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20 maggio, 2018

A Torino spopola Anna Caterina Antonacci


Ieri pomeriggio al Regio è andata in scena la seconda recita del dittico imperniato sulla figura di interprete di Anna Caterina Antonacci. (Mercoledi scorso Radio3 ha diffuso i suoni della prima.) Pubblico piuttosto scarseggiante (per illuderci che non sia puro disinteresse diamo la colpa alla contemporanea rappresentazione del settimo sigillo...) Regio che, negli ultimi tempi, ha visto la sostituzione dei principali livelli di responsabilità: Maestro del Coro, Direttore Musicale, Direttore Artistico e Sovrintendente! Il tempo dirà se sarà stato un bene... Intanto - battutaccia - perchè già che c’erano non sono saliti con le sostituzioni anche un gradino più su?

La produzione in onda in questi giorni è di stampo franco-belga-lussemburghese e risale a qualche anno fa; la si può apprezzare (in audio) anche in rete, nella versione parigina:

Il segreto di Susanna, di Ermanno Wolf-Ferrari e

La voix humaine di Francis Poulenc.

Due opere brevi venute alla luce nel ‘900 a 50 anni esatti di distanza (1909 e ’59) ma - o proprio per questo - totalmente diverse come concezione e contenuti. 
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Il segreto di Susanna vede la luce - per inquadrarne lo scenario musicale - nell’anno della straussiana Elektra, dalla quale non potrebbe essere musicalmente più distante. Di Strauss sembra casomai anticipare qualcosa del Rosenkavalier (vedi il tema d’amore per... la sigaretta) in fatto di delicatezze e frivolezza. Insomma, l’italo-tedesco di nascita sembra tenersi alla larga da certe tendenze contemporanee (niente verismo e niente espressionismo): casomai i modelli sono settecenteschi e gli ammiccamenti (vedi Chopin...) guardano al profondo ‘800.

Il soggetto oggi trasformerebbe gli autori in... perseguitati, accusati di istigazione a delinquere; ma ai tempi il fumo stava diventando una moda, anzi un distintivo di promozione sociale e uno dei primi (deteriori?) simboli di femminismo (!) Così il Regio immagino abbia dovuto ottenere qualche specialissima deroga per poter far accendere più di una sigaretta in un luogo pubblico. Insomma, l’attualità del soggetto sarebbe assai discutibile, e qualche regista in vena di genialate si potrebbe inventare segreti più... cool, diciamo.

Invece Ludovic Lagarde si attiene scrupolosamente al testo a ci presenta così questa storia che più inattuale non si può. Ma è la musica, ovviamente, a riscattare la banalità del soggetto. E la musica la fanno la Antonacci e il partner Vittorio Prato, ben coadiuvati dall’Orchestra del Regio diretta da quel prodotto del benemerito Sistema-Abreu che va sotto il nome di Diego Matheuz.

Encomiabile sul piano dello spettacolo anche l’apporto (muto) di Bruno Danjoux.
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Ecco poi La voix humaine, nella quale Poulenc mise in musica il testo di Jean Cocteau risalente al 1930. E qui tutto il mondo ruota attorno alla personalità della Antonacci, che in questi ultimi anni è diventata un punto di riferimento per il ruolo. La sua immedesimazione nel personaggio è totale, ma perfetto è il suo recitar-cantando, che coniuga mirabilmente l’essenziale musicalità di Poulenc con la crudezza del testo di Cocteau (che aveva da parte sua riconosciuto al compositore il merito di aver ricoperto il suo testo di suoni come meglio non si potesse).     

In questa edizione vengono tagliati (nella citata registrazione parigina a 32’24”) due passaggi consecutivi (e precisamente quello che inizia (cifra di lettura 79) con C’est entendu, mon amour; e il successivo (cifra di lettura 81) Voilà deux jours qu’il ne quitte pas l’antichambre… Si riprende (cifra di lettura 84) con Allô ! Allô ! Madam’ retirez-vous. Nel primo dei due passaggi la protagonista (che ha appena confessato il tentativo di suicidio) parla delle sue notti divenute insopportabili, costellate da sogni, e dei risvegli che la ripiombano in una vita senza prospettive. Segue il lungo passaggio dedicato al cane, anche lui divenuto intrattabile da quando l’amante della donna non si fa più vedere. Si tratta di tagli peraltro non infrequenti (chissà, forse messi in atto per evitare di dover conseguentemente portare in scena anche la pora bestia...): passaggi che si possono ascoltare (da 33’46” a 37’02”) in questa edizione integrale con Renata Scotto del 1996.

Anche qui Matheuz mostra di saper il fatto suo, guidando sapientemente l’orchestra sia negli accompagnamenti, che nei dialoghi con la protagonista, ma anche nei... silenzi, che caratterizzano questa difficile partitura dove non mancano, accanto alle prevalenti atmosfere cupe, strazianti se non disperate, anche momenti di serenità e vitalissimi slanci.

Lagarde, che nella Susanna aveva mantenuto la scena fissa (un soggiorno fiancheggiato da due corridoi e con un vano centrale comunicante con finestrella, il tutto illuminato con... 50 sfumature di rosa, fino al violetto) nella Voix impiega la piattaforma girevole per far comparire - oltre al soggiorno di cui sopra - anche altri due ambienti: la camera da letto e il bagno (dove una gran vasca viene riempita d’acqua fino a farla tracimare - chiara allusione allo sfacelo che si compie nella mente della protagonista). Il colore predominante è il bianco, con un po’ di grigio. La base girevole si muove spesso e volentieri, non sempre con motivazioni precise, ma questo è forse un ulteriore modo per sottolineare il girare a vuoto dell’esistenza della donna. I telefoni sono due (nero e rosso) ma senza fili (così si perde un po’ l’allusione al suicidio legata al cavo che la protagonista si dovrebbe avvolgere attorno al collo).
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Successo trionfale - meritatissimo - per Anna Caterina Antonacci, ma applausi anche per gli altri protagonisti: una proposta di alto livello, che ci si deve augurare che il pubblico voglia premiare con presenze più nutrite alle restanti tre recite.

27 aprile, 2014

Troiani ancora in trionfo alla Scala

 

Ieri la penultima recita di Les Troyens ha riscosso, come le precedenti del resto, un grande successo di pubblico (certo, un pubblico scarsino già di per sé, forse causa ponte, e ulteriormente scarseggiatosi ad ognuno dei tre intervalli).


Tutto si può dire di quest’opera tranne che non sia grande musica, però una grande musica è condizione necessaria, ma certo non sufficiente a fare una grande opera di teatro musicale. E a Les Troyens mancano appunto alcuni degli ingredienti necessari alla bisogna. Uno per tutti, non c’è un plot degno di questo nome: il tutto si riduce a scene liberamente tratte dall’Eneide, e a due storie – del tutto disgiunte – di crisi esistenziali di donne diversamente tradite dai maschi.

Quattro ore di musica eccellente non bastano a conferire all’opera quel che di attraente e di coinvolgente che solo un adeguato disegno drammatico potrebbe garantire. Insomma, assistere a Les Troyens è come (mutatis mutandis) ascoltare un concerto che abbia in programma la Fantastique, la Dramatique, la Grande symphonie funèbre et triomphale e, come intermezzi, l’Harold e Le carnival romain. Se ne esce francamente sazi (stra-smile!)

Detto ciò va dato atto ad Antonio Pappano di non aver impiegato ipocritamente l’arma del taglio (che sarebbe controproducente) per ovviare ad inconvenienti che risalgono alla natura stessa dell’opera. Le sue pochissime - e tutto sommato innocue – sforbiciatine hanno riguardato:

Primo atto, Danza dei lottatori (N°5): il da-capo;

- Terzo atto Coro generale (N°23): la prima parte del coro e il da-capo;

- Quarto atto, Pas des Almées (N°33): secondo da-capo;
- Quarto atto, Danse des Esclaves (N°33): fine prima sezione; seconda sezione; parte della terza sezione; penultimo da-capo.

In effetti si tratta soltanto di modesti interventi su ripetizioni o varianti di temi di scene di balletto o di coro: nessun motivo scritto da Berlioz in origine è andato perduto.

E Pappano è stato di sicuro l’artefice del successo di questa produzione, che per il resto si è mantenuta (a mio modestissimo parere) su un livello di assoluta dignità.

Parlando di voci darei la priorità al Coro di Mario Casoni, che in quest’opera la fa davvero da protagonista e che merita un elogio incondizionato.

Le due protagoniste hanno dato il meglio di sé forse più sul lato attoriale (merito anche del regista, certo) che su quello canoro, dove non sono mancate le mende (l’ottava bassa dell’Antonacci e quella alta della Barcellona). Con loro è spiccato Kunde per straordinaria presenza scenica e dignitosissima prestazione vocale (mi è parso meglio che alla prima, udita peraltro per radio).

Capitanucci (Corebo) sufficiente, ma non più, come il Panthée di Duhamel; meglio di loro Mukeria come Iabas; non male l’Hylas di Fanale (appollaiato su un trespolo a mezz’aria); ordinaria la prestazione di Prestia come Narbal e decisamente insoddisfacente l’Anna della Radner. Poco sopra la Gardina (en-travesti) come Ascanio. Tutti gli altri come da specifiche tecniche… con una menzione alla carriera per la Zilio (Ecuba) che ancora ha un vocione che sfida gli spazi siderali del Piermarini (!) 
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Sulla regìa di McVicar poco da… condannare: come suo solito lui non inventa Konzept cervellotici (che so, la Regina Elisabetta che si innamora di Osama bin Laden) o simili ri-ambientazioni lunatiche. Direi proprio che il suo sia un approccio didascalico: propinare al pubblico la storia di Virgilio come vista dalle lenti deformanti di Berlioz. Tutt’al più con pochi tocchi della serie famola strana, tipo:  

- Astianatte vestito di nero e non di bianco come la madre;
- il cavallone che sembra piuttosto il drago di Alberich o addirittura Fafner in persona (e pensare che Berlioz nemmeno voleva si vedesse in scena, l’enorme equino di legno, figuriamoci);
- Enea che arriva, si ferma, saluta e ossequia con tanto di inchino Andromaca e pargolo che escono di scena e poi, allo scoppio orchestrale, parte a razzo come un centometrista per raggiungere il proscenio e dare, tutto esagitato, la tremenda notizia della fine di Laocoonte (scottish humor?)
- tutto il coro che alla fine del primo atto, invece di rimanere sullo sfondo, invade il proscenio, col che priva Cassandra dello spazio vitale per mettere in risalto la sua ossessione (che questo sia l’obiettivo dell’Autore è fuor di dubbio);
- Didone issata in orizzontale dai fedeli cartaginesi come un allenatore dai suoi calciatori dopo la vittoria in una coppa;
- saltimbanchi che prendono il posto dei rappresentanti delle corporazioni;
- Enea e Didone che amoreggiano en plein air (anziché ingrottarsi sotto l’uragano) con ninfe e fauni che gli tengono bordone;
- nessuna differenziazione fra i soggetti dei balletti (Almee, Schiave e Schiave nubiane);
- Ascanio, che Berlioz aveva tanto faticato a sostituire a Cupido (vedi Virgilio) che invece McVicar rimette nei panni (anzi nelle… ali) del putto dell’amore, che poi l’anello di Didone (dono di Sicheo) se lo frega proprio…
  
Ma insomma, l’importante è che, nella buona sostanza, l’originale sia stato dignitosamente rappresentato, perfino negli aspetti più banalotti, come il fuoco che durante la tempesta  incendia l’albero, i cui rami fiammeggianti vengono portati in giro con sprezzo dei divieti dei VV.FF. (smile!)   
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Lo considero il punto più alto della presente stagione scaligera.