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16 luglio, 2020

Lupo con Flor alla BeethovenSummer


Dopo due concerti animati da direttori-solisti, si torna alla normalità: Claus Peter Flor sul podio de laVerdi e Benedetto Lupo alla tastiera. Compagine come sempre fra i 30 e i 40 strumentisti. Flor mette tutti i violini al proscenio (cosa frequente) ma (cosa singolare) inverte le sedie di prime parti (Dellingshausen e Viganò) e concertino (Giust e Rosato).

É la Prima Sinfonia ad aprire il programma: Berlioz non ne aveva grande stima, ma bisogna ricordare che Mozart e Haydn avevano alzato assai l’asticella per chiunque provasse ad avventurarsi in quel genere di composizione. Ma partendo da qui, Beethoven porterà quell’asticella ad altezze vertiginose, ponendo un termine di paragone con il quale si dovranno confrontare tutti per almeno un secolo!

Così, grazie all’orchestrina, noi possiamo apprezzare questo lavoro con il quale timidamente e rispettosamente il genio di Bonn si affaccia all’orizzonte del nuovo secolo.
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Ecco infine il Lupo redivivo cimentarsi con quello che si può definire il primo vero concerto ottocentesco di Beethoven: il Terzo. Temi eroici e languidi si alternano nel due movimenti esterni, mentre il centrale e cantabile Largo si stacca per la tonalità remota (MI naturale) rispetto al DO di impianto del concerto, per poi degradare di un semitono per l’attacco del Rondò; uno schema che tornerà quasi identico nell’Imperatore: SI-SIb).

Lupo si conferma interprete di grande sensibilità: a Valentina Trovato, che lo ha intervistato per il programma di sala, si dice ammirato dalla rivoluzionaria cadenza del primo movimento, che lui davvero ci porge in tutta la sua potenza espressiva.

Applausi animati da calore inversamente proporzionale al... numero delle mani, e così Lupo ringrazia ricordando il ventennale del suo esordio in Auditorium (col Quarto beethoveniano diretto da Peter Maag) e dicendosi felice di dare il suo primo concerto post-lockdown con laVerdi. Infine si congeda con il primo degli otto Fantasiestücke op.12 (Des Abends, in REb maggiore) di Robert Schumann (che pare a prima vista... Chopin).

06 giugno, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 37


Marius Stravinskij torna inaspettatamente sul podio dell’Auditorium per rimpiazzare il venerabile Aldo Ceccato in un concerto (quasi) interamente dedicato a Scriabin. Il quale sembrerebbe un nome che tira poco, a giudicare dagli ampi spazi vuoti dell’Auditorium.   

Ad aprire il programma è però la Russia di Campogrande (omaggio EXPO). Ciò che si riconosce dell’inno è una specie di parodia, forse di quelle che Putin impiegava come colonna sonora per le burlesque che organizzava nella sua dacia per Berlusconi (stra-smile!)

Si comincia a far sul serio con un altro aficionado de laVERDI, Benedetto Lupo, che si presenta a proporci il Concerto op.20. Che a prima vista parrebbe Rachmaninov innestato su Chopin, ma in realtà mostra la spiccata personalità di Scriabin, specie nel centrale Andante. Spesso è l’orchestra a dettare i temi, con il pianoforte che ci arabesca sopra in piena libertà. Lupo dà però il meglio nel conclusivo Allegro moderato, dove c’è più dialogo con l’orchestra: in particolare nella sezione cantabile, interpretata con grande sensibilità. Due bis dello stesso autore suggellano la sua pregevole prestazione.
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La seconda parte del concerto è la Terza sinfonia, sottotitolata Poema divino. In realtà di Sinfonia propriamente detta ha poco o nulla, la struttura essendo assai libera, una cosa fra il poema sinfonico e la fantasia, composta da un’Introduzione e tre episodi indicati come Luttes, Voluptés e Jeu divin.

Il programma filosofico dell’opera, steso dalla compagna del compositore (a posteriori, si noti bene) ci dice trattarsi del faticoso emanciparsi dell’uomo: dall’animalesco essere cavernicolo credulone in dèi antropomorfi, fino al superuomo di stampo nietzschiano, dio di sé medesimo. Evabbè. 

A testimoniare della pretenziosità della Sinfonia basterà citare alcune indicazioni di agogica e di espressione disseminate sulle pagine della partitura: divino, grandioso, mistico, con sconcerto e terrore, misterioso, tragico, più audace, trionfante, con tragico terrore, slancio gioioso, con impeto ed ebbrezza, venato, oppresso, con stanchezza e languore, romantico e leggendario, fiero e sempre più trionfante, mostruoso e terrificante, fosco, trafelato, voluttuoso, con ebbrezza strabocchevole, limpido, in deliquio, slancio divino, affannosamente alato, gioia sublime estatica

Domanda: sono gli stati d’animo che l’esecutore deve assumere mentre suona, o le caratteristiche del suono che deve produrre lo strumento? Beh, sulla seconda ipotesi ci sarebbe da discutere assai (smile!)
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L’Introduzione si apre con il motto che caratterizzerà la Sinfonia, esposto da tutti gli strumenti gravi:

 
Tema che si muove fra gli estremi (REb-LA) di un tritono, tanto per iniziare il discorso dal… diavolo, in attesa di mettersi in marcia verso il soprannaturale. Subito dopo lo suggella la tromba.

L’Introduzione è assai breve e sfuma verso l’Allegro di Luttes, un simulacro di forma-sonata, aperto da un tema agitato dei violini in DO minore, chiaramente derivato dal motto:


Tema che si sviluppa fino a lasciar posto ad una sezione più elegiaca, che sfocia in un altro motivo, di piglio eroico, in Mib maggiore, che tornerà spesso a farsi sentire:


Dopo aver raggiunto il climax, con un passaggio in cui qualcuno vede il Dresden Amen, ecco un nuovo motivo di stampo virile:


che viene successivamente ripreso in forma più mossa e che porta alla riproposizione, due volte, del motto. Qui si chiude quella che possiamo definire l’esposizione.

Inizia ora uno sviluppo del primo tema dell’Allegro, innalzato di una quinta, a SOL minore. Conseguentemente innalzato a SIb maggiore anche il secondo tema eroico. Si arriva poi ad una sezione drammatica, dove il primo tema riappare assai dilatato, negli ottoni, sezione che porta ad un tremendo schianto dell’orchestra. Ora il primo violino espone una melodia implorante, in LAb:

 
Motivo che viene sviluppato portando infine ad una nuova grandiosa perorazione del motto. Inizia adesso una lenta transizione che porta a chiudere lo sviluppo e alla ripresa del primo tema nel DO minore canonico. Dopo che esso è stato adeguatamente sviluppato, tornano anche il secondo e il terzo motivo, fino alla ricomparsa truculenta del motto. Qui però non si chiude ancora, ma pare di avere un nuovo sviluppo, con il primo tema che torna in SOL minore; arriviamo invece ad un’oasi bucolica, con il violino solo che canta una nuova melodia mentre gli strumentini imitano il cinguettare di uccelli…

Un improvviso irrompere di una nuova cellula, che sembra venire direttamente dalla quarta di Ciajkovski, ci porta finalmente alla conclusione dell’episodio, con la proterva reiterazione del motto e un successivo rarefarsi dell’atmosfera.

Attacca quindi il secondo episodio, Voluptés, in MI maggiore, con l’esposizione da parte dei flauti del suo primo e principale tema, che è chiaramente mutuato da quello del violino della precedente sezione:


Il quale viene sviluppato in modo assai ampio, in tutte le sezioni dell’orchestra. Si arriva quindi ad un nuovo squarcio bucolico, con trilli e svolazzi degli strumentini, dove è il violino solista a riesporre languidamente il tema, in SI maggiore. Un crescendo orchestrale ispessisce il colore della scena, ma senza turbarla. Ancora il violino riprende la sua melopea, poi si continua quasi all’infinito con abbandoni degli archi e pesanti interventi degli ottoni, finchè irrompe la trombetta ad attaccare il Jeu divin:

Per tutta la prima parte, in DO, abbiamo un continuo abbandonarsi a languidi motivi, quasi una melodia infinita senza precise connotazioni tematiche, con gli ottoni e la tromba ad intervenire con i loro richiami (la tromba insiste sull’inciso con cui aveva risposto al motto, nell’Introduzione).

Ecco però una sorpresa: riappare in MI minore il tema della Lutte, subito zittito da poderosi interventi dei fiati, che portano ad un nuovo ritorno: quello – enorme, soprattutto nelle trombe – del tema delle Voluptés.

Come tutti ormai si aspettano, è la ricomparsa del motto a condurre alla retorica, enfatica e pretenziosa conclusione.
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Devo dire che l’attacco iniziale (tromboni e tuba in particolare) non mi ha soddisfatto: tutto in legato, quando invece sono chiare le forchettine indicanti il marcato. Però in seguito le cose sono assai migliorate e complessivamente la prestazione di tutti è stata di buon livello: acclamato giustamente Alessandro Caruana che, soprattutto nell’ultima sezione deve davvero spomparsi fino all’esaurimento.

Stravinskij, probabilmente arrivato con poco preavviso, ma sempre con l’aplombe da funzionario di banca, ha fatto del suo meglio per renderci il meno indigesto possibile questo velleitario intruglio: e il pubblico ha speso i suoi applausi di stima per lui e per i ragazzi, non credo per il compositore…

28 settembre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°2

 

Gaetano D’Espinosa, ormai di casa presso laVerdi, dirige il secondo concerto della stagione (si replica domenica). Ancora un concerto tutto russo e tutto ottocentesco, almeno all’apparenza.

 

In più, si tratta di musiche, come dire, piuttosto adulterate (smile!) Abbiamo infatti un Sergej Rachmaninov rimaneggiatore di se stesso messo in sandwich da uno dei suoi più o meno diretti maestri, Modest Musorgski: ma con lo zampino di Rimski prima e di Ravel poi. Quindi nel programma c’è anche un po’ di novecento.


Si inizia con Una notte sul Monte Calvo, nella versione arcinota di Rimski. Che, a dir il vero, si basò su un originale che Musorgski non aveva intitolato così, poiché quel nome lo aveva dato ad un’altra composizione che con questa ha solo qualche punto, per quanto importante, di contatto. 
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In effetti, questo brano ha una storia assai complicata, come quella del suo autore del resto. Musorgski nel 1858 aveva iniziato a pensare (forse anche a buttar giù qualche nota) ad un’opera da Gogol (La notte di SanGiovanni) presto abbandonata. Poi pare avesse iniziato a comporre su quel tema un brano per pianoforte e orchestra. Infine, quasi 10 anni dopo ne estrasse alcune idee musicali per farci una specie di poema sinfonico, che intitolò La notte di SanGiovanni sul Monte Calvo, strutturato in quattro sezioni: arrivo delle streghe e attesa di Satana; arrivo di Satana accolto dalle streghe; messa nera e lodi delle streghe a Satana; sabba. La composizione è largamente debitrice a Berlioz (movimenti finali della Fantastica) e a Liszt (Totentanz) il che contraddice l’asserita avversione del compositore per la musica dell’ovest… È di una rudezza davvero primitiva e selvaggia (che a qualcuno fornisce il destro per ironizzare sulle qualità di orchestratore del nostro…) con un finale a passo di carica, duro e privo di ogni riferimento a cristiana redenzione. Rimasto praticamente sconosciuto per decenni, è emerso dalla polvere del tempo relativamente di recente: qui la prima incisione in disco.

Poi, nel 1872, Musorgski si mise a lavorare su un’opera, titolata Mlada, che doveva essere il risultato dei congiunti sforzi dei componenti della banda dei 5 (smile!) escluso chissà perché Balakirev e incluso Minkus: infilò nel terzo atto un brano per orchestra e coro intitolato La glorificazione di Chornobog (il diavolo) che riprendeva temi del poema sinfonico composto 15 anni prima e rimasto sepolto in qualche cassetto. L’impresa collettiva fallì miseramente e il solito Rimski, molti anni dopo (1889) ne trasse una sua opera-balletto di pari titolo e un paio di sunti orchestrali.  

Successivamente ancora, nel 1880, Musorgski si era dedicato ad una nuova opera, rimasta incompiuta come capitò a diverse sue composizioni (cui evidentemente il musicista riservava molte meno attenzioni che alla vodka, smile!) Era un’opera comica, sempre da Gogol, intitolata La Fiera di Sorochyntsi, e il nostro, ispirandosi ancora una volta al suo poema sinfonico, ci infilò alla fine del primo atto un intermezzo musicale, la cosiddetta visione onirica del contadinello, che evoca il sogno di un ragazzo a nome Gric’ko che vi vede le streghe, il demonio (Chornobog) e il sabba; però – a differenza del poema sinfonico - il sogno si conclude con la sparizione di spettri e diavoli, cacciati dallo spuntare di un’alba radiosa e dai religiosi rintocchi di una campana. Quindi una conclusione serena, proprio all’opposto di quella della Notte di SanGiovanni.

Orbene, Rimski - che aveva per anni convissuto con Musorgski, quando i due si scambiavano regolarmente ogni pagina di musica che scrivevano - nel 1886 prese in mano i tre diversi manoscritti dell’amico, ormai passato da un lustro a miglior vita, e decise di ricavarne, per pubblicarla, una versione che fosse a suo parere presentabile al pubblico, intitolandola appunto Una Notte sul Monte Calvo. Ma invece di prendere come riferimento il poema sinfonico di (quasi) pari titolo, si basò sull’intermezzo dalla Fiera di Sorochyntsi e lo rimaneggiò da par suo (cioè con somma maestrìa, la stessa che impiegò per le sue ricostruzioni di Boris e Kovancina, tanto per dire) per farci una Fantasia da concerto in cui compaiono i riferimenti al sogno di Gric’ko e precisamente: suoni sotterranei di voci sovrannaturali; apparizione degli spiriti delle tenebre e di Satana; trionfo di Satana e Messa Nera; sabba; suono della campana che disperde gli spiriti delle tenebre; sorgere del giorno.

Morale della favola: la Notte di Rimski è assai diversa da quella di Musorgski, come si può verificare analizzando la struttura dei due brani: perfettamente scolpito e tematicamente assai conciso quello di Rimski (che impiega solo pochi temi principali); molto più esteso, prolisso e con varie divagazioni tematiche quello di Musorgski, a dispetto della mancanza del finale sereno.  
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Chi ha qualche anno sulle spalle non può non ricordare Leopold Stokowski e la sua personale edizione di questo lavoro per il disneyano Fantasia, ottenuta per sottrazione di un po’ di Rimski e addizione di un po’ di Schubert (!)

D’Espinosa non manca di mettere in luce tutto lo splendore dell’orchestrazione di Rimski, in particolare le qualità degli ottoni, chiamati a poderosi passaggi. Ma è anche pregevole la sua chiusa religiosa, con gli interventi del clarinetto della Raffaella Ciapponi e del flauto di Massimiliano Crepaldi, e con i 5 secondi di silenzio imposti al pubblico prima di abbassare la bacchetta.
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Benedetto Lupo, ormai un abitué dell’Auditorium, arriva sul palco per interpretare il Primo concerto di Rachmaninov.

Che però, nella versione eseguita qui (che è anche quella normalmente eseguita) dovrebbe essere indicato come il… quarto. Sì, perché l’Autore nel 1917 (erano nel frattempo apparsi sulla scena personaggi come Schönberg e Stravinski, hai detto niente!) rimaneggiò ampiamente il suo primo (di 26 anni più vecchio e soprattutto ispirato al più profondo ‘800…) quando già aveva composto, eseguito e pubblicato da anni e anni il secondo e il terzo!
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Il Vivace iniziale (FA# minore) è strettamente in forma-sonata, con un’introduzione in fanfara seguita da pesanti scale in ottava del pianoforte; i due temi (FA# minore e LA maggiore) hanno caratteristiche simili, piuttosto languide e con moto ascendente (tranne la seconda sezione del primo tema, che scende precipitosamente) e sono esposti dall’orchestra e poi dal solista, separati da una transizione di virtuosismo; lo sviluppo è abbastanza articolato e conduce ad una ripresa in cui, al primo tema nella tonalità di impianto segue il secondo nella tonalità di FA# maggiore (secondo tutti i canoni scolastici); un ponte porta poi alla cadenza, dove i due temi compaiono distintamente; una coda chiude velocemente il movimento.

Fra le due versioni ci sono differenze abbastanza spiccate, pur se la macro-struttura è stata conservata; Rachmaninov nel 1917 apportò moltissime modifiche alla strumentazione, un po’ ovunque, ma anche a consistenti porzioni sia dell’esposizione (la parte conclusiva, con transizione verso lo sviluppo, che nella versione originale aveva alcune battute in 3/4) che dello sviluppo medesimo e del ponte nella ripresa verso la cadenza; la quale cadenza fu pure in gran parte riscritta, così come la coda, con chiusura pesante, ma meno enfatica rispetto all’originale.

Nella seguente figura sono schematicamente rappresentate le strutture delle due versioni e in giallo sono indicate le parti più corposamente modificate da Rachmaninov nel 1917:


Si noti il motivo indicato con (*): 4 note, discesa da tonica a dominante, ripetute. Nella versione del 1917 è stato espunto da Rachmaninov dal primo movimento, ma lo ritroviamo nel terzo (in entrambe le versioni) il che dava quindi al concerto originale una caratteristica di ciclicità, che si perde nella versione più tarda.

Il secondo movimento è un breve intermezzo in RE maggiore, languido e sognante. Ha una struttura assai semplice: dopo un’introduzione in cui si ode in orchestra un motivo vagamente parente del secondo tema del primo movimento, ripetuto quattro volte su gradi sempre più alti, ecco il pianoforte entrare con una battuta di arpeggi e poi esporre un primo motivo di sapore proprio… rachmaninoviano. Poi, a battuta 28, il solista presenta – con accompagnamento orchestrale assai discreto - una nuova melodia, un motivo che sale dalla sopratonica fino alla sensibile, e da lì su ancora a tonica, sopratonica, mediante, per poi creare una specie di climax, da cui si rientra per sviluppare il primo motivo in orchestra, con il solista che si limita ad accompagnarlo, fino alla sommessa cadenza conclusiva.

Qui, a parte la strumentazione rivista e piuttosto arricchita e persino appesantita  da Rachmaninov, le principali novità della versione del 1917 sono: una maggiore complessità della battuta 10 (entrata del pianoforte); una diversa resa del climax del secondo motivo, con corposo intervento orchestrale, timpani compresi, laddove era il solo pianoforte ad operare nell’originale; infine una maggior vivacità nell’accompagnamento del solista alla riesposizione del primo motivo (nell’originale: solo terzine, nella versione 1917 anche arabeschi vari). In tutto si passa dalle 67 battute del 1891 alle 74 della versione ultima, essendo stata leggermente estesa, oltre che modificata, la sezione centrale.

Il terzo movimento è un Allegro scherzando nel 1891, un Allegro vivace nel 1917. È la parte sicuramente più manomessa da Rachmaninov nella seconda versione. Mentre la macro-struttura è rimasta più o meno invariata (si veda lo schema riportato più sotto) qui c’è un pesante ispessimento dei contrasti, qualche divagazione metrica e tonale in più e una strumentazione lussureggiante al limite del rumorismo, con ricerca di effetti a buon mercato, che non sempre rende un buon servigio all’opera.

1891
1917
1 Introduzione in pianissimo
1 Introduzione in fortissimo
7 Tema A in FA# minore
10 Tema A in FA# minore
32 Tema B in LA maggiore dal motivo (*) chiuso con perorazione in fortissimo di tutta l’orchestra
38 Tema B in LA maggiore dal motivo (*) chiuso con un motivo D discendente in fortissimo di tutta l’orchestra
77 Tema C in RE maggiore, cantabile, con sezione chopiniana
71 Tema C in MIb maggiore, cantabile, con sezione chopiniana
125 Introduzione in pianissimo
116 Introduzione in fortissimo
131 Tema A in FA# minore
126 Tema A in FA# minore
156 Tema B in RE maggiore e ponte verso la Coda
156 Tema B in RE maggiore e SOL maggiore
222 Coda in Maestoso FA# maggiore sul Tema C
222 Coda in FA# maggiore sul motivo D

La versione ottocentesca sarà anche naif e pretenziosa la sua parte (basta ascoltarne la perorazione nella coda finale, quasi… wagneriana) ma a me pare almeno più sincera ed equilibrata rispetto alla revisione del 1917, che evidentemente risente di influssi… espressionisti. 
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Benedetto Lupo ne ha dato una lettura proprio novecentesca, trattando il pianoforte precisamente come uno strumento da percuotere: impressionante, ad esempio, la cadenza del primo movimento. Ma pregevoli sono stati anche i passaggi elegiaci e contemplativi, vedi l’intermezzo,  che impreziosiscono questo lavoro.

Gran successo e, dopo tanta… percussione, due bis dove la tastiera viene soltanto sfiorata.
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Ha chiuso la serata un’altra composizione… contraffatta (!) Si tratta dei Quadri di un’esposizione, che Musorgski aveva composto per la tastiera nel 1874 e che Maurice Ravel, ormai in pieno ‘900 (1922) orchestrò con grande sapienza e modernità.

Nella primavera del 2012 l’avevamo ascoltata qui nelle due versioni, proposte rispettivamente da Rudy e Bignamini. E anche ier sera i ragazzi non hanno perso l’occasione per mostrare la loro perfetta padronanza di quest’opera che impegna ogni singolo strumento e i pacchetti delle diverse sezioni oltre ogni limite.

Interminabili ovazioni per tutti e per ciascuno.
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Per il prossimo concerto (e siamo solo al terzo…) si deve già registrare un cambiamento di programma non da poco: mancherà Ceccato con il suo Dvorak, che sarà sostituito da Gustavo Gimeno e da Shéherazade.   

20 gennaio, 2012

Orchestraverdi – concerto n 16


Torna Aldo Ceccato e torna il suo amato Dvorak.

Il primo dei tre brani in programma è lo Scherzo capriccioso, un pezzo di grande effetto, dove l'attenzione dell'ascoltatore viene subito catturata da due corni (disposti da Ceccato a destra, sotto gli altri ottoni) che espongono, a mo' di introduzione in SIb, il primo tema, che verrà poi presentato dagli archi nella tonalità di impianto, REb. La sincope che precede l'inconsueta chiusa del tema, sulla sottodominante, gli conferisce un che di altezzoso, quasi di sfrontato, o donchisciottesco:
Nell'esposizione negli archi, il tema è seguito da un motivo negli strumentini, che si appoggia alla dominante LAb (lo risentiremo ampiamente nello sviluppo, dopo il Trio).

Preceduto da un'atmosfera bruckneriana, entra poi Il secondo tema, che contrasta apertamente con il primo – secondo i canoni della forma-sonata – avendo natura più femminile e contemplativa, ed è scopertamente caratteristico di danza slava (Dvorak ne musicò espressamente 16) e la sua seconda parte anticipa chiaramente il Mahler del Wunderhorn. Sono i violini ad esporlo, inizialmente in SOL maggiore:
I due temi si ripetono, con divagazioni in diverse tonalità, fino all'ingresso del Trio (caratteristico degli Scherzi delle sinfonie) il cui primo tema, in RE maggiore, è esposto dal corno inglese:
Il secondo tema del Trio, più mosso, richiama vagamente il secondo tema principale. L'intero Trio andrebbe ripetuto (cosa che raramente avviene, e Ceccato non fa eccezione) prima del ritorno del tema principale, che subisce una specie di sviluppo tipo forma-sonata, contrappuntato dal motivo secondario, svolazzante negli strumentini. Torna il secondo tema e lo sviluppo termina con un rallentando (Poco meno mosso) che presenta i due temi (il primo nei corni, il secondo negli strumentini) in tempo moderato, che porta ad una cadenza dell'arpa, su un MI tenuto dei corni. Un crescendo, sfociante poi in Presto, conduce alla trionfante conclusione, sulle note del tema principale.

Arriva adesso Benedetto Lupo per interpretare il Concerto per pianoforte. Nonostante recenti e meno recenti sponsorizzazioni (si pensi a Richter) oltre che a rimaneggiamenti vari (primo fra i quali quello di Vilèm Kurz, che apportò una serie di modifiche alla parte solistica, più che altro rimpolpandone le sonorità con raddoppi all'ottava o accordi di tre invece che due note) questa è francamente un'opera esteticamente deficitaria… e forse Dvorak per primo se ne rendeva conto. (Anche Ceccato pare non averne eccessiva familiarità, visto che per l'occasione si fa portare il leggìo con la partitura ed inforca gli occhiali…) I temi non sarebbero neanche male, come già quello introduttivo:

Ma è il loro sviluppo, insomma: la narrativa che Dvorak ne ricava, a lasciare parecchio a desiderare. Si ha l'impressione di una composizione sforzata, dove l'ispirazione scarseggia, ed è sostituita da costrutti piuttosto stucchevoli e di scarso appeal. Doverosi comunque gli applausi al solista, che ha fatto del suo meglio per indorarci la pillola!

Dopo la pausa ecco l'Ottava sinfonia, pagina certamente accattivante, che molti considerano addirittura superiore alla famosissima Dal nuovo mondo. Ceccato la dirige ovviamente a memoria, sfoggiando quel tanto di gigionerìa che gli si può perdonare… data l'età (smile!) L'orchestra risponde bene e il risultato che ne esce è di ottima qualità. Da incorniciare l'Adagio, con la bellissima melodia esposta da flauto e oboi, ma anche l'Allegretto grazioso è stato di alta qualità. Senza voler essere troppo partigiano, mi pare che si stata un'esecuzione da preferire a quella offertaci dalla Filarmonica scaligera con Noseda l'anno scorso. Il pubblico, anche questa volta non foltissimo, ha mostrato di gradire con diverse chiamate per Ceccato e applausi per tutti.

Da tutto-Dvorak a tutto-Mozart la prossima settimana.
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18 marzo, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 27



Torna all'Auditorium il simpatico (e soprattutto bravo!) John Axelrod, con un programma di quelli da collezione popolare, o da inserto+CD del quotidiano di turno.

Prima di cominciare, si dedica il concerto al martoriato Giappone e si suona – e canta, in platea – l'Inno di Mameli. L'orchestra è schierata (come accade sempre più spesso) con i contrabbassi in fila frontale, fra percussioni e ottoni. Viole al proscenio. Il Konzertmeister Santaniello torna per l'occasione all'antico look con capelli stirati e codino.

Poi Axelrod attacca lo straussiano Don Juan, la prima di sette (o nove, se si includono la Sinfonia Domestica e Eine Alpensinfonie, o dieci, se ci si aggiunge anche Aus Italien) composizioni che sono etichettate con il termine poema sinfonico. Termine che era stato coniato da Liszt per definire della musica puramente strumentale, ma ispirata ad un programma letterario (di solito). Strauss usò invece il termine Tondichtung (letteralmente poema in suoni) per sottolineare come il programma poetico fosse per lui soltanto uno stimolo per l'espressione, in suoni appunto, dei propri sentimenti, e non lo spunto per una descrizione in musica di fatti/personaggi di natura materiale. (Quanto ciò sia coerente con opere come Ein Heldenleben, o peggio ancora come la Sinfonia Domestica, sarebbe da discutere.)

Ispirato al poema di Nikolaus Lenau, il Don Juan di Strauss sprizza esuberanza, vitalità, perenne ricerca dell'ideale femminino spinta – oltre l'erotismo - fino all'eroismo. Mirabili sono gli intermezzi amorosi, i corteggiamenti e gli abbandoni che vi sono disseminati (l'oboe di Emiliano Greci è strepitoso nel descrivere la principale love-scene, in SOL). Romantica fino all'estremo la conclusione dell'esistenza dell'eroe: quasi un tristaniano suicidio, sottolineato dal dissonante FA naturale delle trombe, poi dei corni, che cade sul MI, la tonalità del Don, che a sua volta va scemando, prima da maggiore a minore, per trovare pace sul MI all'unisono (archi in pizzicato, controfagotto, tromboni, tuba e timpano) delle due conclusive semiminime.

È curioso notare come la composizione (606 misure) sia tutta in tempo alla breve (2/2) eccetto cinque singole battute: la 30 (in 3/4) la 433 e 440 (3/2) la 507 (2/4) e la 542 (3/2). Axelrod ne cava fuori tutta l'energia e la cantabilità, ben coadiuvato dall'orchestra, dove gli ottoni sono chiamati ad imprese titaniche. A proposito, è sempre emozionante ed impressionante l'emergere improvviso del tema eroico del Don:



Ieri peraltro i corni mi sono sembrati, come dire, un po' trattenuti da Axelrod, mi sarei aspettato più grinta ed… eroismo! Comunque il pubblico non ha fatto di certo mancare applausi convinti.

Benedetto Lupo si siede quindi al pianoforte per suonarci il Primo Concerto di Franz Liszt. Pezzo che è stato al centro di altri due programmi sinfonici contemporanei lunedì scorso: suonato da Barenboim con la Filarmonica diretta da Wellber alla Scala e da Boris Berezovskyi con la Santa Cecilia diretta da Pappano (quest'ultimo concerto è stato trasmesso in streaming). Il Primo di Liszt ha l'incipit forse più enfatico e drammatico che sia mai stato scritto:



È un concerto davvero innovativo (per quei tempi): oltre ad avere una forma ciclica, con temi che tornano variati nel corso della composizione, vi si trovano indicazioni agogiche inconsuete, quali: grandioso, strepitoso, quasi Arpa! Addirittura ci sono parti che sembrano orchestrate per Triangolo obbligato (guardando la ripresa dal Parco della Musica si noterà che il percussionista era dislocato al proscenio, proprio a fianco del solista, in veste di vero e proprio concertante…)

Benedetto Lupo sa essere contenuto, pacato e sognante nell'iniziale parte solistica – che sembra una cadenza - del Quasi adagio; per il resto non lesina di certo gli effetti, anche i più plateali, nelle volate a rotta di collo, come nei poderosi passaggi con scale di ottave, mostrando tecnica eccezionale (non scalfita da qualche piccola imprecisione) e suscitando l'entusiasmo del pubblico.

Dopo l'intervallo torna ancora Lupo nella lisztiana Totentanz, questo Dies Irae trasformato in una specie di ballata infernale (Danse macabre ne è il sottotitolo). Concetto subito e perfettamente inquadrato dall'introduzione, dove il RE minore del canto gregoriano, esposto da fiati e archi è inquinato dai SOL# e SI naturale di pianoforte e timpani, che letteralmente satanizzano il Dies Irae con un'orgia di tritoni. Fino ad esplodere – battuta 11 – in quel terrificante accordo di tutta l'orchestra (solista escluso) che sembra far materializzare davanti ai nostri occhi Belzebù in persona. Chi pensava che Berlioz – nel suo incubo sabbatico - avesse raggiunto il limite, qui deve ricredersi (molto più tardi peraltro anche tale Rachmaninov, col Dies Irae, ne combinerà di cotte e di crude).

Lupo non si tira indietro (si guarda bene dall'accorciare il pezzo, come pure suggerito dall'Autore) né cerca di indorarci la pillola: usa il pianoforte proprio come strumento a percussione e lo strapazza per benino. (Dopo due pezzi come questi di Liszt mi sa che lo strumento necessiti di ore e ore di riaccordatura, smile!) Alla fine si merita il gran trionfo che il pubblico gli tributa per lunghi minuti.

Si chiude tornando a Strauss, con la Suite del Rosenkavalier, un piatto francamente un tantino stomachevole, come trangugiare in tre soli bocconi un'intera Sacher. Strauss va perdonato, perché si limitò ad acconsentire (ma aveva poca scelta, alla fine del 1944!) alla cottura di questo raffazzonato minestrone, fatta in USA da Artur Rodziński. Così la si prende come un'appendice tardiva del concerto di capodanno, e via con gli applausi (che ovviamente si meritano in pieno Axelrod e soprattutto i professori!)

Per l'appuntamento n°28 ci sposteremo decisamente nel XX e XXI secolo! Ma prima ci sarà una parentesi patriottica: domenica 20 il Presidente di tutti gli italiani (non quell'altro che piace soprattutto ad evasori fiscali, puttanieri e piduisti, e della cultura se ne fa un… bunga-bunga) sarà in Auditorium per celebrare, con l'Orchestra e il Coro de laVerdi, i 150 anni di Unità d'Italia.
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