Terza recita anche per Torvaldo&Dorliska, ieri sera al Rossini, in un
ambiente che anche logisticamente ti trasporta indietro di secoli, proprio ai
giorni in cui la musica che si suona e si canta venne ideata e composta dal
grande Gioachino. Bomboniera gremita e pubblico cosmopolita ben disposto al
gradimento e all’applauso.
Opera che meriterebbe di essere riproposta più
spesso, anche da altri teatri, stante il livello dei contenuti musicali: è un
Rossini ancora giovane (1815) ma già alla sua 16ma fatica; è al suo esordio
sulla piazza di Roma, dove poco dopo otterrà (a valle dell’iniziale fiasco) il
successo destinato a divenire imperituro del Barbiere. E forse proprio la fama del Figaro ha finito per oscurare,
immeritatamente, quella della sorella maggiore, che invece presenta struttura (arie,
duetti, terzetti e concertati) e ispirazione davvero degni del miglior Rossini.
Il quale anche qui non si smentisce, quanto ad
auto-imprestiti; ne segnalo almeno un paio: il primo è in uscita, il tema in LA maggiore (poi in RE) della Sinfonia che
nei due anni successivi a quel 1815 migrerà dapprima nella Gazzetta e da lì nella Cenerentola.
L’altro, in entrata (in FA maggiore,
ad accompagnare Giorgio e il coro in apertura dell’atto II) viene
immediatamente dal Sigismondo (1814)
ma remotamente (1812) dall’introduzione della Scala di seta...
Sono le tre voci gravi del cast a innervare l’opera,
fin dalle prime due scene, in cui spicca quell’impareggiabile terzetto con coro
(si cercherà, si troverà) che
anticipa proprio la cavatina di Figaro (Figaro
qua, Figaro là) ma qui raggiunge vette esilaranti proprio per il continuo
passare da una voce all’altra. E i tre interpreti sono anche stati i maggiori
trionfatori della serata. Nicola Alaimo,
la cui presenza scenica ha fatto da degno supporto ad una prestazione canora
impeccabile; poi Carlo Lepore, presentatosi
con il braccio sinistro al collo (una costante di questo ROF, dopo quello di
Abbado...) che ha sfoderato tutta la sua proverbiale verve di autentico buffo rossiniano. Ma bene si è portato
anche Filippo Fontana, che si è
inoltre esibito come scalatore di alberi nella sua strampalata aria (sopra quell’albero vedo un bel pero) a
metà del primo atto.
Dmitri Korchak ha confermato in pieno le sue doti che in pochi
anni lo hanno portato ad emergere non solo nel repertorio rossiniano (ma presto
vestirà i panni e soprattutto... la voce di Arnold): svettante negli acuti,
sempre squillanti e capaci di penetrare anche i fracassi degli insiemi, ma assai efficace anche nei
momenti più lirici e intimistici, dove sa sfoderare apprezzabili mezze voci.
Salome Jicia è certamente cresciuta, dopo la debuttante Elena dello
scorso anno. Ma ancora mi pare debba lavorare sodo per raggiungere livelli di
eccellenza: gli acuti sono spesso forzati e urlacchiati con timbro sgradevole (complice
anche la regìa che la costringe a volte a cantare supina... posizione non
ideale davvero); comunque una più che passabile Dorliska.
Raffaella Lupinacci ha pure lei mostrato
qualche vetrosità nella tessitura acuta, comunque all’interno di una
prestazione mediamente onorevole.
Altrettanto va detto del Coro della Fortuna di Mirca
Rosciani, che ha anche dovuto affrontare difficoltà, come dire, logistiche,
impostegli dall’eccentricità delle soluzioni registiche.
Francesco Lanzillotta si conferma più che una
promessa: la sua è una direzione e concertazione precisa, attenta e rispettosa
delle voci; e l’Orchestra Sinfonica G.Rossini
ha dimostrato come anche piccole compagini di provincia sino perfettamente
all’altezza di eseguire adeguatamente opere come questa. Gianni Fabbrini e Anselmo
Pelliccioni hanno egregiamente sostenuto il ruolo del continuo (fortepiano e cello) nei recitativi, il primo ha pure
vestito estemporaneamente i panni di comparsa...
Alla fine applausi, ripetute chiamate singole e
collettive e ovazioni per tutti. Meritate, direi proprio.
___
La regìa di Mario
Martone era già sicuramente vecchia, come concezione, 11 anni fa, ed oggi è
proprio irrimediabilmente passata. L’idea
di ignorare il palcoscenico per portare l’opera in platea potrà piacere agli
amanti dell’avanspettacolo, ma va decisamente a detrimento innanzitutto della
precisione dell’esecuzione (un coro sparso per l’intera platea difficilmente
sarà perfetto negli attacchi, col Direttore che gli volta le spalle...) e poi
anche dell’ottimale fruizione da parte del pubblico un filino più... esigente.
Così, avendo sprecato l’intera scena per collocarvi
il bosco (cui nel libretto semplicemente si accenna) ecco che al regista
sarebbe rimasto solo il proscenio per ambientarvi l’intera vicenda: pretesto
quindi per dislocare in sala passerelle, scale retrattili che scendono dai
palchi del primo ordine, una gabbia che sale e scende proprio alle spalle del
Direttore a far da cella per il povero Korchak, altre scale che portano nella
buca dell’orchestra... insomma, un armamentario francamente bizzarro e
soprattutto penalizzante per la concentrazione di interpreti e di pubblico. Ciliegina
sulla torta, i volantini rossi con la scritta Viva Rossini fatti piovere dal loggione all’inizio del second’atto,
in corrispondenza con il patriottico ingresso dei popolani di Ordow.
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