Torna all'Auditorium il simpatico (e soprattutto bravo!) John Axelrod, con un programma di quelli da collezione popolare, o da inserto+CD del quotidiano di turno.
Prima di cominciare, si dedica il concerto al martoriato Giappone e si suona – e canta, in platea – l'Inno di Mameli. L'orchestra è schierata (come accade sempre più spesso) con i contrabbassi in fila frontale, fra percussioni e ottoni. Viole al proscenio. Il Konzertmeister Santaniello torna per l'occasione all'antico look con capelli stirati e codino.
Poi Axelrod attacca lo straussiano Don Juan, la prima di sette (o nove, se si includono la Sinfonia Domestica e Eine Alpensinfonie, o dieci, se ci si aggiunge anche Aus Italien) composizioni che sono etichettate con il termine poema sinfonico. Termine che era stato coniato da Liszt per definire della musica puramente strumentale, ma ispirata ad un programma letterario (di solito). Strauss usò invece il termine Tondichtung (letteralmente poema in suoni) per sottolineare come il programma poetico fosse per lui soltanto uno stimolo per l'espressione, in suoni appunto, dei propri sentimenti, e non lo spunto per una descrizione in musica di fatti/personaggi di natura materiale. (Quanto ciò sia coerente con opere come Ein Heldenleben, o peggio ancora come la Sinfonia Domestica, sarebbe da discutere.)
Ispirato al poema di Nikolaus Lenau, il Don Juan di Strauss sprizza esuberanza, vitalità, perenne ricerca dell'ideale femminino spinta – oltre l'erotismo - fino all'eroismo. Mirabili sono gli intermezzi amorosi, i corteggiamenti e gli abbandoni che vi sono disseminati (l'oboe di Emiliano Greci è strepitoso nel descrivere la principale love-scene, in SOL). Romantica fino all'estremo la conclusione dell'esistenza dell'eroe: quasi un tristaniano suicidio, sottolineato dal dissonante FA naturale delle trombe, poi dei corni, che cade sul MI, la tonalità del Don, che a sua volta va scemando, prima da maggiore a minore, per trovare pace sul MI all'unisono (archi in pizzicato, controfagotto, tromboni, tuba e timpano) delle due conclusive semiminime.
È curioso notare come la composizione (606 misure) sia tutta in tempo alla breve (2/2) eccetto cinque singole battute: la 30 (in 3/4) la 433 e 440 (3/2) la 507 (2/4) e la 542 (3/2). Axelrod ne cava fuori tutta l'energia e la cantabilità, ben coadiuvato dall'orchestra, dove gli ottoni sono chiamati ad imprese titaniche. A proposito, è sempre emozionante ed impressionante l'emergere improvviso del tema eroico del Don:
Ieri peraltro i corni mi sono sembrati, come dire, un po' trattenuti da Axelrod, mi sarei aspettato più grinta ed… eroismo! Comunque il pubblico non ha fatto di certo mancare applausi convinti.
Benedetto Lupo si siede quindi al pianoforte per suonarci il Primo Concerto di Franz Liszt. Pezzo che è stato al centro di altri due programmi sinfonici contemporanei lunedì scorso: suonato da Barenboim con la Filarmonica diretta da Wellber alla Scala e da Boris Berezovskyi con la Santa Cecilia diretta da Pappano (quest'ultimo concerto è stato trasmesso in streaming). Il Primo di Liszt ha l'incipit forse più enfatico e drammatico che sia mai stato scritto:
È un concerto davvero innovativo (per quei tempi): oltre ad avere una forma ciclica, con temi che tornano variati nel corso della composizione, vi si trovano indicazioni agogiche inconsuete, quali: grandioso, strepitoso, quasi Arpa! Addirittura ci sono parti che sembrano orchestrate per Triangolo obbligato (guardando la ripresa dal Parco della Musica si noterà che il percussionista era dislocato al proscenio, proprio a fianco del solista, in veste di vero e proprio concertante…)
Benedetto Lupo sa essere contenuto, pacato e sognante nell'iniziale parte solistica – che sembra una cadenza - del Quasi adagio; per il resto non lesina di certo gli effetti, anche i più plateali, nelle volate a rotta di collo, come nei poderosi passaggi con scale di ottave, mostrando tecnica eccezionale (non scalfita da qualche piccola imprecisione) e suscitando l'entusiasmo del pubblico.
Dopo l'intervallo torna ancora Lupo nella lisztiana Totentanz, questo Dies Irae trasformato in una specie di ballata infernale (Danse macabre ne è il sottotitolo). Concetto subito e perfettamente inquadrato dall'introduzione, dove il RE minore del canto gregoriano, esposto da fiati e archi è inquinato dai SOL# e SI naturale di pianoforte e timpani, che letteralmente satanizzano il Dies Irae con un'orgia di tritoni. Fino ad esplodere – battuta 11 – in quel terrificante accordo di tutta l'orchestra (solista escluso) che sembra far materializzare davanti ai nostri occhi Belzebù in persona. Chi pensava che Berlioz – nel suo incubo sabbatico - avesse raggiunto il limite, qui deve ricredersi (molto più tardi peraltro anche tale Rachmaninov, col Dies Irae, ne combinerà di cotte e di crude).
Lupo non si tira indietro (si guarda bene dall'accorciare il pezzo, come pure suggerito dall'Autore) né cerca di indorarci la pillola: usa il pianoforte proprio come strumento a percussione e lo strapazza per benino. (Dopo due pezzi come questi di Liszt mi sa che lo strumento necessiti di ore e ore di riaccordatura, smile!) Alla fine si merita il gran trionfo che il pubblico gli tributa per lunghi minuti.
Si chiude tornando a Strauss, con la Suite del Rosenkavalier, un piatto francamente un tantino stomachevole, come trangugiare in tre soli bocconi un'intera Sacher. Strauss va perdonato, perché si limitò ad acconsentire (ma aveva poca scelta, alla fine del 1944!) alla cottura di questo raffazzonato minestrone, fatta in USA da Artur Rodziński. Così la si prende come un'appendice tardiva del concerto di capodanno, e via con gli applausi (che ovviamente si meritano in pieno Axelrod e soprattutto i professori!)
Per l'appuntamento n°28 ci sposteremo decisamente nel XX e XXI secolo! Ma prima ci sarà una parentesi patriottica: domenica 20 il Presidente di tutti gli italiani (non quell'altro che piace soprattutto ad evasori fiscali, puttanieri e piduisti, e della cultura se ne fa un… bunga-bunga) sarà in Auditorium per celebrare, con l'Orchestra e il Coro de laVerdi, i 150 anni di Unità d'Italia.
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