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06 febbraio, 2025

La prima giornata del Ring di McVicar alla Scala.

La marcia di avvicinamento al ciclo completo del Ring, affidato (per l’allestimento) a David McVicar, è iniziata lo scorso ottobre con la vigilia (Das Rheingold) e prosegue ora con la prima giornata (Die Walküre).

[Poi riprenderà con Siegfried (giugno) e Götterdämmerung (febbraio 2026) per approdare alla meta (due cicli completi nelle due prime settimane) a marzo 2026, con qualche mese di anticipo sulla (storica?) ricorrenza dei 150 anni dall’apertura del baraccone Festspielhaus di Bayreuth.]

Tutta (o quasi…) la produzione di Wagner è (o pretende di essere, nella immodesta concezione dell’Autore) portatrice di concetti estetici, ma anche etici, filosofici, politici e, soprattutto, psicologici. Ecco: Die Walküre è forse la punta di diamante di questa impostazione di fondo. E ciò spiega l’ingombrante presenza al suo interno di lunghi sproloqui infarciti di sofismi, di questioni a sfondo esistenziale o politico; di domande che tirano in ballo di volta in volta il libero arbitrio dell’Uomo, o i vincoli imposti dalle leggi allo stesso legislatore, e le contraddizioni in cui cade persino il potere costituito, macchiatosi di peccati originali che finiscono per minarne le fondamenta, con esiti addirittura autodistruttivi. E poi tirano in ballo questioni legate ai rapporti familiari: in particolare a quelli fra marito e moglie e fra padre e figlia. E all’evoluzione psicologica che ne deriva su tutti i principali personaggi della storia.

Purtroppo, il prezzo che lo spettatore deve pagare per apprezzare fino in fondo l’essenza di questi drammi (scongiurando rischi di reazioni di rigetto a fronte di un approccio passivo al loro fruimento) è lo sforzo necessario a sviscerarne, o almeno ad individuarne, il sostrato concettuale. La differenza fra i testi di questi, e in particolare di questo dramma wagneriano, e quelli di quasi tutti i libretti d’opera, anche i più raffinati, è che qui non basta leggerli e comprenderli, ma è necessario farci una preventiva esegesi approfondita (facendosi magari aiutare da che già l’ha compiuta…) e spesso collegandone i contenuti ad altri che sono venuti originariamente alla luce (anche musicalmente, tramite i cosiddetti Leit-Motive) addirittura in drammi precedenti!

In ciò sta, a seconda dell’approccio dello spettatore, la grandezza di queste opere o il loro limite più pesante: essere caratterizzate (per parafrasare una simpatica battuta di Rossini) da qualche sporadico momento di musica accattivante annegato in esasperanti mezz’ore di menata-di-torrone!

Capisaldi del dramma sono le parallele evoluzioni di Wotan e Brünnhilde: il primo passa dall’orgogliosa sicurezza (sul suo piano di consolidamento del potere) alla tragica realizzazione del suo fallimento. A beneficio di qualche regista, è curioso scoprire, in riferimento alla nostra attualità, come l’IA, tramite la sua ricerca profonda, risponda (in 56 secondi) alla domanda: Trump è come Wotan? Quanto alla figlia prediletta del dio supremo, assistiamo al suo passaggio dallo stato divino a quello umano, indotto proprio dall’incontro con i due umani che si ribellano al padre divino, provocandone la disfatta in forza dell’amore.

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David McVicar ha perseverato nel suo approccio, già palesatosi in Rheingold, di mantenersi su una posizione equidistante fra una frusta tradizione e una spinta modernità, sperando con ciò di accontentare tutti. Il risultato è stato quasi fallimentare, vista l’accoglienza ostile che ha accompagnato lui e il suo team all’uscita finale.

Scene quasi spoglie, con pochi oggetti simbolici: il frassino con la spada ivi conficcata; ambiente inospitale per i drammatici eventi del second’atto; un’enorme testa supina (di Wotan?) che alla fine si apre per mostrare una delle tre grandi mani già comparse all’inizio del Rheingold, sulla quale Wotan adagia la Valchiria addormentata.

Per il resto, qualche discutibile trovata: l’intera masnada di Hunding che irrompe nella di lui stamberga; i corvi di Wotan che svolazzano all’inizio del second’atto; gli arieti di Fricka, impersonati da due figuranti che trascinano faticosamente (in discesa!) la dea; Grane impersonato da un figurante che si muove a balzelloni su protesi agli arti inferiori (simili a quelle degli atleti paralimpici) così come gli otto cavalli delle Valchirie (un gruppo LGBTQ+, tutti maschi!); Hunding che dà un secondo colpo di grazia a un Siegmund che insiste a non morire sul primo colpo. Più plausibile il Wotan che, al momento di uscire di scena, si veste da Viandante, come lo vedremo… a giugno.

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Simone Young forse pensa di trovarsi ancora giù nell’Orchestergraben di Bayreuth, da dove i suoni faticano ad emergere fino alla sala: così tiene un volume mediamente più alto del dovuto, il che provoca qualche problema ai dettagli, e soprattutto rischia la copertura delle voci. Per lei, comunque, un’accoglienza tutto sommato positiva.

Come quella per l’intero cast delle voci. A partire dal navigato Michael Volle, che ci ha riproposto un solido Wotan, voce e presenza scenica autorevoli, grande efficacia nel proporci tutte le diverse, e opposte, sfaccettature della personalità del dio: una perla il suo Leb’wohl.  

Franco successo per Camilla Nylund, una convincente Brünnhilde, capace di emozionarci nella sua umanissima scoperta del valore e della vera natura dell’amore umano; e nel suo dignitoso porsi nei confronti del padre.  

Elza van den Heever è una solida Sieglinde, commovente nei suoi slanci amorosi, come nel senso di colpa e, infine, grande nel momento culminante di quell’O hehrstes Wunder, le cui note ritroveremo solo alla fine di Götterdämmerung!

Siegmund è Klaus Florian Vogt, non proprio un Heldentenor (anche se ormai si cimenta anche in Siegfried…) ma che come Siegmund non sfigura proprio, restituendoci, con la sua voce di tenore lirico, il personaggio del giovane che il padre costringe ad una vita assai grama, per poi addirittura condannarlo a morte!   

Okka von der Damerau  è una solida Fricka, cui il regista forse toglie un poco della moglie petulante e noiosa, mostrandocela come una gattina morta che vuol convincere il marito con qualche moina. Il suo momento più forte (Deiner ev’gen Gattin heilige Hehre) mi è parso poco efficace (la Young forse ha qualche colpa…)

Lo Hunding di Günther Groissböck ha ben meritato, forse gli è mancata un poco più di… cattiveria musicale (in quella scenica invece il regista ha persino esagerato).

Le otto Valchirie, che tengono banco con il loro parapiglia nella prima scena dell’atto finale, hanno svolto più che bene il loro non facile compito.

Che dire, in conclusione? Nulla di storico, ma uno spettacolo che merita ampia sufficienza, che il pubblico (non proprio da tutto-esaurito…) ha accolto (regista a parte) con unanimi ma contenuti consensi. Resta da chiedersi se la Scala possa fare di più.

 

29 gennaio, 2025

La Scala e il Ring del 2026.

Il Teatro ha aperto oggi le vendite, in prelazione per gli abbonati, dei due cicli completi del Ring, in programma per Marzo 2026.

L’annuncio pare essere stato preparato con scarsa cura: all’inizio si comunicano i nomi dei due Direttori del Rheingold 2024, senza citare la sostituzione di Christian Thielemann, originariamente designato, e lasciando a comunicazioni future l’annuncio delle direzioni per il resto del programma (?!?)

Dopodichè, nel dettaglio relativo ai due cicli completi, si scopre che saranno diretti da Simone Young (1-3-5-7) e da Alexander Soddy (10-11-13-15), la coppia che dallo scorso ottobre ha appunto rimpiazzato Thielemann.

29 ottobre, 2024

Das Rheingold alla Scala.

Ieri sera alla Scala è andata in scena l’opera che contemporaneamente chiude la stagione 23-24 e apre una stagione virtuale, dedicata al Ring wagneriano, che si chiuderà a marzo 2026. Prima di allora i quattro drammi verranno rappresentati in solitaria: dopo il Rheingold di oggi, Walküre e Siegfried nella stagione entrante e Götterdämmerung a ridosso dei due cicli completi.

Abbiamo quindi vissuto la Vigilia, la cui preparazione è stata caratterizzata da uno degli incidenti che purtroppo accadono spesso nell’ambiente teatrale: il default improvviso (e improvvido?) del Direttore designato (Thielemann) che la Scala ha dovuto rimpiazzare con ben due sostituti (battutaccia: che valgono ciascuno la metà dello schizzinoso Christian?)

Ma insomma, la Young ieri non ha poi demeritato. Del resto quest’estate ha diretto l’intero Ring a Bayreuth ed è già ingaggiata (sempre in coppia con Soddy) anche per le prime due giornate del ciclo scaligero, previste nella prossima primavera.

Orchestra in discreta forma ma con qualche defaillance: l’attacco degli otto corni – di per sé sempre problematico – non è stato proprio entusiasmante (un informe ribollire) e anche le tubette hanno avuto qualche problema nella prima esposizione del Walhall. Da mettere a punto anche il grandioso finale.

Cast vocale bene assortito, con molti interpreti che in Wagner sono di casa.

A partire dai tre che hanno contribuito al recente successo dei Gurre Lieder: Michael Volle, un Wotan all’altezza del ruolo: gli anni si fanno sentire, ma i suoi problemi sembrano più di… deambulazione che non di voce, sempre rotonda, ben impostata e proiettata. Poi il Loge di Norbert Ernst, voce acuta e penetrante, come si addice al guizzante consigliere del re. E poi la convincente Fricka di Okka von der Damerau, la moglie volta a volta preoccupata, petulante, ansiosa, felice e pure un po’… ipocrita.

Degli altri, da promuovere il gineceo: la Freia di Olga Bezsmertna, la Erda di Christa Mayer (qui la parte è ristretta, anche se drammaturgicamente fondamentale, sarà ben più impegnata in Siegfried…) e le tre ondine in blocco (Virginie Verrez, Flosshilde, Svetlina Stoyanova, Wellgunde e Andrea Carroll, Woglinde) un po’ penalizzate dal regista nell’esternazione finale, che arrivava da dietro le quinte.

Così-così gli altri maschietti: Ólafur Sigurdarson è un Alberich piuttosto caricaturale, mentre dovrebbe far emergere la grandezza (pure in negativo) del ruolo. Così ho udito qualche dissenso per lui alla fine. Caricatura che invece si addice al Mime di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke. I due giganti (Fasolt, Jongmin Park e Fafner, Ain Anger) nella onesta routine (forse i… trampoli li hanno messi in difficoltà…).

I due dèi residuali, Froh (Siyabonga Maqungo) e Donner (Andrè Schuen) meritano pure una larga sufficienza, in particolare il secondo, voce ben impostata e passante; un po’ meno il primo, non proprio brillante e poco penetrante nei suoi interventi (un Wie liebliche Luft piuttosto anonimo).
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Vengo a David McVicar. Dalla sua intervista con Mellace poco si era capito del suo Konzept e in effetti è difficile afferrarne (ammesso ci sia) un profondo significato. Mi pare che il regista albionico abbia furbescamente cercato di evitare sia l’attualizzazione del dramma ai giorni nostri, sia la sua pedestre rappresentazione letterale, optando per un’ambientazione astratta da spazio e tempo, supportata da scene spoglie (scimmiottando Wieland?) e da costumi abbastanza strampalati (lunghi e larghi variopinti vestaglioni, al posto dei cappottoni DDR). Il che potrebbe essere condivisibile, ma qui il regista ha un po’ troppo ecceduto in sovrastrutture francamente eccessive, caricando lo spettacolo di troppi aspetti da… avanspettacolo, magari realizzati con intelligenza e raffinatezza.

Sul sipario che separa le quattro scene compare un gran cerchio dentro il quale campeggia una mano: che significa? La mano che accoglie – su un dito - l’anello? O la mano di chi vuol mettere le mani sull’anello? Nella prima scena di manone ne vediamo tre (quante le Figlie?): due destre e una sinistra (?) adagiate sul fondo (del Reno). Poi vediamo una manina protendersi in alto allorchè l’Oro, un danzatore, emerge dal pavimento con il capo coperto da un cappuccio dorato (che gli verrà strappato da Alberich) per poi tornare alla fine ai piedi dello scalone che porta al Walhall (?castello comprato con l’oro?) Poi, ciascuno dei due giganti, che camminano su trampoli (perché, appunto, sono giganti!) ha due manone enormi (come no!) Insomma, simboli di dubbia interpretazione.

Giù a Nibelheim campeggia un enorme teschio dorato, che si apre in due alla bisogna, e qui Alberich fa le sue tre magìe, indossando il Tarnhelm costituito da una maglia metallica (questa idea viene direttamente dalle saghe nordiche): efficace la prima, quando il nano scompare in un paff! con esplosione di lapilli; più banale il secondo (lo scheletro di un serpentone che si protende verso il proscenio e poi se ne torna via); fuori luogo il terzo, dove il rospetto è rimpiazzato da uno… scheletrino che se ne vola via mentre Wotan immobilizza Alberich, rimastosene sempre lì.

La scena della consegna dell’oro ai giganti è reinventata dal regista, facendo accucciare Freia all’interno di una enorme maschera, composta da pezzi del bottino, poi disfatta dai giganti quando Wotan rifiuta di consegnare l’anello. Forse ricorda (a rovescio) quanto narrato nelle saghe, dove il tesoro deve riempire completamente la carcassa di una lontra ammazzata da Loge…

Altra idea portante della messinscena: figuranti/danzatori che accompagnano alcuni personaggi e dei quali dispongono: l’Oro, come detto; poi i giganti (anche perché dai trampoli faticherebbero a interagire con oggetti/persone che stanno due metri al di sotto…); e soprattutto Loge, che è sempre accompagnato (alle terga) da due figure che ne imitano gli spiritati gesti, quando il dio del fuoco espone i suoi pretenziosi e filosofici racconti e concetti.

Insomma, tante idee che forse mascherano l’assenza di un’idea! E dal secondo loggione alla fine sono piovuti sonori e reiterati buh al team registico (che non sto a nominare uno per uno)!

Per tutti gli altri, applausi più o meno convinti e qualche bravo! In tutto sì e no cinque minuti.

Quindi, che dire? Un inizio così-così (c’è l’attenuante Thielemann, daccordo…) 

27 ottobre, 2024

Das Rheingold inaugura un nuovo Ring alla Scala.

Siamo ormai alla vigilia di una nuova, lunghissima avventura scaligera in terra wagneriana: la produzione del Ring (affidata a David McVicar) che spazierà su ben tre stagioni, con la seguente agenda:

Ottobre 2024: Das Rheingold
Febbraio 2025 Die Walküre 
Giugno 2025: Siegfried
Febbraio 2026: Götterdämmerung 
Marzo 2026 (150 anni dalla prima di Bayreuth): due interi cicli del Ring.

L’impresa è purtroppo iniziata con un intoppo non da poco: Christian Thielemann, somma autorità in merito e originariamente ingaggiato per il podio per l’intera impresa, ha dovuto dare forfait – causa degenza ospedaliera e successiva riabilitazione - per il primo passo, il Rheingold (in scena da domani, 28 ottobre).  

Subito il Teatro si è attivato di conseguenza, ingaggiando per la Vigilia l'esperta Simone Young (prime tre recite) e Alexander Soddy (le altre tre).

Ma nel frattempo, abbastanza discutibilmente, Thielemann ha deciso di rinunciare all’intero percorso!

Così le prime due giornate del dramma nibelungico (2025) sono state appaltate – con identiche modalità - alla stessa coppia Young-Soddy, mentre ancora non si conosce il nome di chi salirà sul podio per le successive, fondamentali tappe dell’avventura. 

E pazienza… auguriamoci almeno che la Scala sia abbastanza seducente da poter adescare il mitico Cirillo!  
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Venerdi scorso, nel foyer Toscanini del teatro, si è tenuto un convegno introduttivo a questa nuova produzione, moderato da Raffaele Mellace, che ha indirizzato l’evento su due filoni di indagine: la presenza del Ring alla Scala e i problemi legati alla messinscena di questo cosmico dramma.

Dapprima ha preso la parola Maurizio Giani per commentare e giudicare alcune interpretazioni di Maestri che dal dopoguerra alla fine del ‘900 hanno diretto l’intera Tetralogia alla Scala: Furtwängler (1950), Cluytens (1963) e Muti (1994-6-7-8). La prova d’esame consistendo per tutti nella celebre Siegfrieds Trauermarsch, dalla quale è uscito di gran lunga vincitore il sommo Wilhelm.

Poi Marco Targa ha elencato e commentato gli allestimenti succedutitisi alla Scala dall’inizio del secolo scorso, da quelli che – per contratto – replicavano Bayreuth, ai successivi. Fra questi un certo rilievo ha tuttora quello ideato nel 1975 da Luca Ronconi, assai innovativo, che fu però limitato a Walküre e Siegfried, perché contestato dallo stesso Kapellmeister (Sawallisch).

Per trattare dei problemi di messinscena, Anna Maria Monteverdi ha illustrato e magnificato quella del Metropolitan di 14 anni fa, inventata da Robert Lepage. Con la scena occupata e animata da un autentico mostro tecnologico del peso di 45 tonnellate (battezzato The Machine) che muove montagne, fiumi, caverne, arcobaleni e rocche, insieme ai poveri interpreti che spesso vengono sostituiti da controfigure per evitare spiacevoli incidenti. Una cosa proprio all’americana (o canadese se si preferisce) che lascia a bocca aperta. Ed ha però (ma questo non è stato sottolineato…) un trascurabile difetto: è costata al MET 16 milioni di dollari!

E a proposito di messinscena, ecco arrivare David McVicar, incaricato di questa nuova produzione scaligera. Intervistato da Mellace, ha raccontato molte cose interessanti (insieme a qualche ovvietà) sul Ring e non ha per la verità detto molto sul suo allestimento, salvo che non vedremo corna vichinghe o foreste di cartapesta.

Quindi con interesse aspettiamo domani l’inizio di quest’avventura con Das Rheingold.

25 luglio, 2024

Bayreuth: un discreto Tristan ha aperto il Festival 2024.

Per quanto posso giudicare dall’ascolto radiofonico, mi sembra che il Festival (ancora?) più famoso nel mondo dell’opera sia partito con il piede giusto. 

Merito principale (secondo me) di Semyon Bychkov, che ha guidato con grande autorità i formidabili complessi orchestrali (e corali, non impegnati allo spasimo in questo dramma) tenendo tempi assai sostenuti, fin dal Preludio, invero grandioso, e poi specialmente nel secondo atto, dove ha chiesto il massimo ai due protagonisti.

La Camilla Nylund è stata un’Isolde dignitosa, anche se non proprio trascendentale, e Andreas Schager – un po’ penalizzato dai tempi del Direttore – ha pagato lo sforzo dell’atto centrale con un paio di LA e SI abbassati di un’ottava nella massacrante scena del delirio all'arrivo di Isolde, nell’atto conclusivo.

Bene la Brangäne di Christa Mayer e più che bene il Marke di Günther Groissböck, come pure Olafur Sigurdarson come Kurwenal.

Oneste le prestazioni di Birger Radde (Melot) e di Matthew Newlin, il giovane marinaio che ha l’impervio compito di rompere oil ghiaccio, cantando oltretutto a cappella

Daniel Jenz (pastorello) e Lawson Anderson (marinaio) hanno completato il cast facendo il loro minimo sindacale.

Applausi (direi condivisibili) per tutti i Musikanten. Invece parecchi buh (che segnalo solo per dovere di cronaca, in assenza di… immagini) per il battesimo registico di Thorleifur Örn Arnarsson.

Con tutti i limiti che comporta il particolare tipo di fruizione, devo dire che le sei ore passate in compagnia di questo capolavoro ti risollevano il morale, ecco.

21 luglio, 2024

Bayreuth di routine.

Ancora per questa e per la prossima stagione Bayreuth si mantiene su un profilo prudente, in attesa della storica edizione 2026 che celebrerà i 150 anni dalla fondazione del Festival, che aprì i battenti nell’agosto 1876 con tre rappresentazioni del ciclo del Ring. E c’è da immaginare cha sarà ancora il Ring il protagonista della ricorrenza.

Quest’anno il programma è lo stesso (come titoli e allestimenti) di quello del 2023, salvo il titolo di apertura, la nuova produzione di Tristan (a soli due anni di distanza dalla precedente) affidata a Bychkov/Arnarsson e con protagonisti Schager/Nylund. Cambia anche la distribuzione delle recite: Holländer (da 5 a 3); Tannhäuser (da 5 a 6); Ring (da 3 a 2); Tristan (da 2 a 7) e Parsifal (da 7 a 6).

Per gli amanti delle statistiche, qui un paio di tabelle riassuntive di tutte le 112 edizioni del Festival e dei Direttori succedutisi sul podio. A proposito del quale, due interessanti novità del 2024 riguardano le quote rosa destinate a calcarlo: oltre all’ormai collaudata Oksana Lyniv (Holländer) vi saliranno per la prima volta Nathalie Stutzmann (Tannhäuser) e Simone Young (Ring). Heras-Casado resta al proprio posto per Parsifal.

Ancora lontano dalla verde collina – come già nel 2023 - Christian Thielemann, decano delle direzioni (185). Di cui peraltro si dà per scontato il rientro in quella che per un quarto di secolo è stata praticamente casa sua. Infatti nel 2025, dopo il trasferimento da Dresda (dove gli subentrerà Gatti) a Berlino (dove tornerà come erede di Barenboim…) il 65enne direttore sarà protagonista del suo amato Lohengrin.

A proposito del quale anni fa nacque una certa polemica fra il Maestro e la tenutaria del Festival Katharina Wagner. La quale, per rinforzare la sua presa di distanza dagli anni bui della Nazi-Bayreuth, chiese all’allora factotum musicale del Festival di impiegare, nel finale dell’opera, il nobile epiteto di Schützer al posto di quello, divenuto infamante, di Führer, con il quale lo stesso argenteo cavaliere apostrofa il riesumato Gottfried. E Thielemann – che sarà pure di idee conservatrici ma non certo reazionarie e menchemeno… nostalgiche – oppose il rigore filologico e il rispetto del testo originale. Sta di fatto che, dopo avere avuto il prestigioso incarico di Musik Direktor, Thielemann ne è stato successivamente privato… Vedremo fra un anno se si tratti solo di acqua passata.

Quanto alle possibilità di ascolto, la Radio Bavarese è ovviamente presente (quasi sempre) in diretta per le prime. Che saranno anche in parte trasmesse dagli spagnoli di Radio ClasicaMeno chiara la copertura di Radio3, pare limitata per ora alla prima del 25.    

17 febbraio, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.12

Concerto tutto particolare, questo dodicesimo della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano: Emmanuel Tjeknavorian torna (dopo meno di 15 mesi dall’esordio) sul podio dell’Auditorium nella nuova e prestigiosa veste di Direttore Musicale (per ora designato, poi sarà nel pieno delle funzioni dal 1° luglio…) Auditorium pieno zeppo proprio per lui!

Per l’occasione (è appena trascorso SanValentino) il programma è dedicato (quasi) esclusivamente all’amore, declinato in musica da due coppie di sommi letterati/compositori germanici: Goethe/Wagner e Hofmannsthal/Strauss.

Apre il programma la giovanile Eine Faust Ouverture (1839) sulla quale Wagner ripiegò dopo averla originariamente immaginata come una Sinfonia (ci penserà il futuro genero Franz Liszt a compiere l’opera tre lustri più tardi…)

Questi i sei versi di Goethe posti programmaticamente da Wagner in calce alla partitura, che vide la luce poco prima dell’Holländer (di cui anticipa vagamente la struttura dell’Ouverture e le atmosfere cupe) e che fu poi rivista e pubblicata (1855) quando si affacciava da lontano un tale Tristan…  

Trattandosi di musica dichiaratamente a programma, dobbiamo Immaginare che Wagner vi abbia voluto evocare le tre figure-chiave del capolavoro di Goethe e le relative personalità: Faust, Gretchen e Mephistopheles. Incidentalmente, Liszt nella sua Sinfonia dedicherà proprio i tre movimenti alle corrispondenti figure.

Qui – in assenza di esplicite indicazioni da parte dell'Autore - sta a noi, se proprio lo vogliamo, individuare i motivi musicali che possono evocare struggimento spirituale e slanci eroici (Faust); purezza e nobiltà d’animo (Gretchen); e subdolo cameratismo (Mephistopheles). Motivi che si presentano e ripresentano nel corso dell’Ouverture, fino alla conclusione… tristaniana. Fra essi c’è anche una reminiscenza, negli archi in accompagnamento, del tema principale del beethoveniano Coriolanus… In alternativa, possiamo anche limitarci a godere di questo lavoro come musica pura, bella (o meno bella) in sé.  
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Ancora Wagner e, appunto, Tristan. La giustapposizione (proprio di mano dell’Autore) dell’alfa e dell’omega del dramma: il Preludio e la Liebestod. Nel Preludio il segreto per il Direttore è di non lasciarsi prendere dalla foga, evitando – visto che il tema riguarda anche la libido sessuale – una spiacevole… ejaculatio precox, ecco. Ma invece far di tutto per mantenere proprio la corda tesa al massimo, per portare quasi all’esasperazione (infine all’orgasmo) l’ascoltatore. 

Il postludio (la trance in cui cade Isolde) è francamente meno… memorabile, soprattutto perché l’assenza della voce ne tarpa irrimediabilmente le ali, almeno per una buona metà, prima del trasfigurato finale.         
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Ed ecco ora Richard Strauss e la Suite dal RosenkavalierQui si entra, senza tanto petting, in-medias-res, con la Marescialla e il suo Quinquin proprio all’apex dell’orgasmo e dei successivi languori! E poi è tutto un mirabile campionario (anzi, una vera… orgia!) di Walzer e di preziosa argenteria musicale, con caleidoscopici riflessi Swarovskiani.
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Bene, SanValentino è ormai passato (e anche SanRemo è addirittura quasi dimenticato…) ma a Milano incombe ancora il Carnevale, così la conclusione del concerto manda tutti quanti a quel paese in una nuvola di coriandoli, con l’archetipo dello sberleffo in musica: lo straussiano Till Eulenspiegels lustige Streiche!
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Ecco, descritto sommariamente il menu della serata, resta solo da dire come ce lo ha preparato e servito in tavola il giovin chèf Emmanuel.

Intanto, lui ha messo tutte le partiture su un leggìo virtuale, cioè la sua memoria… e già questo è un indizio non da poco. Certo, il fatto che uno mandi a memoria un testo non garantisce di per sé che poi lo sappia anche recitare al meglio, ma il ragazzo ha invece dimostrato di essere anche un raffinato interprete, assumendo approcci diversi rispetto ai diversi brani in programma: asciutto, essenziale e quasi freddo nel Wagner giovanile; perfetto per rigorosità dei tempi ed espressione nel Wagner maturo (una perla davvero il Preludio…); esuberante e proprio viennese doc (quale lui è anche nella vita) nel dar respiro alle ubriacanti note dello Strauss della Rosa; e infine raffinato miniaturista nei diversi quadri delle avventure del burlone medievale.

Insomma, un esordio come meglio non ci si poteva attendere. Orchestra in formissima (prime parti e sezioni tutte) che già sembra entusiasta della sua nuova guida, il che promette solo ottime cose per il futuro. Pubblico in visibilio per lui, con ovazioni e battimani ritmati.

E oggi per Emmanuel niente riposo, chè lo aspetta la Sinfonica Giovanile!

31 gennaio, 2024

Off-topic: Sinner e le tasse

Il trionfo del simpatico Jannik a Melbourne ha attizzato una prosaica diatriba da stadio (curva-nord vs curva-sud) riguardo la residenza fiscale (Montecarlo) del campione sud-tirolese (quindi di cittadinanza italiana, cosa che gli comporta l’onore-onere di difendere e illustrare - vedi la recente Coppa Davis – il tricolore).

Qui un (quasi) esaustivo compendio delle due curve posizioni. Che si escludono mutuamente: o Jannik è un angelo, oppure un demonio, tertium non datur.

Perché sollevo questo futile argomento in un blog che tratta di tutto fuorchè di tennis e sport? Solo per proporre un ardito parallelo: Richard Wagner!

Del quale nessuno (salvo qualche troglodita) osa mettere in dubbio la grandezza di Artista. Mentre parallelamente (quasi) tutti sottolineano l’abiezione morale (massimamente il feroce e scientifico antisemitismo) dell’Uomo.

Lampante dimostrazione che – in ogni essere umano, potenzialmente – possono benissimo coesistere l’angelo e il demonio!

Però, a differenza di Wagner, Jannik ha ancora la possibilità di liberarsi del fastidioso fardello.

02 settembre, 2023

Lettura estiva: Ross su Wagner

Per un wagnerite che si rispetti è quasi un dovere ineludibile leggere l’immenso tomo (900 pagine, escluse note varie!) del grande Alex Ross. Così mi son messo di buzzo buono all’impresa, in attesa di tornare all’attualità con la ripresa delle stagioni musicali (la Scala e laVerdi, in particolare).

Il testo è articolato in 15 macro-capitoli (quasi delle monografie, verosimilmente rielaborazioni di articoli scritti negli anni da Ross per il NewYorker, il che comporta qualche problema – vedi ripetizioni - riguardo l’organicità del contenuto) più un Preludio e un Postludio. Come suggerisce il titolo, non solo e non tanto si tratta di Wagner come fanno la maggior parte dei lavori che ormai da un secolo e mezzo si sono occupati del fenomeno più straordinario che ha caratterizzato lo sviluppo della nostra civiltà musicale (certo, troviamo dispersi nel libro riferimenti biografici e commenti o esegesi di opere e drammi) ma si esplorano alcune delle principali problematiche sollevate dalla figura del compositore e i riflessi che le sue opere (ma anche i suoi scritti filosoficihanno avuto sulla nostra società, e non solamente nell’ambito strettamente artistico. 

Preludio. La morte a Venezia.

Contiene una minuziosa raccolta delle più svariate reazioni seguite nel mondo alla notizia della scomparsa del tanto famoso e idolatrato quanto contestato compositore.

1. Rheingold. Wagner, Nietzsche e il Ring.

Sommaria esegesi del Ring, delle sue implicazioni filosofiche (Feuerbach > Schopenhauer) e del processo che portò alla costruzione del Festspielhaus a Bayreuth; intersecata con una dettagliata analisi degli sviluppi del rapporto fra il filosofo-discepolo e il musicista: dall’adorazione/adesione alla conflittualità/distacco (e riconciliazione post-mortem?)   

2. L’accordo del Tristan. Baudelaire e i simbolisti.  

A dispetto del titolo, ma coerentemente con il sottotitolo, il capitolo tratta diffusamente dei rapporti di amore-odio tra Wagner e la cultura francese in generale. A partire dal piano musicale, ovviamente, con ampi squarci sulla disastrosa esperienza del Tannhäuser (1861). Baudelaire vi ha un posto privilegiato, così come Mallarmé, ma largo spazio è dedicato al semi-sconosciuto Jean-Marie-Mathias-Philippe-Auguste, Comte de Villiers de l’Isle-Adam (!) E poi ai veri e propri pellegrinaggi, prima a Tribschen e poi a Bayreuth, di letterati francesi letteralmente fradici (Stabreim!) di wagnerismo! Ma un posto di rilievo occupa poi la pittura francese, in specie l’impressionismo: Cézanne, Monet, Gauguin, Manet, ma anche il parigino-di-passaggio VanGogh! Infine, la Révue wagnérienne e il simbolismo.   

3. Il cavaliere del cigno. L’Inghilterra vittoriana e l’America della Gilded Age.  

Dopo la Francia, che per Wagner ebbe amore (di pochi intellettuali) e odio dall’establishment, ecco l’Inghilterra, terreno di conquista di Wagner, gratificato nientemeno che da incontri del compositore con la Regina Vittoria. Pretesto per il titolo del capitolo è la cosiddetta Marcia nuziale dal Lohengrin, che divenne ben presto lo standard da suonare ai matrimoni reali britannici e poi anche a quelli (persino in America) di gente pretenziosa o altolocata. Ampio spazio viene dato ai rapporti fra la scrittrice George Eliot e il mondo dell’estetica wagneriana, vicina per certi aspetti a quella dei preraffaelliti d’Oltremanica. E dotte divagazioni riguardano lo scrittore-poeta Algernon Charles Swinburne, che modellò su Tannhäuser la sua (scandalosa) Laus Veneris; e William Morris, studioso dei miti norreni e quindi vicino al mondo del Ring, avendo scritto un poema epico su Sigurd(=Siegfried); e infine Matthew Arnold, autore di un poema su Tristano e Isotta. Da buon americano ben informato, Alex Ross si dilunga infine in una corposa analisi dell’esplosione del wagnerismo negli USA. Esplosione spiegabile con ragioni di business (ça va sans dire) oltre che di gusto e di propensione yankee per l’avventura, la grandiosità, il liberismo sfrenato e selvaggio (Siegfried!) E i vaneggiamenti di Wagner su un suo possibile trasferimento in USA (Minnesota, considerato alla stregua di un Eden!) non facevano che alimentare l’interesse per le opere del genio di Lipsia. La parte finale del capitolo è dedicata alla Gilded Age (l’Età dell’oro, gli ultimi 30 anni dell’800) e ad autori come Mark Twain, piuttosto sarcastici sull’idolatria per Wagner, ma alla fine conquistati dalla sua musica.

4. Il Tempio del Graal. Il Wagner esoterico, decadente, satanico.

Questo capitolo, dopo una sommaria esegesi dell’ultimo dramma wagneriano che ne mette in evidenza i (supposti) aspetti di natura esoterica, è dedicato all’influenza che esso (Parsifal, ma non solo… vedi Tristan) ebbe sull’ambiente artistico fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Ross premette che tale influenza fu determinata fondamentalmente dal diffondersi – a dispetto delle intenzioni di Wagner ed equivocando sull’interesse di quest’ultimo per filosofie e tradizioni orientali - della gratuita e banalizzante definizione di Parsifal come di una messa nera. È questa fasulla definizione che ha portato artisti di diversi orientamenti ad impiegare Parsifal (e Tristan) come materia prima nelle loro opere imbevute di esoterismo, spiritismo. occultismo, satanismo, etc. Seguono alcuni esempi, presentati sempre con gran dovizia di particolari. Altre due sezioni del capitolo sono riservate ai rapporti fra (le opere di) Wagner e la teosofia, e all’influenza di Wagner sugli irlandesi, difensori delle tradizioni celtiche, che individuavano nel Tristan.

5. Sacra arte tedesca. Il Kaiserreich e la Vienna fin de siècle.

La premessa del capitolo è – ovviamente – una concisa esegesi dei Meistersinger e degli effetti perversi (pur se indesiderati?) che lo sciovinista appello finale di Sachs ebbe molto più tardi sull’ambiente proto-nazista e sullo stesso Hitler. Si passa poi ad esaminare la complessa relazione fra Wagner e Re Ludwig di Baviera, relazione funzionale ad entrambi: al giovanissimo Re il mondo mito-fiabesco che alimentava le sue fantasie; a Wagner… illimitate risorse finanziarie! Ma non scevra da reciproche diffidenze ed incomprensioni: Wagner giudicava assurdo il progetto della costruzione di Neuschwanstein, il Re altrettanto pensava delle idee antisemite del compositore. Si passa poi ad esaminare gli effetti delle opere di Wagner nel periodo imperiale guglielmino (il Kaiserreich): effetti multiformi, che andavano dall’uso spregiudicato dell’arte wagneriana da parte dell’establishment, ai coloriti sbeffeggiamenti di buona parte degli intellettuali, come lo scrittore e romanziere Theodor Fontane. Seguono due sezioni del capitolo, dedicate all’ambiente di Monaco di Baviera, in prevalenza recalcitrante nei confronti di Wagner, e a quello di Vienna, dove invece Wagner acquistò ulteriore prestigio grazie anche alle innovazioni degli artisti della Secessione e di pittori-scenografi come Alfred Roller, oltre che di adepti musicisti, primo fra tutti Mahler. Si passa ora all’Italia, in una sezione tutta incentrata su D’Annunzio e sulle sue opere infarcite di riferimenti wagneriani (Tristan, soprattutto). Il capitolo non poteva chiudersi se non nel nome Mann: dei due fratelli, Heinrich e il minore Thomas. E di Thomas ovviamente viene analizzato il Buddenbrook, un vero e proprio Ring rivisitato, poi arricchito da riferimenti a Meistersinger, Tristan, Tannhäuser… ma anche lavori successivi, carichi di tematiche mutuate da Wagner.    

6. Nibelheim. Il Wagner ebreo e nero.

È il capitolo che tratta del nodo più controverso riguardante Wagner: l’antisemitismo. Dopo un flash iniziale (ripreso alla fine) in un ambito assai familiare a Ross (il problema razziale americano) si comincia ad entrare nel vivo con i riferimenti alle due versioni del famigerato libello Das Judenthum in der Musik, un autentico manifesto antisemita di Wagner. Che nella versione definitiva (1869) addirittura sembra prefigurare (o meglio: non escludere a priori) una soluzione violenta della reazione popolare alla progressiva giudaizzazione de mondo germanico. Seguono riferimenti ai personaggi di opere di Wagner che furono (e sono) comunemente descritti come rappresentanti (da esecrare!) dello stereotipo dell’ebreo: i Nibelunghi, Beckmesser, Kundry (ma non Klingsor…?) Segue una sezione che ricorda Houston Stewart Chamberlain, antisemita eterodosso che riuscì ad entrare nel cerchio magico di Bayreuth sposando Eva - figlia del Maestro e di Cosima - ed assumendo poi un ruolo centrale nel supporto alla soluzione finale per gli ebrei. Poi Ross ricorda come tanti ebrei diventarono invece estimatori di Wagner: a partire da Hermann Levi, scelto per dirigere nientemeno che la prima di Parsifal. E poi Theodor Herzl, uno dei padri del sionismo, che ebbe un ruolo decisivo nella prefigurazione dello Stato ebraico e che fu un grande estimatore di Wagner, soprattutto della figura di Tannhäuser. [Ndr: i detrattori di Wagner che ancor oggi ne vietano la musica in Israele evidentemente fingono di dimenticare queste ascendenze.] Il capitolo si chiude con alcuni interessanti riferimenti al wagnerismo afro-americano (l’influenza di Wagner su artisti – cantanti e scrittori - di colore).

7. Venusberg. Il Wagner femminista e gay.

Dopo un’introduzione che ricorda gli esperimenti e gli studi psicologici sugli effetti della musica di Wagner sulla sfera erotica, Ross si occupa dei rapporti del compositore con il sesso debole. Nei drammi wagneriani troviamo Brünnhilde e Isolde (fiere ed emancipate) e Ortrud (più strega che donna) e per il resto (Senta, Elsa, Elisabeth, Kundry) femmine in qualche modo relegate al ruolo passivo (fino alla morte…) di strumenti di salvezza per l’uomo. Ross analizza poi i riflessi che i ruoli delle donne wagneriane hanno avuto sull’arte (narrativa e figurativa) a cavallo del secolo e persino la spinta all’emancipazione indotta nelle interpreti di quei personaggi. Il capitolo tratta poi copiosamente anche delle fissazioni del compositore per vesti e tendaggi di seta e biancheria intima… ehm… equivoca e delle supposte tendenze androgine e misogine di Wagner; e persino [Ndr: qui Ross deve avere anche un personale interesse…] di quagli aspetti che vennero raccolti e sfruttati dai movimenti gay. E qui, ancora, ecco i riferimenti a Thomas Mann e in particolare a Morte a Venezia. Il capitolo chiude con lunghe considerazioni sulle capacità di psicanalisi di Wagner, che anticiparono di mezzo secolo almeno gli studi e i lavori di Freud&C.

8. La roccia di Brünnhilde. Willa Cather e il romanzo della diva.

Questo lungo capitolo è decisamente difficile da digerire e metabolizzare per noi, data la sua totale ambientazione americana. Cionondimeno ci fornisce un quadro quasi insospettabile, per noi europei, di quanto Wagner avesse già ai suoi tempi penetrato il mercato yankee. La scrittrice Willa Cather (1873, Virginia, poi trasferita in Nebraska, quindi in Pennsylvania e infine a NYC) divenne famosa per il suo romanzo (1915) intitolato Canto dell’allodola, di cui è protagonista una giovane cantante wagneriana, che si appresta ad interpretare il ruolo di Fricka. Ciò dà lo spunto a Ross per una sommaria esegesi della Walküre (second’atto in particolare). Interessante la chiusa del capitolo, dove Ross cita un altro romanzo della Cather (La casa del professore) che fa esplicito – e assolutamente wagneriano - riferimento al ruolo di Religione e Arte come strumenti di elevazione spirituale per l’Uomo.

9. Fuoco magico. Modernismo, 1900-1914.

Altro capitolo assai ostico, che prende spunto dallo spezzarsi del filo del destino nel Prologo di Götterdämmerung per paragonarlo ai movimenti artistici che nei primi 20 anni del XX secolo costituirono l’ondata modernista, che rompeva con la tradizione romantica (quindi paradossalmente anche con… Wagner, del quale si strumentalizzava soprattutto la famosa esortazione Kinder! macht Neues!) anche sotto la spinta delle innovazioni tecnologiche che mettevano a disposizione dell’artista nuovi strumenti espressivi e nuovi canali di divulgazione di massa del suo prodotto artistico. Wagner rimase tuttavia ben presente sulle scene, ad esempio contribuendo con la sua musica ad alimentare nuove forme di spettacolo (di danza, soprattutto) e allo stesso tempo ricevendo da queste nuove forme contributi per la rappresentazione dei suoi drammi (Isadora Duncan, dopo aver offerto spettacoli di danza su musiche di Wagner fu chiamata a Bayreuth per le coreografie di Tannhäuser). Il teatro di Wagner fu pesantemente toccato dal modernismo, tanto che la figura del Regisseur cominciò ad acquistare importanza crescente, grazie anche all’impiego di nuove tecnologie, soprattutto della luce, come teorizzò e praticò, facendo scuola, Adolphe Appia. Parimenti influenzata da Wagner (dalla sua concezione dell’Arte come strumento di elevazione spirituale) fu la pittura di quegli anni, di cui Kandinski fu esponente di spicco. Ross passa poi a trattare l’influenza wagneriana sulla letteratura modernista anglo-americana, dilungandosi in particolare sulle figure di Joseph Conrad, Ford Madox Ford, David Herbert Lawrence ed E.M.Forster, tutti in qualche modo debitori (magari senza esserne adepti) dei drammi di Wagner. Non manca una sezione dedicata alle scrittrici-femmine, e qui è Virginia Woolf ad occupare il centro della scena. Il capitolo si chiude con un doveroso e significativo omaggio a Marcel Proust.

10. Notung. La prima guerra mondiale e il giovane Hitler.  

Il capitolo si apre con il Capodanno 1914, alle ore 00:00:00 del quale scadevano i diritti sulle opere di Wagner e sull’esclusiva di Bayreuth per Parsifal. Al Gran Liceu di Barcellona il dramma sacro fu programmato per le ore 23:00 (corrispondenti alla mezzanotte in Germania) ma effettivamente iniziò alle 22:30, in modo tale che attorno alla mezzanotte (di Barcellona) suonassero le campane che accolgono Gurnemanz e il puro folle nel tempio del Gral! La predilezione dei catalani per Parsifal ovviamente derivava dalla convinzione che Monsalvat sia in realtà Montserrat, sulle montagne sopra Barcellona. In quel 1914 nacquero i primi dissapori nella famiglia Wagner, con l’allontanamento di Isolde: il Festival programmò solo due recite di Parsifal [più due Holländer e un ciclo del Ring, ndr] dopodichè chiuse i battenti per esattamente dieci anni. Ross tratta ora dell’atteggiamento delle opinioni pubbliche riguardo alla guerra (e riguardo a Wagner): in Germania e nel mondo tedesco ai supporter del conflitto non parve vero di poter usare termini wagneriani per descrivere la missione della virtuosa e religiosa Germania contro le depravate e secolari nazioni nemiche. Ciò spiega l’uso di nomi wagneriani per definire azioni belliche, linee del fronte o armi letali. Altrove, come in Francia e in Italia, non si esitò a boicottare Wagner, ritenuto l’ispiratore del militarismo e del bellicismo tedesco. In USA si passò da una debole difesa dell’artista Wagner ad una messa al bando di tutto (e tutti) ciò che sapeva di germanico. In altri casi, come la Gran Bretagna, gli intellettuali furono meno drastici, anzi riconoscendo che opere wagneriane, come il Ring, in effetti prefiguravano l’ascesa e la caduta del Reich, come quella di Wotan&C. Ross ricorda anche personaggi del mondo dell’arte che continuarono a ispirarsi a Wagner durante e dopo il conflitto, come il volante D’Annunzio e come Proust. Una sezione del capitolo è riservata al movimento futurista e dadaista: vi spicca anche Filippo Tommaso Marinetti, wagneriano fino all’osso e poi divenuto uno dei più feroci critici dei drammi del Maestro, primo fra tutti il Parsifal; insieme a futuristi che invece continuarono a inneggiare a Wagner. Il capitolo si chiude, insieme alla guerra, con riferimenti wagneriani (Siegfried) alla pugnalata alla schiena (in sostanza, tradimenti) che avrebbe inopinatamente determinato la sconfitta del Reich. Peccato che il traditore (Hagen) avesse poco prima dato il suo nome proprio all’operazione militare che avrebbe dovuto celebrare la vittoria di Siegfried! Il vittimismo legato al sospetto della pugnalata diventerà il motore del nazismo, e quindi ecco apparire sulla scena Adolf Hitler, del quale vengono ricordati i primi incontri con i drammi wagneriani ed anche leggende metropolitane fiorite attorno ad essi.

11. L’anello del potere. Russia e Rivoluzione.  

L’apertura del capitolo tratta dei rapporti fra il wagnerismo e il marxismo, rapporti assai multiformi, quante furono le interpretazioni politiche delle opere di Wagner e le sfaccettature del movimento socialista. Un’attenzione specifica è riservata ad uno dei più famosi e controversi socialisti-wagneriani: George Bernard Shaw e alla sua interpretazione del Ring in chiave squisitamente anti-capitalista. Successivamente Ross passa ad occuparsi della ricezione di Wagner nella Russia pre-rivoluzionaria. Dopo aver trattato della scarsa considerazione per Wagner di importanti letterati russi (Dostoevski e Tolstoi, in particolare) Ross rievoca i successi parigini di Sergej Djagilev e dei suoi Ballet russes, che si proponevano dio realizzare ciò che Wagner aveva prefigurato nell’opera: un sostanziale Gesamtkunstwerk, unione armoniosa di musica, danza e pittura. E i tre protagonisti della produzione del Sacre erano tutti in qualche modo debitori a Wagner: Stravinski per la musica, il danzatore Nijimsky per aver danzato nel Venusberg del Tannhäuser e lo scenografo-pittore Roerinch che ammirava tanto Wagner da aver disegnato – per suo piacere privato – bozzetti della Walküre e poi quelli per un Tristan. Dopo aver ricordato i legami dei simbolisti russi con il mondo wagneriano, Ross esamina il trattamento riservato a Wagner dai bolscevichi all’indomani della Rivoluzione. Trattamento positivamente condizionato dalla pace separata di Brest-Litovsk, alla quale seguirono numerose rappresentazioni wagneriane a Mosca e Pietrogrado. Naturalmente erano i tratti rivoluzionari di Wagner (drammi e anche scritti filosofici) che vennero fatti propri dal regime per proletarizzare la cultura. Uno spazio importante è riservato alla figura di Vseviolod Mejerchol’d, il regista che aveva introdotto grandi innovazioni nella produzione teatrale (storico un suo Tristan del 1909) e al quale purtroppo il regime bolscevico, dopo la prima parentesi di apertura alla creatività seguita alla rivoluzione, tarpò le ali reintroducendo rigide regole dall’alto. E anche Wagner ne fece le spese, praticamente messo al bando fino alla morte di Stalin, con la breve parentesi (‘39-‘41) del Patto di non aggressione URSS-Germania. Il capitolo si chiude tornando appunto in Germania, al periodo di Weimar. Dove Wagner rimase in uno stato di sospensione, fra detrattori e ammiratori trasversalmente dislocati a destra e sinistra. Fra gli altri personaggi citati da Ross, troviamo i due mariti della vedova di Mahler: l’architetto Walter Gropius, fautore della wagneriana unione delle arti in architettura; e lo scrittore Franz Werfel, che svaluta Wagner a favore del rivale italiano Verdi. Non mancano infine riferimenti a Bertold Brecht e Ernest Bloch, che ebbero rapporti altalenanti con l’eredità di Wagner.

12. L’Olandese volante. Ulisse, La terra desolata, Le onde.

Altro capitolo assai impegnativo per chi legge, poiché Ross, occupandosi di tre letterati (del mondo anglo-americano) e di loro rispettive opere, si dilunga in citazioni e riferimenti quasi enciclopedici, che a volte finiscono per far perdere il filo del discorso e l’essenza stessa delle argomentazioni presentate. In sostanza, si tratta sempre dell’influenza (diretta o spesso indiretta e mediata) del pensiero e dei testi wagneriani su opere letterarie, qui di James Joyce, Thomas Stearns Eliot e Virginia Woolf. Dell’irlandese errante Joyce viene commentato Ulisse, il romanzo che ha chiari riferimenti nel mitologico Odisseo e nell’Ebreo errante, entrambi indicati esplicitamente da Wagner come ispiratori del Fliegende Holländer. Il romanzo ha due protagonisti, Stephen e Bloom, che schematicamente rappresentano il contro e il pro rispetto a Wagner, quindi la parallela attrazione-repulsione dell’autore di fronte all’illustre modello. Dell’americano Eliot (che non nascose le sue convinzioni antisemite) trapiantato in Europa si analizza La terra desolata, vagamente ispirata dal Tristan ma anche da Parsifal. Le onde di Virginia Woolf presenta chiari riflessi wagneriani, a partire dall’apertura che richiama scopertamente Rheingold, per poi proporre una chiusura parsifaliana. Ma è ancora Joyce a chiudere il capitolo con il wagneriano (Tristan e Ring soprattutto) Finnegans Wake.

13. La morte di Siegfried. La Germania nazista e Thomas Mann.  

La figura di Mann appare in questo capitolo a più riprese e nelle sue diverse sfaccettature riguardo la politica e il giudizio sul rapporto Wagner-Hitler: negli anni 15-18 Mann sostenne apertamente la guerra, tifando ovviamente per la Germania; poi, con La montagna incantata, tornò a prefigurare una società tollerante e basata sull’amore. Ebbe la presunzione di poter impedire la strumentalizzazione nazista del Maestro da parte del futuro Führer (anni 20); quindi arrivò la presa d’atto che era meglio starsene lontano da quel tipaccio (traslocando in USA, per dire, anni 30); e infine tentando di recuperare la reputazione di Wagner (anni 40) distrutta dal suddetto Hitler e dai suoi epigoni. Buona parte del capitolo è ovviamente riservata ai rapporti di Bayreuth con il nazismo (e con Hitler): l’arrivo di Winifred Williams (accanita sostenitrice del nazismo e di Hitler personalmente) e il suo matrimonio con Siegfried Wagner favorirono la progressiva deriva del Festival verso un sempre più chiaro fiancheggiamento del regime. Contemporaneamente l’apparato nazista (del quale facevano parte wagneriani incalliti) impiegava sempre di più la mitologia wagneriana per esaltare il ruolo e la missione storica della Germania. Si diffondevano discutibili e gratuite teorie che stabilivano la diretta influenza delle idee di Wagner (antisemitismo incluso) su Hitler, sfruttando l’enorme popolarità ed autorevolezza del sommo artista per portare acqua al mulino nazista. Siegfried Wagner cercò blandamente di correggere l’immagine razzista che stava acquisendo Bayreuth, con l’appello (che verrà ripreso dai figli nel 1951) Qui si fa solo arte. Hitler visitò Bayreuth per la prima volta nel 1923, subito prima del tentato Putsch della birreria; vi ritornò nel 1925, dopo la prigionia durante la quale i pezzi grossi del Festival (Chamberlain, Winifred…) gli diedero continuo supporto materiale e morale. Si fece amico di Wieland e Wolfgang, nipoti di Wagner e futuri direttori del Festival dal 1951, che lo chiamavano amichevolmente zio Wolfe (zio lupo!) Nel 1933 tornò da capo del governo! La protezione di Hitler portò a Bayreuth vantaggi e svantaggi: l’indipendenza artistica dalle idee dei gerarchi nazisti più reazionari; ma anche difficoltà finanziarie, legate alla progressiva evaporazione di gran parte del pubblico. In compenso Wagner divenne lo standard ai raduni del Partito a Norimberga, dove regolarmente veniva rappresentato Die Meistersinger, vero e proprio monumento musicale del nazismo. Ross ritorna ancora su Thomas Mann per trattare di Giuseppe e i suoi fratelli, una vera e propria tetralogia basata non sui miti ma sulla Bibbia; e infine sul Doktor Faustus, che Ross così battezza: un’allegoria della crisi spirituale della Germania. L’ultima sezione del capitolo elenca due diversi trattamenti riservati a Wagner prima e dopo la Seconda guerra mondiale: a differenza di quanto era avvenuto nel 14-18 la cultura tedesca (e Wagner in particolare) non venne demonizzata: Ross cita ad esempio Toscanini che rifiutò di dirigere a Bayreuth ma portò Wagner in giro per il mondo e persino fra gli ebrei di Palestina! Dall’altra parte, nacque una corrente di pensiero ancor oggi viva e vegeta che invertiva il nesso causa-effetto fra Wagner e il nazismo: Wagner era diventato la causa e il nazismo l’effetto! Il capitolo si chiude con una miscellanea di notizie su Wagner e i campi di sterminio e l’Olocausto.  

14. La Cavalcata delle Valchirie. Il cinema, da Nascita di una nuova nazione ad Apocalypse Now.  

Pensando ai rapporti fra la musica e il cinematografo ai tempi dello sviluppo di quest’ultimo, viene sempre alla mente il classico pianista (da strapazzo o… Shostakovich!) che solo soletto strimpella motivi più o meno pertinenti con le immagini proiettate sullo schermo. Ross invece ci ricorda che già nel 1915 a LosAngeles il film muto americano Nascita di una nuova nazione (smaccatamente pro-confederati) veniva accompagnato da vere e proprie orchestre sinfoniche, di 40-50 elementi! E va da sé che molte colonne sonore, a partire da quella, saccheggiarono anche la musica sinfonica per supportare le più svariate situazioni. E ovviamente Wagner era una fonte inesauribile di materia prima da utilizzare all’uopo: nel citato film, Rienzi e la Cavalcata delle Valchirie la facevano da padroni, ma Ross ci notifica che da allora almeno mille pellicole si sono servite di Wagner! E se ne sono servite in varie forme, anche contraddittorie, un po’ come era accaduto per la letteratura o la pittura: adozione entusiastica delle innovazioni wagneriane o parodia-condanna delle stesse. Allo stesso modo con cui aveva esaminato nei precedenti capitoli l’influenza di Wagner sulle arti prima dell’avvento del cinematografo, ora Ross si dilunga in dotte e documentatissime (a volte perfino eccessivamente dettagliate) osservazioni sull’influenza del Maestro sul mondo del cinema, vista in ottica artistica e in ottica geografica. Quindi si parla di USA, di Francia, di GranBretagna, Germania, Russia (Eisenstein) e anche Italia (massimamente e ovviamente Visconti, ma anche Fellini e Lina Wertmüller). Dopo aver analizzato l’impiego (sui due fronti contrapposti) di Wagner durante la WWII, Ross chiude in bellezza – per così dire – con Apocalypse now dove la Walkürenritt accompagna (appropriatamente?) le allegre scampagnate degli elicotteri yankee, così diligentemente impegnati a inondare i Vietcong di… democrazia al napalm.

15. La ferita. Il wagnerismo dopo il 1945.

Il capitolo finale del lavoro di Ross ci porta nel gran mare della contemporaneità, un autentico vortice di immagini, apparizioni, sorprese, illusioni e delusioni che personalmente fatico a sintetizzare in poche righe. Mi limito a citarne la conclusione, che Ross affida alle Figlie del Reno: Traulich und treu ist’s nur in der Tiefe… 

Postludio

Ross chiude con una ricostruzione del percorso – dalle stalle alle stelle – da lui compiuto nel suo approccio a Wagner. Con una conclusione (personalmente la condivido al 100%) che perfettamente si attaglia a quella – indecifrabile - del Ring

La visione svanisce, il sipario cala, e ci trasciniamo di nuovo in silenzio nel mondo così com’è.