Il funambolico Wayne Marshall si cimenta con musica contemporanea e novecentesca per l'appuntamento n°28 dei concerti all'Auditorium, incentrato su astrologia e astronomia, due campi diversi, ma contigui e in parte sovrapposti; discipline che hanno fin dalla notte dei tempi attirato l'attenzione e l'interesse dell'uomo.
Di Sofija Asgatovna Gubaidulina sono state eseguite – prima in Italia – le variazioni Sotto il segno dello Scorpione, per bayan (fisarmonica russa) e orchestra. La Gubaidulina è una compositrice russa di origini tatare (compirà 80 anni in autunno) di cui, prima del concerto, Fausto Malcovati e Federico Lazzaro hanno tratteggiato la fisionomia umana e artistica: lei, ragazzina ai tempi di Zdanov - e poi guardata con sospetto, dagli eredi del custode della cultura staliniana, per la sua innovatività - fu per fortuna sostenuta da Shostakovich, che le conferì una specie di laurea in contestazione, stimolandola a insistere sulla sua strada.
Solista alla fisarmonica lo straordinario Davide Vendramin, che era pure stato ospite della conferenza introduttiva, spiegando le caratteristiche foniche del bayan con l'esecuzione di altri spezzoni di opere della compositrice russa. Queste variazioni sono un pezzo di digeribilità complicata, e non solo perché mai udito qui da noi, né ancora inciso su disco. Tanto per esemplificare: anche chi ascolta per la prima volta l'Ottava di Beethoven, subito dopo è in grado di fischiettarne i temi principali; e senza dover sapere che il rapporto di altezze fra dominante e tonica è tre mezzi nel sistema pitagorico e radice dodicesima di due elevato alla settima potenza, in quello a temperamento equabile. Viceversa qui, per apprezzare un tema (o una sequenza) bisognerebbe conoscere da quali numeri della successione di Fibonacci è stato ottenuto; e per individuarne il punto culminante si dovrebbe calcolarne la sezione aurea. Con il risultato di non riuscire comunque poi a fischiettarlo (smile!)
Non ho dubbi che eseguire musica come questa richieda agli orchestrali molto più studio che non suonare per l'ennesima volta l'Ottava di cui sopra, e per questo meritano un applauso. Come naturalmente Vendramin, che ci elargisce anche un bis. Forse molti in sala (a partire dal sottoscritto) avrebbero gradito la Celebre mazurka variata di Migliavacca… ma il tempio e il tempo non lo consentono. OK, ok, così abbiamo fatto il nostro fioretto quaresimale da devoti penitenti.
Poi The Planets di Gustav Holst, albionico purosangue, a dispetto del nome (dal quale fece togliere persino il nobiliare von, per distanziarsi dagli odiati crucchi durante la Grande Guerra). Ai tempi (1914-16) i pianeti riconosciuti erano 8 (Terra inclusa) e quindi Holst musicò i 7 extraterrestri. Né volle aggiungere un ottavo movimento a questa specie di sinfonia delle palle (oh, pardon… sfere) celesti quando, anni dopo, Plutone venne ammesso nel club esclusivo dei satelliti del Sole. E fece bene perché, quasi 100 anni dopo, Pluto l'abbiamo meritatamente declassato a Paperino ed espulso seduta-stante dal club, e così oggi l'opera di Holst è potuta finalmente tornare a pieno diritto di attualità: fra gli astronomi (smile!) come nelle sale da concerto (stra-smile!)
A parte il titolo, la composizione tratta i pianeti dal punto di vista della loro identità mitologica, che poco ha a che vedere con quella astronomica (del resto è forse più facile comporre musica mediocre su concetti quali guerra, pace, gaiezza, e così via, che non sul calore di Mercurio o i ghiacci di Marte, o le brume di Venere, o gli anelli di Saturno). Per questo anche la sequenza in cui ci vengono presentati i pianeti non ha probabilmente nulla di astronomico (anche se diversi esegeti hanno buttato via tempo prezioso, sbizzarrendosi a ricercare improbabili razionali di questo tipo) ma è più verosimilmente legata a scelte estetico-musicali (!?) dipendenti a loro volta dalle significanze immateriali degli oggetti descritti.
Il primo a presentarsi è proprio il guerresco Marte, tempo 5/4, scandito dal primo timpano e dagli archi, che introducono gli ottoni, come da copione:
Si era in piena Grande Guerra e pare proprio di sentire il passo delle fanterie e dei primi mezzi corazzati che aravano i campi di battaglia. C'è in effetti più rumore che suono in questo primo brano della Suite, che in certi momenti pare un antesignano dei Pini della via Appia di Respighi.
Poi tocca a Venere, che porta pace (l'amore sarebbe troppo…): due arpe e la celesta creano atmosfere calme e cullanti; il tempo di base è Adagio, con qualche breve intermezzo in Andante e Animato. Chiude quasi mahlerianamente, dondolandosi fra sesta e dominante di MIb.
Segue Mercurio, messaggero alato. È una specie di scherzo, in 6/8, una cosa che ricorda un poco Shehérazade e un altro poco l'Allegro molto vivace della Patetica. Ma tutto leggero ed aereo, come si addice al volante protagonista. Naturale poi che siano strumentini, arpe e celesta ad avervi la parte del leone.
L'allegria (ma sempre?) la porta Giove. È peraltro un'allegria tutta sussiegosa e britannica (non certo da hooligans, però…) che si apparenta ad elgariane Pump&Circumstance (infatti un tema verrà poi associato ad un canto patriottico) e a popolari Londonderry air, oltre che anticipare musica da film western: insomma, tipica merce da notte finale dei Proms.
Saturno ci ricorda che invecchiamo (ma pare che sul nostro PM abbia altri effetti, smile!) Solennità, ordine, calma, frequente scampanìo sono i tratti principali di questo brano. Che inizia con un'introduzione lenta, dalla quale emerge dapprima un promettente motivo ascendente, nei tromboni, poi in tromba, corni, clarinetti e violini, che però rapidamente sfuma in una specie di Dies Irae che via via si anima, accompagnato dalle campane. Dopo una sosta di meditazione, sono i corni a riprendere l'iniziale solennità, conducendo il brano verso una conclusione quasi eterea, scandita dagli armonici delle arpe.
Ecco poi Urano, il mago. Ergo: le sorcier, e infatti Dukas vi fa subito capolino! Si sente anche un vago richiamo al faustiano coro dei soldati di Gounod, prima che il nostro mago svanisca nel nulla, su un vuoto accordo di MI dell'arpa e dei timpani.
Si chiude con il mistico Nettuno. Come per Marte, anche qui il tempo è in 5/4 (3+2). Per sottolineare il misticismo, e un poco anche la lontananza da noi del pianeta, perso laggiù nelle profondità dello spazio, Holst prevede l'intervento di un coro femminile (diviso in 6 parti) nascosto agli occhi dello spettatore, che non canta alcun testo, ma un unico lamento, una specie di ah… Troviamo qui effetti che – guarda caso – richiamano un po' quelli che Kubrick ci proporrà 50 anni più tardi - 2001, Space Odyssey (poco a che spartire con l'attuale Odyssey dawn, che tradurrei odissea giù di sotto) - impiegando Ligeti. Con grande meticolosità la didascalia in partitura prescrive che il coro e l'eventuale suo maestro vengano dislocati in una sala attigua, di cui non si dovrebbe vedere nemmeno la porta. Porta che andrebbe lentamente chiusa sull'ultima battuta (da ripetersi ad-libitum) esalata dal coro, proprio per ottenere l'effetto di far sfumare la musica nel nulla:
Qui in Auditorium non c'è nemmeno la porta aperta e le voci delle signore di Erina Gambarini si odono proprio come fossero perdute nel vuoto siderale.
Prestazione accolta da grandissimi e lunghissimi applausi: di sicuro indirizzati a esecutori e direttori, forse meno all'opera in sé, francamente di livello estetico discutibile.
Ancora Marshall di scena, la settimana prossima, sempre alle prese col '900 …diatonico.
.
Nessun commento:
Posta un commento