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28 giugno, 2025

Norma carbonara alla Scala.

Ieri sera alla Scala – dopo il reiterato messaggio NO-WAR proiettato a luci spente - è finalmente ricomparsa la belliniana sacerdotessa di Irminsul, che vi mancava da 48 anni, cioè da quel 1977 quando Gianandrea Gavazzeni ne diresse per l’ultima volta i suoni sulle scene avveniristiche (per allora… veramente un po’ alla Wieland Wagner) di Mauro Bolognini e con protagonista la somma Montserrat Caballè.

Oggi i protagonisti sono Fabio Luisi sul podio, Olivier Py alla regìa e Marina Rebeka negli scomodi quanto impegnativi panni della protagonista. 

E, a proposito, la Rebeka, ormai consolidata interprete del title-role (qui ascoltabile in una recente incisione, con Casta Diva in SOL… ma qui tornata al FA) mi è parsa appena-appena all’altezza delle aspettative: la salita agli acuti pare sempre problematica. I sonori buh incassati alla fine (ma anche dopo il Casta Diva) misti ad applausi sono forse immeritati, ma… l’eccellenza è un’altra cosa.

L’italo-albionico Freddie De Tommaso è un mediocre Pollione: la voce ci sarebbe anche, ma necessiterà di sudore per essere gestita come si deve. Per lui misto di approvazioni e brontolii di contestazione.

Vasilisa Berzhanskaya (Adalgisa) è la migliore del gruppo, giustamente osannata alla fine.

Michele Pertusi impersona Federico Confalonieri Oroveso e se la cava al meglio delle sue sempre notevoli possibilità.

Flavio è Paolo Antognetti, diciamo senza infamia. Merita un incoraggiamento l’accademica Laura Lolita Perešivana per la sua discreta prestazione come Clotilde.

Una sicurezza, come sempre, il Coro di Alberto Maletti.

Da Fabio Luisi forse ci si poteva aspettare di più: una direzione senza pecche, ma con pochi momenti davvero memorabili (uno: l’introduzione del second’atto, con la gran cavata dei celli). I buh non proprio isolati, rimediati all’uscita finale, forse erano eccessivi, ma non del tutto pretestuosi.

Insomma, sul fronte dei suoni ci si può appena accontentare, ecco.

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Difficile invece accontentarsi della regìa di Py (scene-costumi di Pierre-André Weitz, luci di Bertrand Killy e coreografie di Ivo Bauchiero) che è di una banalità disarmante. Ci troviamo nella Milano del 1831, davanti alla Scala, ai tempi della prima dell’Opera. Già durante la Sinfonia assistiamo a moti rivoluzionari supportati da coreografie da avanspettacolo.

C’è la fucilazione di un rivoltoso da parte dei viennesi, seguita da un rito che si vede ogni giorno a Gaza: cadavere trascinato via in un lenzuolo bianco, poi ricoperto dal tricolore, compianto da compagne e compagni. Arriva, appunto, Federico Confalonieri, l’Oroveso capo dei carbonari ad aizzare i milanesi contro l’aguzzino occupante: Norma o Tell, tutto fa brodo, il Risorgimento è salvo.

La scena è posta sull’immancabile piattaforma girevole, che ci presenta la facciata della Scala e, sul retro… scale e scaloni che ospiteranno le vicende del dramma. Costumi dell’epoca, con i notabili carbonari vestiti da becchini e i militari occupanti in luminose divise immacolate.   

Simboli necrofili in abbondanza: teschi dorati, tre figuranti a creare l’atmosfera da tragedia greca, una toilette da teatro per Norma con la scritta MEDEA, chè non sfugga a nessuno il legame con l’abusato soggetto. Due candidi pupazzi-bambinelli fanno intuire l’insana attitudine di Norma-Medea nei loro confronti. E Norma, appunto, è una veggente, quindi scruta una sfera di cristallo scuro per… schiarirsi le idee.

Poi vedremo anche i bambinelli veri che sembrano il paparino in persona, con tanto di bianche uniformi e berretti in tinta (insomma, l’imperialismo austro-ungarico detta legge anche sui cromosomi…) giocare con i rispettivi pupazzetti mentre la mamma sta pensando a come farli secchi.

Alla fine del primo atto la Scala è quella ridotta a macerie dai bombardamenti americani viennesi (a futura memoria?)

L’epilogo non è un rogo (in effetti par di vedere una barricata incendiata): no, è una nuova fucilazione, operata dai patrioti milanesi per punire l’occupante e l’indegna traditrice della patria.

Allo spettacolo però – un vero peccato - è mancato lo spontaneo aggiungersi dell’intero pubblico al coro guerra! guerra!, come avveniva a quei tempi.

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Ecco perché, all’uscita finale, Py e Weitz hanno innescato nel secondo loggione… le 5 giornate di Milano. Che dire? Con normativa misericordia potremmo implorare per loro: Deh, non volerli vittime…

24 giugno, 2025

Norma ritrova la strada per l’Irmins...cala.

Nell’ultimo dopoguerra (‘48-‘77) Norma fu messa in scena alla Scala per ben 7 stagioni (in media veniva proposta ogni 4 anni o poco più). Poi, per rivederla in cartellone al Piermarini, son dovuti trascorrere quasi 10 lustri!

Finalmente fra pochi giorni assisteremo al gran ritorno della trasgressiva Sacerdotessa, portata in scena dalla coppia Luisi-Py, con Marina Rebeka a vedersela con lo spettro incombente di tale María de Montserrat Viviana Concepción Caballé y Folch, che monopolizzò il ruolo nelle ultime tre - ormai remote - stagioni (’72-’75-’77) quando un biglietto di platea costava l’equivalente di 15€ scarsi…   

Per ingannare l’attesa mi dedicherò ad un po’ di cazzeggio su alcuni passaggi musicali che si prestano a una qualche curiosità.

Il primo riguarda Bellini e WagnerÈ sempre emozionante ascoltare il finale di Norma, con quel mirabile concertato che nasce dal Deh, non volerli vittime, dove Norma crescendo sempre e incalzandocanta Io più non chiedo, io son felicea proposito del quale Ruggero Leoncavallo lasciò una sua testimonianza diretta su quanto accadde nel dicembre del 1876 a Bologna, in occasione della prima visita di Wagner, uno che Norma la conosceva assai bene, avendo anche composto un’aria alternativa di Oroveso. Orbene, dopo il ricevimento in suo onore, Wagner… visto in un cantuccio un pianoforte verticale, si accostò e con tre dita sole sonò meravigliosamente il finale della Norma, commentando con accento di profonda tristezza: “Wagner questo non lo sa scrivere!

Beh, qualcosa di simile però lo scrisse, ad esempio in Tannhäuser, come osservò tale Eduard Hanslick, che individuò nel finale della Norma l’ispirazione wagneriana per la supplica di Elisabeth. Ma anche la Liebestod di Isolde deve certamente molto a quel finale:

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Casta diva.

La più celebre di tutte le melodie belliniane (ed una delle più celebri in assoluto) ha fatto scrivere fiumi d’inchiostro, e mi limiterò a qualche curiosità volta a sottolineare la minuziosa attenzione posta da Bellini agli aspetti relativi all’espressività del canto. Ecco le prime quattro misure della cavatina (Andante sostenuto assai) che sono in 12/8, cioè in quattro tempi di 3 crome ciascuno:

Esse sono precedute da un’introduzione affidata al flauto solo, che ripete pari-pari la stessa melodia (e anche parte del seguito) prima di interrompersi per lasciare il campo alla voce.

Una prima piccolissima osservazione riguarda il tempo 2 della battuta 4: il DO qui è privo di acciaccatura, che invece Bellini scrive per il flauto nell’introduzione. Altre due acciaccature che compaiono poco dopo sono invece suonate dal flauto ed anche eseguite dalla voce. Evidentemente qui Bellini non voleva sporcare la purezza di quell’inargenti… 

Osserviamo ora le battute 1 e 3. In entrambe – sempre nel terzo tempo della battuta - la voce parte dal LA e deve salire per raggiungere, nel primo caso, il DO e, nel secondo, il RE.

Nella battuta 1 ciò si ottiene con la sequenza di croma puntata (LA) + due biscrome (SIb-LA) + due semicrome (SOL-LA): queste ultime quattro note generano una sottile increspatura nella melodia, che sia quasi un leggero singhiozzo della voce della peccatrice Norma che sta invocando la benedizione di una casta divinità? Si configurano come un gruppetto diritto imperfetto (SIb-LA veloce + SOL-LA lento) e così sarebbero da eseguire. Un’altra possibile soluzione (più semplice e… semplicistica per l’interprete) è ignorare la puntatura dopo l’iniziale LA e sostituire il resto del tempo 3 con un gruppetto diritto perfetto (tutte semicrome: SIb-LA-SOL-LA) col risultato di perdere quell’evidente increspatura della frase in favore di una sua maggior scorrevolezza.  

Nella battuta 3 invece abbiamo una sola sillaba di testo (che) cantata su una semiminima puntata (LA) che da sola riempirebbe il terzo tempo. Però Bellini aggiunge qui il segno di un gruppetto diritto (SIb-LA-SOL#-LA) per evitare il balzo diretto dal LA al RE sovrastante: come gestirlo (cioè dove rubare spazio per lui)? Qui la soluzione più scolastica consisterebbe nel sostituire il gruppetto alla terza croma (la puntatura) del LA, eseguendolo con la massima speditezza, cioè comprimendo quattro biscrome in quella sola croma, con ciò confermando il fremito che percorre il canto di Norma; oppure creando un artificioso ritardando… A volte l’interprete qui fa una scelta assai diversa (ci sono vari esempi in rete): dopo la semiminima del LA, invece delle quattro note del gruppetto, ne esegue solo le ultime due in semicroma (SOL#-LA) per salire più dolcemente al RE.

Beh, effettivamente un orecchio non attentissimo può non percepire troppa differenza fra queste diverse soluzioni, tuttavia ciascuna ha una sua peculiarità, che sta all’interprete privilegiare, anche in rapporto all’impostazione agogica del passaggio.

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La fine della guerra.

Tra gli innumerevoli interventi che Bellini operò sulla partitura dell’opera prima di darla alle stampe ce n’è uno abbastanza importante, costituito da un taglio che il compositore decise proprio poco prima della pubblicazione, e riguarda la chiusura del famoso, truce passaggio Guerra! Guerra! Dopo che il coro ha cantato a squarciagola A mirar il trionfo dei figli | Ecco il Dio sovra un raggio di sol, e prima che Oroveso interroghi Norma in merito al rito sacrificale, Bellini sul manoscritto aveva arricchito il passaggio al sereno LA maggiore con la ripetizione dei due citati versi, musicalmente accompagnandoli dalle 32 battute del quarto, sognante tema dell’Ouverture (là in SOL maggiore):

Questa transizione non è tuttavia riportata nella vecchia partitura Ricordi (che in chiusura del coro prevede solo cinque battute con una scarica di timpani e due colossali accordi di LA maggiore) e quindi è stata ed è spesso e volentieri omessa, sia nelle esecuzioni dal vivo che in quelle in sala di registrazione, come da numerosi esempi verificabili su youtube, che hanno come protagonisti:

- Sodero (1944, con Milanov) qui a 1’00”;

- Gui (1952, con Callas) qui a 55”;
- Votto (1955, con Callas) qui a 2h03’23”;
- Gracis (1967, con Ross) qui a 2h05’32”;
- Cillario (1970, con Caballè) qui a 2h02’15”;
- Patanè (1974, con Caballè) qui a 6’18”;
- Halasz (1977, con Bumbry) qui a 55”;
- Levine (1980, con Scotto) qui a 55” ;
- Muti (1995, con Eaglen) qui a 52”;
- Haider (2006, con Gruberova) qui a 2h03’28”;
- Pidò (2008, con Dessì) qui a 2’35”;
- Dyadyura (2009, con Chenska) qui a 6’10”;
- Carminati (2011, con Theodossiu) qui a 2h01’46”;
- Carminati (2016, con Hernandez) qui a 2’08”;
- Gamba (2017, con Siri) qui a 55”;
- Palumbo (2020, con Pirozzi) qui a 2h20’25”;
- Frizza (2021, con Radvanovsky) qui a 55”;
- Morandi (2023, con Gresia) qui a 2’50”;
- Mariotti (2025, con Lombardi) qui a 2h00’50”.

Ciò comporta che quelle mirabili battute rimangano confinate alla sola Sinfonia, senza mai più riapparire nel seguito. E quindi molte sono le occasioni in cui i Direttori hanno voluto rispettare l’originale belliniano, e ciò ancor prima della pubblicazione di edizioni critiche che lo contemplano. Ecco ad esempio:

- Serafin (1954, con Callas) qui a 55” (con i due accordi originali);

- Molinari Pradelli (1974, con Caballè) qui a 2h03’34”;
- Masini (1976, con Caballè) qui a 2h09’50” (con i due accordi originali addolciti);
- Gavazzeni (1977, con Caballè) qui a 2h05’28”;
- Bonynge (1987, con Sutherland) qui a 57”;
- Mariotti (2013, con Devia) qui a 4’20”;
- Palumbo (2015, con Radvanovsky) qui a 53” (con i due accordi originali);
- Capuano (2016, con Bartoli) qui a 2h01’00”;
- Carminati (2021, con Rebeka) qui a 5’37”;
- Benini (2023, con Yoncheva) qui a 2h04’38”;
- Minasi (2023, con Jicia) qui a 1h58’43”;
- Passerini (2023, con Rebeka) qui a 2h50’08”.

Staremo a sentire che scelta farà Luisi (che si dice innamorato di Bellini) ma giurerei – visti i precedenti scaligeri di Serafin, Molinari e Gavazzeni - che non ci vorrà risparmare questo ben-di-dio…


15 gennaio, 2024

Médée est arrivée

Ecco quindi la Médée approdata ieri alla Scala. Trattasi (nel bene e nel male…) di un pastiche.

Emblematico al proposito un dettaglio non proprio insignificante: il testo del libretto come stampato sul programma di sala e messo in internet sul sito del teatro, che è  un autentico minestrone: la traduzione italiana a fronte del francese è quella di Zangarini, che ha sì fatto la fortuna dell’opera (Callas docet) ma che poco o nulla ha a che fare con il testo originale, essendo una versione ritmica adatta precisamente alle rappresentazioni in lingua italiana, ma fuorviante quando si mette in scena l’originale francese. Per fortuna qualche anima pia ha evitato che quella traduzione finisse anche sui display delle poltroncine, dove invece è stata proiettata una traduzione letterale (quindi fedele) del testo originale.

Sempre il libretto omette totalmente i parlati (tranne uno, il primo di Médée dell’atto terzo, comunque cassato come tutti gli altri) alcuni dei quali sono rimpiazzati dalla dicitura Dialogo, senza alcun dettaglio. Poi sui display compariranno i nuovi dialoghi del drammaturgo Mattia Palma, che ha collaborato con il regista Michieletto alla loro redazione. Dialoghi – in italiano, sia ben chiaro - messi in bocca ai due figli di Medea, ma diffusi dagli altoparlanti su sottofondo di carillon, e il cui contenuto a volte è un bigino delle avventure di Giasone, più spesso interpretazioni dei fanciulli di fatti che hanno una qualche attinenza con la vicenda. Dire che portino lo stesso risultato dei lunghi parlati originali sarebbe davvero esagerato.

Altre piacevolezze (e qui introduco l’idea portante di Michieletto): i protagonisti della vicenda sono appunto i due figli di Medea, più ancora che la madre. Quando Créon, nel primo atto, canta il mirabile Dieux et Déesses tutélaires, fa riferimento ai figli, che per lui sono Dircè e il futuro sposo Jason, per i quali chiede agli dèi protezione e benevolenza. Ma qui canta questo passaggio avendo accanto a sé i due pargoletti, ai quali dona dei nuovi vestitini-della-festa; così ognuno capisce che i figli suoi sono... i figli di Jason. Poi c’è Médée che nel duetto con Jason si rivolge all’ex-marito in francese dandogli del voi e parlando dei figli. In scena la vediamo cantare questo passo abbracciata ai figli, quindi capiamo che parla a loro, il che è abbastanza bizzarro, conveniamolo.

Insomma, questa idea di mettere al centro gli onnipresenti bambinelli sarà pure interessante e innovativa, ma presenta, insieme a qualche pregio, una serie di incongruenze (ed è pure di stucchevole ripetitività) che alla lunga finisce quasi per stancare, ecco.

Lo spettacolo di Michieletto è ovviamente di alto livello, per chi si lascia circonvenire dal fumo (inebriante, magari) trascurando l’arrosto, mi sento di dire… La gestione delle masse è uno dei punti di forza del regista, ma nella circostanza anche di debolezza, quando… non le fa vedere: la festa che chiude il secondo atto ne è testimone. L’originale prevede che il tempio sia sul fondo-scena, con processioni e canti festivi bene in evidenza, mentre al proscenio Médée e Néris commentano e Médée scaglia le sue maledizioni: un contrasto davvero lancinante. Invece noi vediamo solo la protagonista e la sua schiava in un ambiente degradato, mentre il tripudio (anche musicale) non solo non si vede proprio, ma anche si sente lontanissimo (la partitura prevede che dietro la scena ci sia solo la banda, non anche il tempio e il coro!)   

Idem per la recitazione dei personaggi, Médée in particolare, sempre curata e coinvolgente. Tuttavia è proprio la mancanza dei riferimenti che nell’originale sono presentati nelle omesse parti recitate a deformare non poco le personalità dei protagonisti (la stessa Médée ma anche Jason, per dire).

Il finale è anch’esso a due facce: sappiamo che Médée uccide i figli con un pugnale e proprio per questo la scena – troppo cruenta - non viene presentata al pubblico, che deve immaginarla - insieme con Jason - vedendo Médée arrivare con il pugnale insanguinato. Michieletto trova una soluzione ibrida, mostrandoci il momento dell’uccisione su uno schermo sovrastante la scena, dove si vede la madre che entra nella cameretta dei figli ai quali, prima di metterli a letto, somministra lo sciroppo per la tosse: noi possiamo immaginare che sia ovviamente avvelenato, sappiamo che Médée ha usato veleni anche per far secca Dircé, cosa che in questa produzione resta piuttosto inspiegata. Ma – in assenza del pugnale insanguinato - si fatica a comprendere la disperazione di Jason che vede sullo schermo una scena apparentemente innocente… 

Insomma: spettacolo in sé apprezzabile, ma piuttosto confuso e superficiale, in rapporto alla complessità del soggetto originale del dramma. Alla fine Michieletto si è preso la (prevedibile?) razione parallela di ovazioni e sonore contestazioni (questione di fumo e arrosto?)
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Sul fronte dei suoni notizie per fortuna discrete. A partire dalla concertazione di Michele Gamba, che restituisce tutta la severità della scrittura cherubiniana, senza cedimenti troppo romanticheggianti. L’Orchestra ha risposto da par suo, in tutte le sezioni come nelle parti squisitamente solistiche (flauto, oboe, fagotto…) Sempre ad alto livello il coro di Malazzi, un po’ sacrificato, come detto, nelle scene dove è stato relegato… fuori scena.

Rebeka più che dignitosa (di Callas non se ne sentono molte in giro, oggigiorno) e giustamente premiata alle chiamate finali. de Barbeyrac così e così (un Jason con qualche ingolatura di troppo). Idem il Créon di Di Pierro, voce dal timbro poco rotondo e scarsa proiezione. Bene la Rossomanno, una Dircè che si è fatta valere già dalla sua aria di esordio e nei concertati. Un gradino sotto la Néris della Brè, che non ha reso al meglio la sua grande aria, voce piccola e con qualche deficit di decibel. Doveri e Gaudenzi (ancelle) appena sufficienti.

Che dire, in definitiva? Intendiamoci, al problema-Médée non c’è una soluzione accettabile (perché rigorosa) al di fuori di quella indigeribile (Francia esclusa… forse) di eseguire precisamente ciò che fu messo in scena nel 1797. Ma allora, perso per perso, in Italia dovremmo fare di necessità virtù e restare sulla versione italiana (di Zangarini-Lachner) che è di gran lunga la meno-peggio di tutte (inclusa la recente versione francese di Alan Curtis…) Meglio di sicuro di questo ibrido francamente discutibile. Comunque il pubblico (a parte le divisioni su Michieletto) ha mostrato di apprezzare. E va bene così.  

29 gennaio, 2023

La Scala celebra i Vespri d’oggi.

Tornano alla Scala dopo più di 30 anni i Vespri… modernizzati. Nel senso che il soggetto messo in scena (oggi dal visionario Hugo De Ana) è un’attualizzazione plausibile – a livello concettuale – del testo originale di Scribe con la conseguente musica del Giuseppe.

Cioè ci vediamo due ben distinte parti in causa: un regime invasore/oppressore (rappresentato da tale Monforte) e un popolo ribelle/resistente (guidato da tale Procida). Quindi, per stare alle più attuali delle attualità: Russia-Ukraina, oppure Ayatollah-popolo, o anche Turchia-Kurdi, Talebani-popolo e così via elencando piacevolezze simili disseminate sull’intero pianeta. Pertanto nessuno si scandalizzi se in scena si vedono i Leopard e le squadre speciali antisommossa: mutatis-mutandis, è sempre l’eterno scenario che si ripete, nel 2023 come 741 anni addietro.

Nulla a che vedere perciò – tanto per citare un clamoroso caso contrario, cioè di assoluta inconsistenza fra l’attualizzazione registica e il soggetto originale – con la visione lunatica presentataci da Livermore a Torino nel 2011 in occasione del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia.

Tuttavia il regista argentino si è beccato una nutrita salva di buh all’uscita finale, il che dimostra che il non stravolgimento dei contenuti del soggetto originale non sia condizione sufficiente a garantire il successo della messinscena.

Di cui probabilmente il pubblico (e il sottoscritto fra questi) non ha gradito l’eccessiva insistenza sugli aspetti crudi, cruenti e nichilisti della repressione e delle umiliazioni che il potere infligge al popolo vessato. Insomma, nel Vespri di Scribe-Verdi ci sono anche squarci di luce e di serenità, che sono dal regista totalmente ignorati. Quindi: cannoni e tank fin dall’inizio, poi scene di continua desolazione: Procida approda sui resti di una battaglia, non in una ridente valle, con colline fiorite di cedri e aranci; sulle note della barcarola vediamo (in luogo di donne adagiate su molli cuscini sul battello) donne a terra prive di sensi (forse stuprate dai biechi invasori?); e il carcere dell’atto IV nulla ha da invidiare a Guantanamo

E sempre incombe in scena la morte: quella del Settimo sigillo! Che fin dall’inizio gioca a scacchi con il soldato crociato: ??? Si, vabbe’, Federico II era stato alla quinta crociata 60 anni prima del Vespri… o il regista aveva in mente qualche altro nesso con il soggetto da rappresentare?

Ecco, a questo punto si può inserire il discorso sui balletti. A parte quella sulla lingua (in Italia ormai è raro - e forse avrebbe poco senso - dare l’opera in quella originale francese) la domanda che sempre ci si pone di fronte all’annuncio della messa in scena di Vespri è proprio questa: ma i balletti? Ebbene, proprio nella precedente comparsa al Piermarini (Muti, 1989, con Pizzi) vennero tutti eseguiti, mentre oggi si è deciso per il no. Quindi: niente Quattro Stagioni (Atto III, Scena V) e niente Sposalizio (Atto V, Scena I).  Resta un minimo di coreografia per la sola Scena VI dell’Atto II, il ratto delle siciliane da parte della soldataglia francese aizzata da Procida.

Di sicuro c’è che, con la regìa di De Ana, le danze (35 minuti di grande musica!) ci sarebbero state come i cavoli a merenda, quindi viene spontanea la domanda sul nesso causa-effetto fra messinscena e balletti: è la rinuncia preventiva del Teatro a presentarli (causa) ad avere consentito a De Ana questa messinscena (effetto) o è l’impostazione registica (causa) che ha imposto al Teatro di rinunciare ai balletti (effetto)? Si accettano scommesse in merito…
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Molto meglio le cose sono andate per fortuna sul piano musicale, grazie alla perizia del concertatore: Fabio Luisi ha dato, fin dall’impeccabile esecuzione della grande Sinfonia, una lettura convincente della partitura verdiana, cogliendone sia la tinta generale che i minimi dettagli e sfumature. Massima precisione nel gestire il palco, con attacchi a voci e coro sempre precisi e con dosaggi delle dinamiche che mai hanno penalizzato le voci.

Dati i giusti meriti, ma è quasi scontato, al Coro di Malazzi, va elogiato in blocco il cast delle voci: a cominciare da quelle dei due personaggi rappresentativi delle due parti in causa: Luca Micheletti, un Monforte di grande spessore, nei suoi atteggiamenti da dittatore come in quelli del padre che inopinatamente ritrova il figlio perduto; e Simon Lim (cresciuto in passato all’Accademia scaligera) che è stato un Procida tanto più meritevole in quanto arrivato sulla scena quasi all’ultimo momento.

Piero Pretti è un convincente Arrigo, voce squillante, acuti ben tenuti ed efficace resa di questo tormentato personaggio, vittima del… destino cinico e baro.

Vengo ora alla Elena di Marina Rebeka: tutto bene per lei fino alla seconda scena dall’atto IV (il duetto con Arrigo, dopo la scoperta dell’identità dell’amato, al termine del quale ha avuto un meritato applauso a scena aperta). Poi il patatrac: alla fine della Siciliana (che poi sarebbe una… Polacca) dell’atto conclusivo, una sonora salva di buh dal secondo loggione si è mescolata ai prevalenti applausi del resto del pubblico! Per me, davvero incomprensibile. E le contestazioni, più o meno isolate, sono poi proseguite alle diverse uscite finali. Mah…

Bene tutte le altre voci maschili (bassi e tenori) che hanno dignitosamente e meritoriamente dato il loro contributo al successo della parte musicale dello spettacolo.

11 febbraio, 2022

Alla Scala una convincente Thaïs

Si segnala al pubblico che lo spettacolo include alcune scene di nudo.

Ecco perchè il Piermarini ieri sera era al tutto esaurito! (beh, veramente non è proprio così...)

Slurp! mi son detto: finalmente ci fanno vedere ciò che Massenet aveva pudicamente coperto dietro il sipario chiuso, concedendoci solo qualche erotico... massaggio musicale. E mi sono segnato accuratamente i momenti papabili, secondo il libretto, per presentare Thaïs (e magari - per par condicio - anche qualche gagliardo maschione) senza veli: 1. La visione del primo atto, primo quadro, dove Athanael sogna Thaïs esibirsi nel lungometraggio porn dal titolo Gli amori di Afrodite; 2. La fine del primo atto, ancora l’inizio de Gli amori di Afrodite, ma dal vivo; 3. L’apertura del second’atto, in casa di Thaïs (che si contempla, nuda, allo specchio); 4. Il menoso balletto del second’atto, dove qualche piccante coreografia può servire a vincere la noia; 5. La replica, ma ancora in DVD, della prima visione (secondo quadro del terz’atto). Poi ho accuratamente pulito le lenti del binocolo da marina che mi porto regolarmente a teatro, per non perdermi i primissimi piani dell’arrapante spettacolo.

Conclusione? Mah, chiappe e tette abbondano, però siamo addirittura sotto il livello che ormai raggiungono anche gli ad dei pannolini, ecco. In compenso Py e compagni sono andati pure al di là dei miei 5 punti, aggiungendovi anche la Méditation e la corsa nella notte. (Il regista ha - in parte - riesumato ciò che Massenet aveva cassato nella versione definitiva del 1898 - la pantomima dell’’Atto III - mostrandoci squarci riconducibili alle Tentazioni di Sant’Antonio; ma effettivamente, se si ipotizza che Athanaël viva da sempre con l’ossessione e le frustrazioni del sesso, allora il sesso ci potrebbe stare dal primo all’ultimo minuto dell’opera, come decise di proporci Stefano Poda a Torino nel 2008.)

Discutibili le presenze di un figurante nei panni di un Eros... erotico nella scena dello specchio (la presa d’atto di Thaïs della sua inevitabile sfioritura va ben al di là dell’aspetto puramente carnale...) e del successivo incontro con Athanaël (la statuetta di Eros evoca in Thaïs l’Amore con la A maiuscola, non il sesso...)  

Azzeccata invece l’insegna al neon posta sulla facciata della grande casa di appuntamenti che caratterizza Alessandria: insegna che riporta i versi della prima terzina della Commedia dantesca: il che pare del tutto appropriato ad evocare la selva oscura dei degradati costumi della città. (Bene ha fatto il regista a fermarsi qui con Dante, chè la disprezzata Taide dell’Inferno è quella pagana, ben avanti-Cristo, e non la santa cristiana del quarto secolo.)  

A proposito di ambientazione, Py ci porta ai tempi della composizione dell’opera, aggiungendovi poi scene (con donne-in-vetrina) mutuate dalle moderne cittadelle del vizio. Monaci e monache sono membri della Salvation-Army, con tanto di uniformi militaresche e con un appariscente scudetto con la S appuntato sul bavero. Di indubbia genialità l’idea di trasferire - nell’atto conclusivo - lo scudetto dal bavero di Athanaël a quello di Thaïs: plastica rappresentazione dei due opposti percorsi esistenziali dei due protagonisti (chapeau!)  

Peraltro ad Antinoe i monaci (escluso Palémon e un aiutante) non sono militari-militanti ma poveri clochard che mendicano un pasto come alla Caritas o al Pane Quotidiano (?!) in un’atmosfera (per di più incupita da lampi temporaleschi, caratteristici invece del secondo quadro del terz’atto) che ha ben poco dell’austerità dell’agape evocata da testo e musica. Viceversa le monache di Albine sono tutte in rigorosa uniforme (peraltro forzatamente scura e non candida come imporrebbe il testo).

Accurata la caratterizzazione dei personaggi: su tutti il Nicias, davvero l’archétipo del sibarita incallito!

Sul lungo balletto del second’atto si potrebbe discutere all’infinito: non certo di come è stato presentato qui (niente di speciale e niente da eccepire) ma sull’opportunità o meno di farlo, stante l’inevitabile calo di tensione che si crea in un momento topico della vicenda e - diciamolo francamente - la non sublimità della musica. Tutt’al più si potrebbe salvare - non saprei se sia semplice dal punto di vista musicale - il N°6 (la Charmeuse).

In conclusione: a dispetto delle segnalate (più o meno veniali) incongruenze, uno spettacolo di alto livello, assai godibile e costruito con indubbia professionalità. Il che fa onore a tutta la compagine che cura questo allestimento (e a chi - in alto - ha deciso di proporcelo).
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Buone se non ottime notizie sul fronte sonoro. Intanto: meno male che Viotti c’è! Il giovane Kapellmeister (pensiamo che meno di 20 anni fa suo padre dirigeva proprio Thaïs alla Fenice!) ormai è più che una certezza: evidentemente i due anni difficili, causa Covid, trascorsi dal Roméo et Juliette da lui diretto qui (già con grande successo) gli hanno dato modo di studiare, studiare e approfondire, e i risultati si... sentono.  Ovviamente poi a suonare sono i professori e va a loro il merito di aver tradotto alla perfezione le note - scritte da Massenet e... veicolate da Viotti - in suoni di assoluta purezza. Va da sè che una lode speciale sia da attribuire alla splendida... Thaïs di Laura Marzadori!  

Marina Rebeka (ebbi occasione di ascoltarla la prima volta al ROF nel 2010 nello Stabat Mater, quando era agli esordi) non aveva avuto un debutto propriamente entusiasmante qui tre anni orsono in Violetta. Poi si era in parte riscattata a settembre 2020, sempre in Violetta in forma di concerto con Mehta. Ecco, ieri direi che abbia fatto un altro bel passo in avanti, ampiamente riconosciutole dal pubblico. Se posso permettermi una modesta osservazione, è ancora la cosiddetta ottava bassa che andrebbe... potenziata, mentre la salita agli acuti è sicura e autorevole, sia in quelli spinti (vedi i RE del finale) ma soprattutto in quelli da esalare in pianissimo.

Piacevolissima sorpresa (per me almeno, che di lui conoscevo poco o nulla) è stato Lucas Meachem: il baritono yankee (ieri sera con folto... parrucchino) ha sostituito poco tempo fa l’annunciato Ludovic Tézier e devo dire che non lo ha fatto rimpiangere. Leggo che non era all’esordio nel ruolo, avendo già interpretato Athanaël negli USA, e in effetti la sua è stata una prestazione più che apprezzabile: la voce è potente e passante, senza sbavature nè sguaiatezze. E pregevoli sono anche le sue qualità attoriali, che gli hanno consentito di rendere al meglio la natura di questo personaggio complesso e... complessato.  

Ma un’altra sorpresa (conferma anche, avendo già calcato il palcoscenico del Piermarini e venendo dall’Accademia) è Giovanni Sala, un Nicias semplicemente perfetto: certo nella postura e nelle movenze, davvero azzeccatissime e perfettamente calzanti sul personaggio. Ma anche nel canto, che è poi la cosa più importante: voce chiara, squillante, del tutto appropriata a vestire questo vanesio e gaudente sibarita.

Di Caterina Sala e Anna-Doris Capitelli (le schiavette di Nicias) così come della Federica Guida (la Charmeuse) si sono potute apprezzare le qualità vocali, ma anche (non dirò soprattutto per non passare per depravato...) quelle fisiche!

Onorevoli le prestazioni di Valentina Pluzhnikova (Albine), Insung Sim (palémon) e Jorge Martínez (servitore di Nicias) così come quelle del sestetto dei cenobiti, altrettanti membri del Coro. Che a sua volta ha fatto bene la sua parte, non proibitiva.

Ecco, una bella serata, di quelle che davvero ti tirano su il morale.

26 settembre, 2020

La contagiata Traviata scaligera

Ieri sera alla Scala penultima recita della Traviata contagiata. La mia seconda esperienza scaligera del post-lockdown è stata - dal punto di vista ambientale - ancor più deprimente della prima: perchè, oltre alla negativa impressione che ti fa una sala semideserta, ho potuto anche fare l’esperienza di un intervallo. Che tristezza il foyer popolato da fantasmi che si aggirano tenendosi a distanza, e soprattutto che atmosfera spettrale, con le mascherine che non solo celano i volti, ma mettono la sordina alle voci, così pare di stare in un istituto per muti...  

La rappresentazione di un’opera in forma di concerto è una rarità in Scala (in passato è accaduto più che altro in casi di contrattempi organizzativi) e va lodata comunque l’organizzazione che ha predisposto un semi-scenico più che accettabile. Poi i frac dei maschi e gli abiti da ricevimento delle cantanti (firmati D&G) erano abbastanza coerenti con parecchi degli ambienti presenti nel libretto.

Certo, le regole di distanziamento hanno reso alcune scene piuttosto paradossali: il povero Alfredo, per dire, è dovuto restarsene impotente a due metri dalla sua Violetta morente (è andata meglio a Mehta che, alla fine, con la scusa di farsi sorreggere dalla Rebeka, ne ha approfittato per quasi abbracciarla e baciarla!)

Ecco, Mehta, uomo dalle nove vite: cammina a stento, ma quando si siede sullo sgabello del podio pare abbia 30 anni, tanto secco, preciso ed efficace è rimasto il suo gesto. La sua è stata una direzione apparentemente rilassata, senza grandi slanci retorici, un Verdi suonato à-la-Mozart potrei dire con una battuta. (Teniamo presente che l’orchestra è praticamente confinata in fondo all’enorme scena del Piermarini, il podio del Direttore è ben al di là del proscenio nella configurazione con buca, e tutti suonano sullo stesso piano, niente rialzi come nella configurazione per concerto; ciò che arriva in sala... ve lo lascio immaginare.)

Con Mehta trionfa l’altro giovanissimo della compagnia, tale Leo Nucci, un tipo che promette bene e farà carriera di sicuro! Lui poi, oltre a cantare come 50 anni fa, sa ancora correre con la leggerezza di un levriero...   

Marina Rebeka merita un voto più che discreto: 18 mesi fa non aveva proprio fatto un figurone, ma oggi devo dire che è progredita (non solo per il famigerato MIb) e il pubblico l’ha gratificata - con Leo e Zubin - di applausi a scena aperta e ovazioni finali... con sordina!

Dell‘Alfredo del carioca Atalia Ayans mi limito a dire che potrà sempre far meglio... Tutti gli altri al loro posto, ecco. Il coro di Casoni era relegato al lati e al fondo della caverna, quindi bravi ad aver fatto arrivare i suoni fino alla platea (e spero anche più su...)

Che dire, in conclusione: accontentarsi, dati i tempi che corrono, è come minimo doveroso... ma è dura davvero!

12 gennaio, 2019

Alla Scala sempre la stessa Traviata


È dal 1990 che La traviata che si rappresenta alla Scala è sempre la stessa: sì, certo, quella di Verdi. Ma io mi riferisco alla messa in scena da Liliana Cavani. Per dir la verità un’eccezione (ma proprio unica) si è registrata negli ultimi tempi: fu a SantAmbrogio del 2013 con la produzione del genio Tcherniakov (Gatti sul podio e Lissner alla soprintendenza). Poi già nel 2017 tornò quella che era stata impiegata in ben altre 8 stagioni (91-92-95-97-01-02-07-08) dopo quella dell’esordio.

Delle due l’una: o nei magazzini del teatro sono andate a fuoco le scene (ma anche i testi della sceneggiatura) del regista russo, oppure mi sa proprio che quella del 2013-14 non fosse una produzione destinata ad entrare nella storia...
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Ecco, sistemati rapidamente l’epicedio per Tcherniakov e l’epinicio per Cavani, vengo al sodo, cioè alla parte strettamente musicale della serata. Che ha avuto per protagonista Myung-Whun Chung, già da come si è presentato con il Preludio, attaccato con un ppppp quasi impossibile, e poi caratterizzato (in ciò farà il paio con l’altro preludio) da sapienti incertezze di agogica che sembravano descrivere l’instabilità fisica (e pure psichica) della protagonista.

La quale è Marina Rebeka da Riga, che mi è parsa progredire nel corso dei quattro quadri dell’opera, dopo un avvio non proprio impeccabile, compreso l’attacco del primo Sempre libera. Forse (e senza forse) erano per lei gli isolati ma chiari buh piovuti dalla seconda galleria all’uscita dopo il primo atto: certo, se motivati solo dall’assenza del famigerato MIb finale, allora sarebbe da buare il buatore. Non particolarmente memorabile anche l’interpretazione, un po’ carente di... carisma; tutto sommato una Violetta appena discreta, che però, come detto, è cresciuta via via e ha finito per meritarsi i consensi arrivati alla fine. Adesso, passata quasi indenne dalla rottura del ghiaccio, c’è da aspettarsi che possa solo migliorare ancora.   

Francesco Meli è invece un Alfredo ben centrato sul personaggio. Mi pare stia ultimamente un po’ esagerando con l’impiego della mezza-voce, voce che per il resto è sempre un piacere ascoltare.

Leo Nucci ormai ha l’età di... nonno Germont! Ma è un nonno che canta ancora come e meglio del figlio (cioè di Germont-padre, sia chiaro, non vorrei offendere Meli). Efficace anche (come sempre, del resto) la sua interpretazione, efficacia già manifestatasi all’entrata in scena, proterva e minacciosa. Così come il progressivo... ammorbidimento, fino al conclusivo mea-culpa.

Tutti gli altri - la Flora di Chiara Isotton, Douphol di Costantino Finucci, Grenvil di Alessandro Spina e Obigny di Antonio Di Matteo - su standard più che dignitosi, come quelli degli accademici Caterina Piva (Annina), Riccardo Della Sciucca (Gastone), Sergei Arbkin (Giuseppe) e Jorge Martiniz (domestico).

Tutto sommato, una compagnia bene assortita cui ha... tenuto compagnia il solito splendido coro di Bruno Casoni (anche qui dopo una partenza non centratissima).

Durante la recita applausi a scena aperta sempre piuttosto contenuti; alla fine e alle singole uscite invece il consenso è cresciuto e i protagonisti - compresa l’immarcescibile Liliana Cavani - hanno avuto la loro buona dose di applausi.  Per il Direttore, anche ovazioni e bravo! (pienamente meritati).

Che dire, questa è una di quelle proposte dove i rischi superano di gran lunga le speranze di successo; quando invece il successo (pur contenuto) arriva... la scommessa è vinta.