Dopo La
Calisto della penultima stagione, la Scala prosegue nel suo revival
settecentesco con una proposta assai interessante, un’opera comica in dialetto
napoletano. Si tratta di Li zite ngalera (no, non è Giorgio Bracardi…) che un
musicista dal nome piuttosto impegnativo aveva composto per il Teatro dei
Fiorentini di Napoli, specializzato nel repertorio leggero (quasi un
secolo dopo vi sarà di casa anche Rossini, prima di passare, con l’opera
seria, al SanCarlo).
Piermarini con qualche vuoto all’inizio, poi ampliatosi assai nell’intervallo, ma chi è rimasto fino alla fine ha applaudito e ovazionato tutta la troupe per almeno 10 minuti buoni!
L’allestimento è curato da Leo Muscato (già distintosi qui proprio con Rossini per un Barbiere, che tornerà a settembre) che è anche autore della preziosa traduzione italiana (eh sì, ad uso e consumo di noi polentoni del nord, soprattutto) del libretto di Bernardo Saddumene.
Soggetto che si presta, per sua natura, oltre che per le consuetudini dell’epoca, a incursioni nell’area che oggi è d’attualità sotto il termine LGBTQ+… Non solo abbiamo parti en-travesti per così dire tradizionali (femmine – tipicamente contralti, ma qui anche soprani e controtenori - che impersonano maschi e maschi – tenori - che impersonano femmine) ma anche travestimenti in senso proprio (femmine che si travestono da maschi) il che eleva a potenza le occasioni e i pretesti per creare equivoci di ogni sorta. Basti osservare come al centro del plot ci siano tre voci di soprano: una femmina (Belluccia) travestita da maschio (Peppariello) che tenta di riconquistare l’amore di un maschio (Carlo, femmina en-travesti) che sua volta concupisce un’altra femmina (Ciommetella) la quale si innamora perdutamente della travestita Peppariello: insomma, uno strepitoso triangolo, che ovviamente si presta ad ogni sorta di situazione… ehm equivoca, con piccanti doppi-sensi e salaci sottintesi.
Soggetto che presenta poi aspetti sui-generis (in territorio comico invece che drammatico) di pièce-à-sovetage (Belluccia-Peppariello tipo Leonore-Fidelio). Il tutto in uno scenario percorso da patetiche gare fra maschi frustrati che si contendono l’unica femmina passabile del circondario (a sua volta frustrata per la mancata cattura della femmina-maschio di cui sopra); e velleitari tentativi di un’attempata femmina (cantata da un tenore) per guadagnarsi i favori di quegli stessi maschi frustrati!
Immancabile il lieto fine, dove l’Autorità superiore dismette miracolosamente la sua ira punitiva per perdonare figlia e futuro genero e concedere a tutti l’auspicato, gratificante futuro… in galera, appunto.
Simpaticamente appropriati i costumi di Silvia Aymonino e assai efficaci le luci manovrate da Alessandro Verrazzi. Undici mimi contribuiscono ad animare alcune scene, tipo l’arrivo della galera del padre di Belluccia, carica di turchi e schiavottelle.
A partire da quelle di soprano protagoniste del triangolo: lo svettante Carlo di Francesca Aspromonte, la sdoppiata Belluccia-Peppariello di Chiara Amarù e la frustrata Ciommetella di Francesca Pia Vitale. Memorabile e strepitosa la scena del loro terzetto dell’atto II.
Il controtenore Raffaele Pe ha strappato applausi per la sua prestazione – non solo canora, ma attoriale – nei panni di Ciccariello, questa specie di Cherubino ante-litteram.
L’altro controtenore Filippo Mineccia ha autorevolmente dato forma al personaggio di Titta, che alla fine viene gratificato dall’amore della tanto inseguita Ciommetella.
Alberto Allegrezza ha prestato la sua voce, en-travesti, alle velleità amorose dell’attempata Meneca, sfoggiando per di più anche le sue doti di specialista al flauto dolce!
Il terzo pretendente (con Carlo e Titta) a Ciommetella è il navigato Antonino Siragusa, che ha messo la sua squillante voce tenorile al servizio del barbiere Col’Agnolo. Il garzone di Meneca, nonchè cuoco, Rapisto, è stato efficacemente impersonato da Marco Filippo Romano, solida e penetrante voce di basso-baritono.
Nessun commento:
Posta un commento