XIV

da prevosto a leone
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27 settembre, 2024

La nuova Orontea della Scala.

E così ieri sera abbiamo potuto finalmente goderci questa Orontea di Marco Antonio Cesti che mancava dai cartelloni del Teatro dal lontano 1961.

Una produzione da promuovere a pieni voti (personalmente avrei aggiunto anche il pomposo maxima cum laude se fossero stati evitati i tagli). Giacchè Giovanni Antonini e Robert Carsen hanno messo tutta la loro esperienza e consuetudine con l’opera barocca per confezionare uno spettacolo invero coinvolgente, giustamente apprezzato con entusiasmo dal pubblico scaligero. O almeno da quella parte (pochi ma buoni?) rimasta sino alla fine…

La vicenda è opportunamente portata fuori dal tempo e dallo spazio del testo di Cicognini, per sottolineare l’attualità dei sentimenti che muovono i diversi personaggi, pulsioni che sono le stesse oggi (a Milano!) di quelle di lontane epoche storiche. Scene e costumi (di Gideon Davey) sono perfettamente funzionali a questo approccio. Efficace (come sempre) la gestione delle luci (di Carsen e Peter van Praet).

La scena (poggiata sull’ormai immancabile supporto rotante) consente i rapidi mutamenti richiesti dal vorticoso svilupparsi dell’azione: si passa dalla galleria d’arte con letto centrale (per ospitare  Orontea in crisi dopo il colpo di fulmine e poi le effusioni di Silandra e Corindo) e le feste che chiudono il primo e l’ultimo atto; per passare successivamente allo spoglio atelier (dove Alidoro dipinge Silandra, con ciò che segue); o all’ufficio di rappresentanza della Regina (con skyline della moderna Milano); e ad un parcheggio sotterraneo per gli incontri Aristea-Giacinta. 

In questo ambiente si muovono i personaggi, tutti perfettamente centrati sulle rispettive, diverse caratteristiche psicologiche e comportamentali dall’esperta mano del regista. Masse di figuranti riempiono le scene di… bevute e festeggiamenti.
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Torno ancora sulla questione tagli: quello dell’intero Prologo (che fu riscritto da Apolloni proprio per Cesti - che lo ricoprì di mirabile musica - in sostituzione dell’originario di Cicognini) e che serve a creare le premesse a ciò cui si assisterà proprio nella primissima scena dell’atto iniziale. Filosofia e Amore ne sono i due protagonisti e, in senso lato, rappresentano le posizioni divergenti di Orontea e Creonte.

Francamente inspiegabili poi i corposi tagli inflitti alla parte del personaggio buffo di Gelone: nell’atto primo, scena 7, scompare la sua risposta prosaica al nobile inno all’amore di Corindo, e con essa si perde questo vivace contrasto di sentimenti; nella scena 13 è cassato un suo gustoso intervento (Ah, scelerato) nel dialogo con Tibrino; nel second’atto sono interamente soppresse le scene 15 e 16, dove Gelone è spassoso protagonista, dapprima narrando un suo sogno e poi scoprendo Alidoro svenuto (dopo lo scontro con Orontea e Silandra); nella scena 7 del terz’atto è soppresso il suo divertente Balordo è chi non sa… (subito dopo è tagliata l’esternazione di Corindo).

Alidoro viene privato (atto primo, scena 10) della seconda strofa della sua esternazione dopo il suo secondo incontro con Orontea.    

A Silandra viene tolta (atto primo, scena 11) l’ultima strofa del suo incontro con Alidoro, prima del conclusivo a due, dove lei ammette di aver avuto altri amanti (Corindo, ndr) ora scordati dopo aver incontrato lui.

Davvero inspiegabile anche il taglio della seconda delle tre strofe (Adorisi sempre) di Orontea (atto 2, scena 1).

Nella scena 7 del second’atto è omessa una parte del dialogo fra Aristea e Giacinta, con le profferte della prima e i dinieghi della seconda; Giacinta è privata (atto 3, scena 10, Infelice cor mio) dei rimorsi per aver attentato alla vita di Alidoro, di cui ora è innamorata! Subito dopo è Aristea che perde la sua esternazione (Il pianto, i sospiri…) sulla maggior efficacia dell’oro rispetto all’amore! Poi, nella scena 12, dopo la sua dichiarazione ad Alidoro, Giacinta è privata delle due strofe finali, con il suo accorato Il mio ben dice ch’io speri…

Insomma, per questa nuova e importante produzione si poteva osare di più (imitando Jacobs e Bolton) anche a costo di anticipare l’orario d’inizio dello spettacolo alle 19:30 (tanto chi poi si annoia, se ne va ugualmente…) [Il prossimo, intonso Rosenkavalier inizierà, giustamente, alle 19!]
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Sul piano musicale, convincenti le scelte di strumentazione di Antonini (dove l’Autore lascia ampia libertà di approccio al Direttore) volte a garantire perfetta udibilità dell’orchestrina (20 elementi in tutto) nell’immenso spazio del Piermarini.

Tutti da elogiare i membri del cast vocale.

Stéphanie d’Oustrac si cala perfettamente nella personalità dissociata (sicura > insicura > innamorata > gelosa > irosa) della Regina, cui dà la sua voce con tutta la necessaria varietà di accenti.

Carlo Vistoli è un perfetto Alidoro: narciso, sciupafemmine, incostante, cinico, è il naturale contraltare dell’insicura Orontea (che si merita proprio un marito come lui!)

Mirco Palazzi riveste della sua corposa e morbida voce di basso il personaggio di Creonte, una specie di Mazzarino, o di Richelieu, cocciutamente legato alla Realpolitik.

Francesca Pia Vitale è l’interprete ideale (per la voce sempre ben proiettata e per la presenza scenica davvero… ehm… stimolante) per il volubile e un po’ carognesco personaggio di Silandra. E, analogamente alla coppia Orontea-Alidoro, anche l’ingenuo Corindo di Hugh Cutting sembra proprio fatto apposta per accoppiarsi con quell’incostante ragazzina un po’ viziata.

Marcela Rahal (cui manca solo qualche decibel) si è ben calata nella parte della babbiona assatanata di sesso, anche lei perfettamente accoppiata con l’enigmatica e subdola Giacinta (opportunamente travestita da easy-rider) che Maria Nazarova ha interpretato con verve e bella voce squillante.

Luca Tittoto è stato un Gelone praticamente perfetto, e proprio per questo non avrebbe meritato tutti i tagli che lo hanno… mutilato! Con lui, Sara Blanch è stata un convincente Tibrino, suddito fedele, valletto, aspirante guerriero e, chissà, pure lui (lei) colpito/a dal fascino di Alidoro.

Alla fine solo applausi e bravo! per tutta la compagnia di musicanti. Su Carsen e i suoi due soci è piovuta qualche sporadica contestazione, ma ampiamente sommersa dai consensi.

11 giugno, 2024

Dopo 44 anni riecco un grande Werther alla Scala

La Scala ripropone il capolavoro di Jules Massenet dopo più di 44 anni (ultima apparizione il 23 febbraio 1980, allora il sommo Georges Prêtre sul podio e l’indimenticabile Alfredo Kraus nel ruolo del titolo). Si tratta di una nuova produzione, in partnership con il Théâtre des Champs-Élysées, dove approderà fra poco meno di un anno. Allestimento di Christof Loy e direzione musicale di Alain Altinoglu.

Qualche – più o meno peregrina – osservazione sul plot (quello del libretto, in confronto con il romanzo dell’irraggiungibile Goethe) avevo già avanzato più di sette anni orsono, in occasione di una recita a Bologna, alla quale rimando perciò le moltitudini di curiosi e perditempo…

Attenzione: le – sacrosante – critiche al libretto (profonde e maldestre deviazioni rispetto al testo di Goethe, presenza di fatti e situazioni del tutto improbabili se non addirittura in aperto contrasto fra loro, …) non comportano assolutamente un giudizio negativo sull’opera che al contrario, e grazie alla musica di Massenet, continua a coinvolgere ed emozionare ad ogni ascolto. In specie se presentata con la cura e la professionalità che contraddistinguono questa nuova produzione scaligera.

Benjamin Bernheim: un fenomeno davvero, Werther perfetto, fino al midollo. Non gli manca proprio nulla della personalità disturbata del protagonista: canto e portamento scenico in assoluta simbiosi (possiamo discutere la scelta registica del finale, dove Loy calca la mano sul melodramma strappalacrime, facendolo cadere e rialzare un paio di volte mentre duetta con Charlotte). A lui il pubblico ha meritatamente riservato il massimo del calore.  

Alain Altinoglu guida un’orchestra in gran forma, cavandone fuori tutte le meraviglie che costellano questa partitura: voci sempre accompagnate con equilibrio, squarci naturalistici che non cadono mai in eccessi di decadentismo e pathos continuamente tenuto alto (un breve applauso a scena aperta per Charlotte – per fortuna non per Werther nel Pourquoi me réveiller – ha un po’ rotto l’incantesimo).

Victoria Karkacheva è stata una Charlotte più che dignitosa: forse un po’ attorialmente impacciata e con qualche debolezza nella parte bassa della tessitura; ma anche per lei l’accoglienza è stata da alto gradimento.

I due comprimari (Jean Sébastien Bou e Francesca Pia Vitale) hanno degnamente completato il quadro: lui mettendo la sua calda voce baritonale al servizio di un Albert che sotto la crosta del fair-play nasconde una crescente insofferenza verso Werther, culminata (grazie a Loy) nel trattamento che riserva alle… lettere nel finale del dramma; lei creando una Sophie tutta verve e maliziosità, aiutata in ciò dalla scelta registica (quanto mai azzeccata) di farcela comparire in scena in tutti i momenti topici, dall’apertura del sipario all’arrivo di Werther, poi a tutto il finale,  dove i quattro protagonisti restano sempre presenti.

Di tutto rispetto le prove degli altri: Armando Noguera, Borgomastro severo e un po’ lunatico, Rodolphe Briand e Enric Martínez-Castignani (gli amiconi di mangiate e bevute).

Ammirevole la prestazione dei sei fanciulli, guidati dal venerabile Mario Casoni, con il loro canto fuori registro alle… prove di luglio che si nobilita poi nella notte di Natale.

Con i due personaggi muti (Pierluigi D’Aloia ed Elisa Verzier, Bruhlmann e Katchen) passo quindi a qualche nota sulla regìa di Christof Loy. Che ce li mostra quasi come due alias dei protagonisti: lui sempre ubriaco – di mal d’amore? – e lei perennemente cupa e preoccupata.

Johannes Leiacker ha approntato un ambiente scenico assai ristretto: in pratica al solo proscenio allargato, chiuso da un’alta parete che mostra una grande porta scorrevole. Oltre la quale si intravedono di volta in volta ambienti diversi a caratterizzare i diversi momenti del dramma: tavole imbandite, due grandi vasi con cespugli rinsecchiti (ritorno di Werther) e il finale albero di Natale. Per il resto, tutto si svolge in primo piano e a scena spoglia.   

I costumi di Robby Duiveman ci portano ad un’anonima contemporaneità, e le luci di Roland Edrich sono manipolate con parsimonia, senza grandi effetti speciali.

Fino alla scena madre del terz’atto (la tentata violenza di Werther su Charlotte) Loy si tiene su un rigoroso piano interpretativo che potrei definire fin troppo tradizionale e rispettoso anche della lettera (oltre che dello spirito) del dramma.

È il finale che ci riserva l’immancabile tocco di genio (o… sregolatezza? Ciascuno giudicherà liberamente…)

In scena vediamo tutti i quattro protagonisti, sempre insieme! Albert sopraggiunge accolto (ancora!) da Sophie, che lì resterà fino alla fine: dopo Charlotte, redarguita dal marito, rientra in scena anche Werther (!) al quale la donna reca direttamente le pistole, che lui si porta dietro la porta scorrevole. [Ho il vago sospetto che Loy abbia già in mente una versione ancor più concentrata del finale: dove sarà direttamente Charlotte a ficcare un bel colpo di pistola in testa a Werther.]

Albert raccoglie le lettere di Werther (che Charlotte aveva estratto nella famosa scena dalle tascone della pelliccia…) e le sfoglia, spargendole sul pavimento. Si odono due (!) colpi di pistola dietro la porta scorrevole. Ne esce Werther, barcollante. Dapprima si stravacca – e qui ci siamo! - proprio sulle sue lettere, ma poi si risolleva e ricade un paio di volte (e qui davvero si fa largo un po’ di Kitsch…) fino a stramazzare definitivamente. (Sophie ha indossato la pelliccia di Charlotte, non senza psicologica spiegazione.)

Devo dire che tutto ciò, insieme ad aspetti del tutto condivisibili, mi ha lasciato abbastanza perplesso (siamo al famola strana?)
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In ogni caso il pubblico ha tributato un autentico trionfo a tutti. Cosa che nella sostanza mi sento di condividere ampiamente.

05 aprile, 2023

La Napoli settecentesca trionfa alla Scala

Dopo La Calisto della penultima stagione, la Scala prosegue nel suo revival settecentesco con una proposta assai interessante, un’opera comica in dialetto napoletano. Si tratta di Li zite ngalera (no, non è Giorgio Bracardi…) che un musicista dal nome piuttosto impegnativo aveva composto per il Teatro dei Fiorentini di Napoli, specializzato nel repertorio leggero (quasi un secolo dopo vi sarà di casa anche Rossini, prima di passare, con l’opera seria, al SanCarlo). 

Piermarini con qualche vuoto all’inizio, poi ampliatosi assai nell’intervallo, ma chi è rimasto fino alla fine ha applaudito e ovazionato tutta la troupe per almeno 10 minuti buoni!  

L’allestimento è curato da Leo Muscato (già distintosi qui proprio con Rossini per un Barbiere, che tornerà a settembre) che è anche autore della preziosa traduzione italiana (eh sì, ad uso e consumo di noi polentoni del nord, soprattutto) del libretto di Bernardo Saddumene.

Soggetto che si presta, per sua natura, oltre che per le consuetudini dell’epoca, a incursioni nell’area che oggi è d’attualità sotto il termine LGBTQ+… Non solo abbiamo parti en-travesti per così dire tradizionali (femmine – tipicamente contralti, ma qui anche soprani e controtenori - che impersonano maschi e maschi – tenori - che impersonano femmine) ma anche travestimenti in senso proprio (femmine che si travestono da maschi) il che eleva a potenza le occasioni e i pretesti per creare equivoci di ogni sorta. Basti osservare come al centro del plot ci siano tre voci di soprano: una femmina (Belluccia) travestita da maschio (Peppariello) che tenta di riconquistare l’amore di un maschio (Carlo, femmina en-travesti) che sua volta concupisce un’altra femmina (Ciommetella) la quale si innamora perdutamente della travestita Peppariello: insomma, uno strepitoso triangolo, che ovviamente si presta ad ogni sorta di situazione… ehm equivoca, con piccanti doppi-sensi e salaci sottintesi.

Soggetto che presenta poi aspetti sui-generis (in territorio comico invece che drammatico) di pièce-à-sovetage (Belluccia-Peppariello tipo Leonore-Fidelio). Il tutto in uno scenario percorso da patetiche gare fra maschi frustrati che si contendono l’unica femmina passabile del circondario (a sua volta frustrata per la mancata cattura della femmina-maschio di cui sopra); e velleitari tentativi di un’attempata femmina (cantata da un tenore) per guadagnarsi i favori di quegli stessi maschi frustrati!

Immancabile il lieto fine, dove l’Autorità superiore dismette miracolosamente la sua ira punitiva per perdonare figlia e futuro genero e concedere a tutti l’auspicato, gratificante futuro… in galera, appunto.

Quanto alla musica, Vinci fa maledettamente sul serio, per rigore e austerità, mantenendosi sempre su un piano nobile, e mai scadendo nel frivolo e nel disimpegnato. Andrea Marcon la interpreta con gusto e raffinatezza, guidando i 21 barocchisti scaligeri, rinforzati da 9 elementi de La Cetra Barockorchester e sedendo lui stesso al cembalo.
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Muscato ambienta l’intera opera in un albergo e dintorni, le cui diverse zone, stanze e lobby sono costituite da mini-scenari (di Federica Parolini) che, traslando dalle quinte di destra verso quelle di sinistra o viceversa, e magari combinandosi, di volta in volta mettono in primo piano gli ambienti delle diverse scene. Un velario scende spesso per mettere in primo piano ciò che accade al proscenio.

Simpaticamente appropriati i costumi di Silvia Aymonino e assai efficaci le luci manovrate da Alessandro Verrazzi. Undici mimi contribuiscono ad animare alcune scene, tipo l’arrivo della galera del padre di Belluccia, carica di turchi e schiavottelle.  

Insomma, un’ambientazione simpatica e intelligente, che valorizza in pieno il dipanarsi dell’apparentemente complicata vicenda. Meritati quindi gli applausi e le ovazioni che hanno accolto alla fine tutto il team registico.
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Detto già della pregevole prestazione di Direttore e strumentisti (incluso lo zufolo che ha fatto per lunghi tratti il verso del pappagallo in gabbia) resta da lodare in blocco il cast delle voci.

A partire da quelle di soprano protagoniste del triangolo: lo svettante Carlo di Francesca Aspromonte, la sdoppiata Belluccia-Peppariello di Chiara Amarù e la frustrata Ciommetella di Francesca Pia Vitale. Memorabile e strepitosa la scena del loro terzetto dell’atto II.

Il controtenore Raffaele Pe ha strappato applausi per la sua prestazione – non solo canora, ma attoriale – nei panni di Ciccariello, questa specie di Cherubino ante-litteram.

L’altro controtenore Filippo Mineccia ha autorevolmente dato forma al personaggio di Titta, che alla fine viene gratificato dall’amore della tanto inseguita Ciommetella.     

Alberto Allegrezza ha prestato la sua voce, en-travesti, alle velleità amorose dell’attempata Meneca, sfoggiando per di più anche le sue doti di specialista al flauto dolce!

Il terzo pretendente (con Carlo e Titta) a Ciommetella è il navigato Antonino Siragusa, che ha messo la sua squillante voce tenorile al servizio del barbiere Col’Agnolo. Il garzone di Meneca, nonchè cuoco, Rapisto, è stato efficacemente impersonato da Marco Filippo Romano, solida e penetrante voce di basso-baritono.

Filippo Morace ha fatto la sua bella figura nei panni – peraltro quantitativamente ristretti - del Capitano di galera Federico Mariano, mentre il suo aiutante-tirapiedi Assan aveva la voce dell’altro basso, l’accademico Matias Moncada. L’altra accademica, Fan Zhou, se l’è cavata bene nei panni della schiavottella, cui è riservata una breve aria nel finale.
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Come detto, trionfale accoglienza per tutti e per ciascuno, a riprova della validità di questa coraggiosa proposta del Teatro milanese.