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23 agosto, 2024

ROF-2024 live: Il barbiere di Siviglia.

Ultima (ma temo solo per questa stagione…) visita alla Vitrifrigo Arena per l’ultima recita del Barbiere, ripresa della produzione del 2018, già ripetuta in Covid-streaming nel 2020.

Quel grande studioso rossiniano che fu il compianto Alberto Zedda scrisse a proposito del Barbiere un saggio che ancor oggi costituisce un punto di riferimento per inquadrare l’opera nella sua essenza più genuina, a dispetto delle mille ferite infertegli dalla cosiddetta tradizione esecutiva. E la sua edizione critica, ancor oggi riproposta al ROF, lo sta ampiamente a dimostrare.  

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Sulla regìa di non posso che ripetere i miei commenti allo spettacolo di sei anni fa. Pier Luigi Pizzi non si smentisce e – da architetto, per studi universitari, e da scenografo… di nascita - appronta un’ambientazione super-stilizzata (balconi, terrazzini e interno dove le curve sono ridotte al minimo) e con colori di scene e costumi dove prevalgono il bianco accecante e il nero più pesto. Poche macchie di violaceo o rossiccio per qualche soprabito e di ceruleo per Rosina. Le luci di Massimo Gasparon mettono perfettamente in risalto la solarità dell’ambiente, rotta solo dall’avvicinarsi del temporale.

Quanto alla recitazione, Pizzi cerca (e direi proprio, trova) un più che accettabile compromesso, evitando gli eccessi goliardico-sbracati di certe interpretazioni tradizionali (o tradizionaliste…) che, da commedia con venature di buffo, riducono spesso il Barbiere a puro avanspettacolo sgangherato.

Non mancano certo le gag - una su tutte, il botto dello spumante stappato da Basilio con cronometrica precisione proprio sul memorabile colpo-di-cannone - ma siamo sempre all’interno dei confini dell’eleganza e dello stile. Così il Figaro che - mentre canta la sua celebre cavatina - si spoglia seminudo per lavarsi nella fontana sotto il balcone di Rosina; o il Conte che si presenta (come Don Alonso) nelle forme di un nanerottolo (camminando sulle ginocchia); o la vecchia Berta sempre assatanata come una ninfomane… non fanno mai scadere lo spettacolo a becera farsa.

Anche Pizzi sfrutta (già che c’è) la passerella (questa sì da avanspettacolo!) che circonda l’orchestra e che è da sempre una dotazione fissa del palazzone pesarese: così vi transitano e stazionano spesso e volentieri i vari personaggi, fino alla sfilata in grande stile della chiusura del primo atto e poi alle uscite finali.

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Un tremuoto, un temporale… è l’espressione che meglio si addice a descrivere ciò che deve aver colpito Lorenzo Passerini sul podio dell’Arena: un corpo letteralmente morso dalla tarantola! E forse i suoi gesti quasi spiritati possono aver dato la (fallace) impressione che i tempi da lui tenuti siano eccessivamente forsennati: in realtà mi pare che ciò ieri non sia accaduto, il che va comunque a suo merito. La solida Sinfonica Rossini evidentemente lo ha assecondato nella sostanza, al di là della forma, piuttosto gigionesca!

Assai bene anche il Coro (soli signori) del Teatro Ventidio Basso di Giovanni Farina.  

Nel ruolo del titolo, il polacco Andrzej Filonkzyk ha messo in mostra la sua voce dal timbro caldo e ben tornito, di cui qualche eccesso di forzatura degli acuti non ha troppo compromesso la resa complessiva. Più che discreta anche la sua presenza scenica.

Il suo protetto (Almaviva/Lindoro) è lo yankee Jack Swanson: voce leggera, dal timbro non molto corposo, in specie nelle note più gravi, ma svettante negli acuti. In complesso, più che apprezzabile la sua prova.

Parimenti apprezzata la Rosina di Maria Kataeva. Assai efficace e ben proiettata negli acuti, il mezzosoprano russo mi è parsa meno efficace nell’ottava bassa, ma anche lei ha brillantemente superato la prova, mettendo in mostra anche una consumata sensibilità interpretativa.

Assai bene anche William Corrò, che vestiva i panni duplici di Fiorello e Ufficiale: voce benissimo impostata e potente, dal timbro assai gradevole.

Resta da dire dei senior della serata. Su tutti l’imponente figura di Michele Pertusi, un Don Basilio che probabilmente si sentiva anche a… Pesaro! E che ha portato gli applausi del pubblico al parossismo.

Così come l’altro decano del Festival, Carlo Lepore, un Bartolo di gran spessore, nella voce (non ha perso una sola sillaba nei diversi scioglilingua che Rossini impone al personaggio) e nelle multiformi movenze delle sue esternazioni.

E infine Patrizia Biccirè, che esordì al ROF addirittura 32 anni orsono! E che ancora ha saputo dare il suo apporto allo spettacolo e soprattutto – con l’arietta a lei riservata - alla musica.

Applausi scroscianti a scena aperta dopo ciascun numero e poi un generale trionfo finale, con tutti gli interpreti in passerella a ricevere un interminabile applauso ritmato!

  

27 aprile, 2023

Pagelle sulla Lucia scaligera targata Oropesa-JDF/Chailly-Kokkos

La quinta (su 8) rappresentazione di Lucia di Lammermoor è andata in scena ieri sera alla Scala, in un teatro ben lungi dall'esaurito.

Tradita la prima per rispetto a… Rachmaninov, ho quindi iniziato l’approccio a questa nuova produzione attraverso lo streaming-on-demand di RaiPlay, che (ancora per pochi giorni, parrebbe) mette la recita del 13 aprile a disposizione del pubblico. (Nel frattempo è comparsa la registrazione anche su youtube, finchè qualcuno non reclamerà…) Come spesso accade, la ripresa televisiva dà assai di più (e non sempre meglio?) di ciò che si vede in teatro, soprattutto grazie alle angolazioni di ripresa e ai primi piani. 

Parto quindi dalla regìa, che in un’opera come questa conta (ad esagerare) per 20 su 100, rispetto alla musica, per dire che Jannis Kokkos ha fatto il minimo sindacale (ma per lui il salario minimo è un filino più alto degli stratosferici 9€ all’ora che tuttora si negano qui da noi…) limitandosi a coprire i personaggi con abiti contemporanei, il che ce li rende però ancor più antipatici e ridicoli, diciamolo francamente: volendo darci un riferimento all’attualità avrebbe potuto ambientare la vicenda fra le bande del Bronx (tipo West Side Story, per dire) visto che il soggetto è una scopiazzatura di Romeo&Juliet (con tanto di alias di Frate Lorenzo…)

E a proposito di scopiazzature, mi viene in mente la grande scalinata di Brockhaus-Svoboda del 2012, nella produzione del circuito lombardo; per il resto, trovate abbastanza bambinesche: animali di cartapesta – incluso un ramicornuto cervo -  assortiti qua e là e improbabili statue da Cimitero Monumentale… Insomma, una regìa inconsistente, che il loggione alla prima aveva disapprovato assai, e a ragione, mentre ieri sera è stato un filino più clemente (o talmente disinteressato, data l’assenza del regista alle uscite finali, da risparmiare anche sui buh…)

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I suoni - ancora una volta, e come sempre, se emessi come si deve! – hanno solo parzialmente rivalutato questa produzione.

Merito al 60% almeno di Direttore, buca e coro, davvero irreprensibili per ricercatezza di tempi, di suono, di sfumature e di pathosIl restante 40% se lo devono dividere i protagonisti, ai quali mi permetto di assegnare il premio di produzione nelle seguenti quote:

10% Lisette Oropesa (Lucia) [voce calda e morbida, acuti pennellati, agilità virtuosistiche, buona recitazione anche se un po’ contratta]

9% Boris Pinkhasovich (Enrico) [bella sorpresa, voce importante, sicura ed efficace presenza scenica]

7% JDF (Edgardo) [queste sue escursioni extra-rossini non (mi) convincono, fatta salva la sua grande professionalità e la voce ancora abbastanza integra; che però al loggione arrivava a malapena (la glassharmonica si sentiva di più!)]

5% Carlo Lepore (Raimondo) [ha fatto il possibile per non far rimpiangere Pertusi]

4% Giorgio Misseri (Normanno) [in proporzione al peso dei ruoli, all’altezza di JDF]

3% Leonardo Cortellazzi (Arturo) [minimo sindacale per lui]

2% Valentina Pluzhnikova (Alisa) [incoraggiamento per l’accademica]

Primo e terzo atto complessivamente discreti, il secondo francamente meno, con la punta di diamante dell’opera (il sestetto) passato via senza emozione.

Alla fine qualche bravo! per Oropesa, Pinkhasovich, Florez, Chailly e coro; applausetti per i restanti. Regista, come detto, non presentatosi. In tutto forse 7-8 minuti, poi tutti a nanna.

In conclusione, che dire? Maliziosamente: dovremmo ringraziare il Covid per averci risparmiato di sorbire questa passabile minestrina come cenone di un SantAmbrogio? 

16 agosto, 2022

ROF-43 live: La Gazzetta

Rieccomi sulla riviera adriatica (dove all’apocalisse pronosticata da sedicenti saggi in conseguenza della caduta di supermario nessuno sembra far caso) per il mio personale esordio (come spettatore, s’intende) al ROF-XLIII. Assistendo alla terza recita de La Gazzetta, una ripresa rivisitata della fortunata produzione di Marco Carniti del 2015, che fu anche da me a suo tempo ammirata.

Dico subito che la serata è iniziata in tono minore, poi vivacizzatasi man mano: forse condizionata, chissà, dalla scarsità (molte, troppe poltrone vuote in platea e nei palchi) e iniziale freddezza del pubblico. Sta di fatto che il primo atto ha cominciato a prender quota solo al momento del famoso (perché ritrovato da pochi anni) quintetto Già nel capo un giramento Insomma, dopo l’ascolto della prima del 10 agosto in radio mi ero fatto aspettative migliori, ecco.    

Com’è noto, l’opera rappresentò l’esordio di Rossini in territorio buffo a Napoli, la capitale italiana (e forse europea, ai tempi, 1816) del teatro musicale. Ebbene: due napoletani veraci, Carlo Lepore e Maria Grazia Schiavo, hanno impersonato qui la coppia padre-figlia, Prosdocimo-Lisetta, in viaggio di piacere-interesse a Parigi, dando così anche un tocco di realismo alla vicenda improbabile che un altro napoletano, Giuseppe Palomba, aveva inventato (beh, insomma, facendosi aiutare da… Goldoni) per la speciale occasione.

Lepore è un perfetto Prosdocimo Storione, una specie di prototipo di personaggi cui darà vita il grande Totò, del quale non per nulla vengono richiamate alcune gag passate alla storia. Oltre che cantare da par suo, eccelle ovviamente nei frequenti parlati in partenopeo, che esigono nativa, quindi assoluta dimestichezza con quel dialetto. 

Lisetta, che il librettista presenta in modo (almeno apparentemente) contraddittorio, affibbiandole l’epiteto francamente equivoco di donzella scaltra e baggiana (!?) è resa in modo apprezzabile dalla Schiavo, che mette la sua abilità vocale nella coloratura al servizio della natura bifronte del personaggio. E inoltre la sua voce acuta e penetrante svetta sempre nei duetti e concertati.   

Fra gli altri protagonisti emerge prepotentemente, per vocalità e presenza scenica, Giorgio Caoduro, che passa autorevolmente dalla sua identità reale (Filippo, il locandiere) a quelle virtuali di quakero e turco. Qualche eccesso di forzatura nella parte acuta della tessitura non inficia il giudizio positivo sulla sua prestazione, confermato dalle ovazioni ricevute alle uscite finali, oltre che agli applausi a scena aperta dopo il duetto con Lisetta e la sua aria Quando la fama altera

Pietro Adaìni impersona un Alberto convincente, voce squillante e omogenea in tutta la gamma: dopo un esordio un poco trattenuto (Ho girato il mondo intero) anche lui è cresciuto meritando applausi con l’aria O lusinghiero amor.

Doralice è Martiniana Antonie, che mette in bella mostra la sua voce corposa di mezzosoprano, che dopo l’aria (di mano aliena, peraltro) Ah, se spiegar potessi, avrebbe anche meritato un applauso che invece il pubblico ancora freddino le ha negato. Prezioso anche il suo contributo ai concertati.

Con lei bene ha meritato l’altra mezzo, Andrea Niño, efficace Madama La Rose, vocalmente e scenicamente.

Alejandro Baliñas (Anselmo) e Pablo Gàlvez (Traversen) hanno onorevolmente completato la squadra delle voci.

Mirca Rosciani ha ben guidato il Coro (qui di soli maschi) del Teatro della Fortuna, componente non marginale dell’opera.  

Lodevole la direzione e concertazione del veterano Carlo Rizzi, bacchetta ambidestra... che ha ottenuto dalla Sinfonica Rossini (con la Filarmonica, una delle due belle realtà locali) un risultato di tutto rispetto: freschezza e trasparenza del suono, precisione negli attacchi, compattezza nei passaggi d’insieme.
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Come prevedibile, confermato il successo del 2015 per la proposta registìca di Marco Carniti, coadiuvato dalla sua squadra composta da Manuela Gasperoni per le scene, Maria Filippi per i costumi e Fabio Rossi alle luci.

Da ultimo lascio l’unico superstite (fra coloro che escono in scena) del 2015, Ernesto Lama, il Tommasino (quasi) muto che qui assume il ruolo del catalizzatore nelle reazioni chimiche: e anche ieri ha simpaticamente contribuito ad aggiungere verve a questo godibile spettacolo.       

21 agosto, 2020

Il ROFid ha pagato l’ultima cambiale


Ieri sera si è chiuso, nello smagrito Teatro Rossini, il 41° ROF, che passerà alla storia come l’edizione pandemica...

Pesaro - all’apparenza almeno - sembrava quella di tante altre chiusure di Festival, a parte qualche individuo... mascherato: biciclette sfreccianti; la fontana con la sfera sventrata di Pomodoro circondata da frotte di selfie-isti; lungomare piacevolmente affollato; fungaia di ombrelloni ancora aperti alle 7:30 di sera; qualcuno che sguazza a godersi l’ultimo bagno della giornata; tavolini dei bar occupati senza troppa attenzione al distanziamento; ristoranti dove si preparano i coperti per la cena... Insomma, almeno da queste parti non pare proprio che ci si stia attrezzando alacremente in vista della tanto paventata apocalisse d’autunno, ecco (o stiamo tutti proverbialmente ballando sul Titanic?)      

Nel teatro le cose cambiano vistosamente rispetto alla normalità: mascherine obbligatorie, disinfettanti per le mani e regole di distanziamento almeno teoricamente rispettate. Fa impressione davvero l’interno della sala: un pavimento posticcio è stato installato ben al di sopra del livello della platea, arrivando a meno di mezzo metro dal piano del primo ordine di palchi; chi - come me - stava proprio lì aveva l’orchestra, che occupava più di metà di quello spazio, proprio davanti al naso. Insomma, qualcosa di troppo insolito, e non tanto per la vista, quanto per l’udito. Poichè nonostante gli sforzi dei cantanti e l’attenzione di Dmitry Korchak (una creatura tenorile del Festival, quest’anno esordiente qui come Direttore) a moderare i decibel dell’orchestra, ciò che arrivava alle orecchie non era precisamente quell’amalgama gradevole di suoni cui si è abituati.

E Marianna Pizzolato, ormai veterana del ROF, ne ha fatto un po’ le spese, aprendo la serata con la versione orchestrata da Sciarrino della Giovanna D’Arco, cantata composta a Parigi nel 1832 (ma ormai è certo che quella data vada incrementata di una ventina d’anni) per voce e pianoforte. Qui la stessa Pizzolato nella recita inaugurale dello scorso 8 agosto, trasmessa in streaming. Dal vivo la sua voce faticava davvero ad attraversare adeguatamente la barriera sonora orchestrale (forse meglio sarebbe stato eseguire la versione originale).

Pubblico forzosamente scarso (c'erano però posti vuoti oltre il necessario) ma assai caloroso nell'accogliere questo antipasto della serata.
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Senza intervallo si procede subito con La Cambiale di Matrimonio, alla sua quarta apparizione al ROF, dopo l’esordio del 1991 e i ritorni del 1995 e 2006. Questa nuova produzione è realizzata in collaborazione con la ROH di Muscat (Oman). Qui la recita dell’apertura.

Oltre al tenore-direttore, abbiamo qui anche il tenore-regista, chè Laurence Dale, il quale ha messo in piedi uno spettacolo piacevole, nel rispetto delle regole di distanziamento, e soprattutto senza stravolgere l’essenza del soggetto originale (cosa peraltro ardua, data la natura leggera dell’opera).

Gary McCann è il responsabile dell’intelligente scenografia (la facciata della residenza di Mill che si apre lasciando apparire gli interni, e pure un parco) e dei brillanti costumi. Ralph Kopp ha curato sapientemente le luci.

Carlo Lepore (la cui prima apparizoone pesarese risale al 1996!) è stato il trascinatore degli altri cinque interpreti e il trionfatore della serata: un Mill di gran presenza scenica, voce sempre robusta e ben impostata, nobiltà di portamento.

Iurii Samoilov fu già un più che discreto Omar nel Siège del 2017 e direi che in questi tre anni sia ulteriormente migliorato, restituendoci un convincente Slook, assai composto rispetto a quanto si vede (e si sente) spesso in giro; e la sua età gli darà certamente modo di migliorare ancora. Anche Martiniana Antonie si è già esibita come Elmira (Ricciardo&Zoraide del 2018) e poi come Azema (Semiramide, 2019): qui ha meritoriamente interpretato il ruolo della servetta Clarina, applaudita nella sua aria.  

Gli altri tre interpreti erano tutti al primo approccio con il cartellone principale del Festival, ma sono altrettanti prodotti dell’Accademia, che in anni recenti si son fatti le ossa rossiniane prevalentemente con quella fucina che è Il viaggio a Reims (che anche quest’anno ha avuto le due recite canoniche).

Su tutti Giuliana Gianfaldoni, che ha impersonato la proto-femminista Fannì con garbo e spigliatezza, ma soprattutto mettendo in luce la sua bella voce, sempre ben controllata e senza smagliature.

Ma più che bene anche l’Edoardo di Davide Giusti, tenorino di belle speranze (ma ha già una discreta carriera alle spalle); e il domestico-intrigante Pablo Gàlvez (Norton) che ha fatto piacevolmente coppia con Clarina.

Korchak ha concertato tutti con diligenza, ben coadiuvato dalla valida Sinfonica Rossini di Pesaro: per il momento lo giudicherei promettente... il futuro ci dirà se sia meglio come direttore che come tenore.
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All’uscita-artisti c’è a salutare tutti un baldo giovane che qui fa un po’ il padrone di casa: Michele Mariotti. Ecco, anche questa edizione nata davvero sotto cattiva stella corona va in archivio, e tutto sommato con pieno merito: non deve essere stato semplice nè facile allestire comunque un programma dignitoso, evitando un lockdown totale che sarebbe stato davvero difficile da digerire. E adesso... largo ai vaccini! Per poter arrivare senza problemi al prossimo appuntamento, con Moïse (Sagripanti-Pizzi),  Bruschino (Spotti-Barbe&Doucet), Elisabetta (Pidò-Livermore) e Stabat (Bignamini).

19 agosto, 2017

ROF-XXXVIII live. Torvaldo e Dorliska


Terza recita anche per Torvaldo&Dorliska, ieri sera al Rossini, in un ambiente che anche logisticamente ti trasporta indietro di secoli, proprio ai giorni in cui la musica che si suona e si canta venne ideata e composta dal grande Gioachino. Bomboniera gremita e pubblico cosmopolita ben disposto al gradimento e all’applauso.

Opera che meriterebbe di essere riproposta più spesso, anche da altri teatri, stante il livello dei contenuti musicali: è un Rossini ancora giovane (1815) ma già alla sua 16ma fatica; è al suo esordio sulla piazza di Roma, dove poco dopo otterrà (a valle dell’iniziale fiasco) il successo destinato a divenire imperituro del Barbiere. E forse proprio la fama del Figaro ha finito per oscurare, immeritatamente, quella della sorella maggiore, che invece presenta struttura (arie, duetti, terzetti e concertati) e ispirazione davvero degni del miglior Rossini.

Il quale anche qui non si smentisce, quanto ad auto-imprestiti; ne segnalo almeno un paio: il primo è in uscita, il tema in LA maggiore (poi in RE) della Sinfonia che nei due anni successivi a quel 1815 migrerà dapprima nella Gazzetta e da lì nella Cenerentola. L’altro, in entrata (in FA maggiore, ad accompagnare Giorgio e il coro in apertura dell’atto II) viene immediatamente dal Sigismondo (1814) ma remotamente (1812) dall’introduzione della Scala di seta...

Sono le tre voci gravi del cast a innervare l’opera, fin dalle prime due scene, in cui spicca quell’impareggiabile terzetto con coro (si cercherà, si troverà) che anticipa proprio la cavatina di Figaro (Figaro qua, Figaro là) ma qui raggiunge vette esilaranti proprio per il continuo passare da una voce all’altra. E i tre interpreti sono anche stati i maggiori trionfatori della serata. Nicola Alaimo, la cui presenza scenica ha fatto da degno supporto ad una prestazione canora impeccabile; poi Carlo Lepore, presentatosi con il braccio sinistro al collo (una costante di questo ROF, dopo quello di Abbado...) che ha sfoderato tutta la sua proverbiale verve di autentico buffo rossiniano. Ma bene si è portato anche Filippo Fontana, che si è inoltre esibito come scalatore di alberi nella sua strampalata aria (sopra quell’albero vedo un bel pero) a metà del primo atto.

Dmitri Korchak ha confermato in pieno le sue doti che in pochi anni lo hanno portato ad emergere non solo nel repertorio rossiniano (ma presto vestirà i panni e soprattutto... la voce di Arnold): svettante negli acuti, sempre squillanti e capaci di penetrare anche i fracassi degli insiemi, ma assai efficace anche nei momenti più lirici e intimistici, dove sa sfoderare apprezzabili mezze voci.

Salome Jicia è certamente cresciuta, dopo la debuttante Elena dello scorso anno. Ma ancora mi pare debba lavorare sodo per raggiungere livelli di eccellenza: gli acuti sono spesso forzati e urlacchiati con timbro sgradevole (complice anche la regìa che la costringe a volte a cantare supina... posizione non ideale davvero); comunque una più che passabile Dorliska.

Raffaella Lupinacci ha pure lei mostrato qualche vetrosità nella tessitura acuta, comunque all’interno di una prestazione mediamente onorevole.

Altrettanto va detto del Coro della Fortuna di Mirca Rosciani, che ha anche dovuto affrontare difficoltà, come dire, logistiche, impostegli dall’eccentricità delle soluzioni registiche.

Francesco Lanzillotta si conferma più che una promessa: la sua è una direzione e concertazione precisa, attenta e rispettosa delle voci; e l’Orchestra Sinfonica G.Rossini ha dimostrato come anche piccole compagini di provincia sino perfettamente all’altezza di eseguire adeguatamente opere come questa. Gianni Fabbrini e Anselmo Pelliccioni hanno egregiamente sostenuto il ruolo del continuo (fortepiano e cello) nei recitativi, il primo ha pure vestito estemporaneamente i panni di comparsa...

Alla fine applausi, ripetute chiamate singole e collettive e ovazioni per tutti. Meritate, direi proprio.
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La regìa di Mario Martone era già sicuramente vecchia, come concezione, 11 anni fa, ed oggi è proprio irrimediabilmente passata. L’idea di ignorare il palcoscenico per portare l’opera in platea potrà piacere agli amanti dell’avanspettacolo, ma va decisamente a detrimento innanzitutto della precisione dell’esecuzione (un coro sparso per l’intera platea difficilmente sarà perfetto negli attacchi, col Direttore che gli volta le spalle...) e poi anche dell’ottimale fruizione da parte del pubblico un filino più... esigente.

Così, avendo sprecato l’intera scena per collocarvi il bosco (cui nel libretto semplicemente si accenna) ecco che al regista sarebbe rimasto solo il proscenio per ambientarvi l’intera vicenda: pretesto quindi per dislocare in sala passerelle, scale retrattili che scendono dai palchi del primo ordine, una gabbia che sale e scende proprio alle spalle del Direttore a far da cella per il povero Korchak, altre scale che portano nella buca dell’orchestra... insomma, un armamentario francamente bizzarro e soprattutto penalizzante per la concentrazione di interpreti e di pubblico. Ciliegina sulla torta, i volantini rossi con la scritta Viva Rossini fatti piovere dal loggione all’inizio del second’atto, in corrispondenza con il patriottico ingresso dei popolani di Ordow.   

Insomma, un allestimento fra il goliardico e il varieté, che peraltro in molti avranno anche apprezzato.