apostrofa noi italiani come provinciali, non all’altezza di apprezzare le stratosferiche raffinatezze di un Carsen. Poi scrive testualmente: “Comincia come una commedia sexy da film brillante hollywoodiano e finisce svelando la faccia nascosta del capolavoro händeliano, dove la musica smentisce l’assunto moraleggiante del libretto. Quando svanisce l’isola della maga Alcina, anche nei paladini «conversi in onda, in fredde rupi e in belve» prevale la lancinante malinconia per quel mondo sparito, la nostalgia per il paradiso perduto.” Certo, è proprio così, ma questo è il finale dell’Alcina di Carsen, NON di quella di Händel. E i tagli, caro il mio Alberto, non sono motivati - come tu sostieni - da problemi di orario della metropolitana, eh no! Poi il nostro conclude buttando fango sui cantanti. Bontà sua, salva almeno Antonini e gli strumentisti scaligeri.

Chiudiamo ancora con Angelo Foletto, che su Repubblica porta Antonini al settimo cielo (e ci sta). Poi passa a Carsen e non si capisce se lo voglia fare santo subito, o spedire all’inferno. Scrive infatti: “L'illusionistica ricchezza musicale della partitura-capolavoro, esaltata dalla lettura strumentale e dalla flessuosità direttoriale, era di proposito negata dal cupo e bellissimo spettacolo di Robert Carsen che rappresentava l'isola magica come un regno di erotismi borghesi e sensualità funerea”. Insomma, Angelo, ha ragione Antonini o Carsen? La musica o la regìa che la nega? Ancora: “...il finale aperto, con Ruggiero stordito che forse non tornerà da Bradamante, è vero e toccante.” Quindi bravo Carsen? Però così chiude Foletto: “...il pubblico, già disorientato dallo scetticismo amoroso portato in scena da Carsen.” Insomma, un colpo al cerchio, uno alla botte e un terzo alla... logica!
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14 marzo, 2009

Alcina (selon Carsen) alla Scala.


Su Händel se ne leggono davvero di bizzarre... ci dev’essere qualche baricca anche in Albione (nessuna meraviglia, per carità). Ma il genio non viene stabilito per voto democratico, nè tantomeno per blog-parere e ormai Händel non lo può più seppellire alcuno. Alcina è poi una di quelle opere - chiedo scusa a Giovanni Bardi: dramma per musica - che solo una mente bacata potrebbe dileggiare: peggio per lei.

Per la verità l’Alcina che si rappresenta in Scala (ripresa, con qualche aggiustamento e ulteriore taglio, dall’edizione parigina di 10 anni fa) non è propriamente l’originale di Händel, ma una libera rivisitazione di Robert Carsen, che ha applicato anche qui nel modo più classico il processo tipico del Regietheater: si studia il soggetto originale, se ne deriva una propria libera interpretazione (il Konzept) e ci si costruisce un nuovo soggetto e tutta l’opera intorno. Laddove l’originale ha parti - anche musicali! - che non collimano con il nuovo Konzept, nessun problema: si cambia l’originale, anche radicalmente, per farlo aderire alla geniale idea del regista. Il risultato può magari essere - come nel caso in questione - un’opera d’arte... peccato che è altro da ciò che l’Autore aveva immaginato e scritto. Pazienza. O così, o... così. Nella fattispecie, l’Alcina di Händel, una barocca Zauberoper (dramma magico) a lieto fine, nelle mani di Carsen diventa uno spaccato psico-sociologico della moderna società borghese, con i relativi complessi e individui complessati. Anche scene e costumi, per conseguenza, si adattano: nessuna macchina straordinaria per mostrarci i miracoli, conseguenti alle diverse magìe, ma ambienti minimalisti, funzionali al simbolismo che caratterizza la vision del regista. A parte qualche caduta di stile, artisticamente di alto livello.

Comincio dai dettagli futili e tragicomici: ieri proprio all’inizio mi è parso di essere capitato ad una porno-kermesse, tanta era la gente nuda o mezza-nuda presente in palcoscenico. Io poi, in prima fila di loggione e armato del mio binocolo da marina, ho fatto due figure grame in un sol colpo: quella del voyeur ed insieme quella del checca, datosi che i nudisti erano esclusivamente di sesso (um) ...forte. Sia chiaro: da me non uscirà un sol verbo di condanna moraleggiante di questa gratuita trovata kitsch (in gergo: pagliacciata) del genio Carsen. Il fatto è che al peggio non c’è limite, e purtroppo essendoci in giro di peggio... chiediamo che la pratica sia insabbiata, vostro onore, e non se parli più. Salvo ricordare che nell’Alcina il nudo effettivamente c’è, ma espresso con somma poesia e pudicizia, in un unico verso, recitato all’inizio (Scena IV) da Ruggiero: “Servo ad Amor, che va senz’arme, e nudo.” Inutile dire che i nudi di Carsen (che tornano ripetutamente) non aggiungono un grammo di poesia, non dico di nobiltà, a quel verso, anzi trivializzano questo e le scene in cui sono presentati.

Peccato perchè, nel bene e nel male, Carsen è un genio per davvero - come Herheim, Konwitschny, Chéreau ed altri Regisseur - e non si capisce perchè debba talvolta abbassarsi al livello di un Bieito qualunque, invece di limitarsi a stravolgere “artisticamente” il soggetto: peggio per lui.

Quanto al suo Konzept, comporta cosette da nulla, come il totale sovvertimento della natura stessa di alcuni personaggi (massimamente Morgana e Oronte) e lo stravolgimento del libretto (con conseguenti tagli alla parte musicale) quando per l’appunto esso non “quadra” con il Konzept. Vediamo.

Intanto - già si nota dalla locandina, e non c’entra nulla con i tagli del FUS - manca del tutto un personaggio: Oberto (c’era, ma già castrato, nell’allestimento di Parigi). Quindi mancano anche le sue arie, tre perle di cui Carsen ci priva proditoriamente: “Chi m’insegna” nell’Atto I, “Tra speme e timore” nell’Atto II e “Barbara!” che si perde, compreso il Coro “Sin per le vie del sole”, insieme all’intera Scena VI dell’Atto III. Perchè Oberto stride con il suo Konzept! Carsen si fa un baffo della magìa (e delle maghe)! Händel ha scritto nientemeno che 5 opere (Bardi, scusami ancora: drammi per musica) su soggetti che implicano o richiamano la magìa? Chi se ne frega, io sono Carsen e per me la magìa è roba da baricchi, no scusate, da barocchi, siamo nel terzo millennio o no?

Quindi Morgana non è una maga, sorella della maga nonchè regina Alcina, anche lei signora degli uomini e dell’amore, no no: è una servetta di albergo che la dà via al primo che passa, come è tipico della nostra malata società, nicht wahr?

Oronte è (selon Carsen) un maggiordomo - e non il capo degli armigeri della regina - una vera macchietta, tipico complessato, che fa a volte l’untuoso, a volte la spia, secondo convenienza; si capisce bene perchè venga del tutto espunta la Scena VIII dell’atto conclusivo, laddove Ruggiero gli dovrebbe rendere la spada (ma come, la spada al maggiordomo?)

La scena di Melisso e Ruggiero all’inizio dell’Atto II (come concepita da Carsen) sarà pure geniale - niun lo nega - ma stravolge del tutto l’originale magico di Händel: secondo cui Melisso (sotto le spoglie di Atlante, altro magico particolare espunto da Carsen) porge a Ruggiero l’anello magico di Angelica, il che provoca il dissolvimento istantaneo della fastosa sala in cui si trovano, trasformata in landa desolata. È la magìa di Alcina che viene neutralizzata da altra magìa, facendo capire a Ruggiero di essere stato vittima di un sortilegio (baroccheria sopraffina). Invece il sociologo Carsen ci deve spiegare artisticamente che la magìa non esiste, ma solo il tradimento sessuale della ninfomane Alcina, mostrata a Ruggiero in una foursome orgy che apre il cervello al nostro ingenuo giovine, ma a noi spettatori mostra un’Alcina schiava del sesso, qui in totale contrasto con la complessa personalità della regina, peraltro ben rappresentata in tutto il resto dell’opera. (D’altronde anni fa abbiamo mandato Cicciolina a Montecitorio...)

L’ultima scena dell’Atto II (quello di Händel, si capisce) è ancora pervasa di magìa: Alcina cerca invano di evocare gli spiriti dell’Acheronte, perchè la difendano dal rinsavito Ruggiero; e solo quando getta la bacchetta magica, andandosene via, essi compaiono e si mettono a ballare, disturbando i suoi sogni. Carsen? Nulla di tutto ciò, anzi tutt’altro: Alcina che si aggira in mezzo ai corpi immobili (molti nudi, ovviamente) dei suoi ex-amanti! Suggestivo, nessun dubbio, ma cosa c’entri con l’originale lo sa solo Carsen.

La magìa - chiaro ormai - scompare del tutto anche nel finale, dove Alcina viene fisicamente ammazzata (o forse si suicida - à la Tristan - buttandosi sulla lama brandita da Ruggiero) e i suoi ex-amanti, molti nudi, al solito, si risvegliano per farle il funerale, depositandola su un letto. Lì dove, nell’originale, dovrebbe esserci lo scrigno delle magìe. A proposito, quello scrigno può essere benissimo immaginato come la rappresentazione del femminino (dell’utero, se proprio si vuol andar giù piatti) la cui profanazione fa cadere tutto l’incantesimo. Carsen invece va proprio al sodo-sodo, e ci mette direttamente il letto, dove noi comuni mortali facciamo le nostre per nulla magiche porcherie.

Adesso si deve chiudere: come? Con Händel? No di sicuro. Infatti, insieme ai balli (Bondi ha già tagliato il famoso corpo scaligero, per caso?) anche il finale - c’era da dubitarne? - viene brutalmente e puramente espunto (incluso il coro “Dopo tante amare pene” dove Casoni avrebbe fatto cose strabilianti) poichè unfitting con il Konzept del genio canadese, che ci mostra invece Bradamante e Ruggiero che - neanche mezz’ora dopo essersi felicemente ricongiunti - già separano le loro strade, andandosene via in direzioni quasi opposte, sul mesto accordo di SOL minore. Ovvio, noi gente scafata del terzo millennio mica vorremo credere ancora ad un lieto fine, in SOL maggiore, vero?

Carsen ha anche geniali intuizioni, come la giacca di Ruggiero, accarezzata prima da Bradamante (sull’aria di Melisso “Pensa a chi geme”) e poi da Alcina (sull’aria “Mi restano le lagrime”) a rimarcare un parallelo fra la donna (Bradamante) e la maga, finalmente ridotta a donna (Alcina) accumunate dal dolore per l’amante perduto (sempre viste a letto, peraltro). In altre circostanze Carsen è un po’ deboluccio, come nella scena dei “Verdi prati” (fondale che avrebbe mandato in bestia uno come Appia) o nella prima scena dell’Atto III, con Morgana e Oronte (la servetta e il maggiordomo) che rifanno il letto e ci si coricano amoreggiando (nulla di tutto ciò in Händel, manco a dirlo).

Insomma. L’interpretazione di Carsen immagino sarà apprezzata da chi non sopporta che un’opera barocca venga rappresentata come tale, o da chi - altrove - pretende che il wagneriano Ring sia sempre ed obbligatoriamente calato in una qualche dimensione della realtà politica o sociale contemporanea. Viva la libertà di espressione!

Veniamo alla performance artistica. Riedizione del caso Don Carlo? Alla prima il finimondo, alla seconda applausi e urla di bravo! per (quasi) tutti. Non solo per il maestro Antonini, che sembra proprio vivere in simbiosi con questa celestiale musica (peccato che - colpa del Konzept di Carsen - se ne sia dovuta tenere una buona parte nella bacchetta!) ma anche per gli interpreti, la Harteros-Alcina in testa, ma anche la Petibon-Morgana, letteralmente fatta a pezzi martedi 10. Trionfo anche per Bacelli e Hammarström, benevoli applausi per i due maschi della compagnia.

Carsen non si è fatto vedere. Forse è ancora appeso all’acero cui lo hanno impiccato martedi e ha deciso di passarci - à la Odin - 9 giorni e 9 notti, in modo da trasformarsi da genio direttamente in dio. Peggio per lui, perchè ieri sera sono sicuro che il loggione, oltre alla platea, avrebbe applaudito anche lui...

Modesto consiglio: visto che ci sono ancora parecchi posti disponibili per le prossime recite... chi appena può dia una mano a rialzare il PIL. Saranno quattrini spesi bene.
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