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17 agosto, 2017

ROF-XXXVIII live. Le Siège de Corinthe


Ieri sera Le Siège de Corinthe è arrivato alla terza delle quattro recite in programma, in un’Adriatic Arena per la verità non proprio piena come un uovo...

Della serie: come rovinare una delle opere migliori del genio pesarese. E l’artefice dell’impresa impossibile risponde al nome di Carlus Padrissa, che ha fatto esattamente il contrario di ciò che Rossini ha genialmente costruito: distruggere tutta la poesia e la sontuosità dell’opera, per presentarci un’accozzaglia di trovate una più becera dell’altra.

A partire dal Konzept di fondo, che trasporta la ricca e colta Corinto in un imprecisato quanto arido deserto, dove due branchi di animali assetati si contendono l’acqua (di centinaia di bottiglioni da dispenser di ufficio stipati a far da permanente scenografia.

Sullo sfondo, già dall’esecuzione della sinfonia, versi di Byron che con il soggetto rossiniano (e soprattutto con la musica!) c’entrano come i cavoli a merenda. A proposito di Byron, il colmo della proditoria aggressione all’arte di Rossini viene perpetrato nel second’atto, allorquando la splendida musica di danza (fra l’altro arricchita di una quarta scena recuperata fra le carte parigine) che deve supportare nientemeno che una grande festa nuziale, viene addirittura stuprata da ciò che si vede in scena, sullo sfondo di altri macabri sproloqui del Lord albionico: dapprima Mahomet e Pamira vittime di incubi notturni, poi scaramucce fra hooligan greci e turchi, sfociate in un generale parapiglia, sempre per il possesso di qualche bidone d’acqua. Insomma: uno scempio, che il pubblico ha giustamente riprovato con sonori buh, certo non indirizzati in quel momento all’orchestra e al povero Roberto Abbado, che avevan fatto del loro meglio per portare quella splendida musica alle nostre orecchie.

Costumi di foggia, colori e disegni stravaganti (due capitelli dorici a far da... reggipetto ad una femmina e un maschio durante la ballade di Ismène faranno epoca!) che rivestivano le masse greche e turche come costumi da bagno, con tanto di cuffia nera in testa; per il resto: turchi sul rosso e greci sul grigiazzurro. Luci impiegate in modo piuttosto elementare: colori pacchiani e abuso di effetti velleitari.   

E poi: pannelli mobili, recanti scritte e immagini che vorrebbero ricordarci gli orrori di tutte le guerre, che scendono e salgono sulla scena, ma vengono anche portati in processione attraverso la platea. E a proposito non parliamo di questa ormai trita-ritrita-frullata-e-rifrullata (quanto idiota) abitudine dei registi da strapazzo di spostare l’azione dal palcoscenico alla platea: qui si son visti cortei, passerelle (una proprio disposta davanti all’orchestra, tipica dei più stolti avanspettacoli) e scene di canto peripatetico, con invito (in occasione della marcetta dei greci, nemmeno fossimo a Vienna al suono della Radetzky) a partecipare all’happening per spettatori fatti alzare dalle loro sedie e spediti a rinforzare la folla di hooligan... mamma mia!
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Dimentichiamo questi obbrobri e passiamo alla musica e al canto, che per fortuna hanno almeno in parte riscattato la volgarità della messinscena. Roberto Abbado si è ancora presentato (come già avevamo saputo alla prima) con un tutore (in realtà una specie di custodia per ottavini messa a tracolla per impedire al braccio destro di accostarsi al fianco) e senza bacchetta: ciò non gli ha impedito di guidare da par suo la OSN-RAI che non ha bisogno di presentazioni, quanto a qualità di suono e compattezza in tutte le sezioni. Un’esecuzione più che apprezzabile: per equilibrio (evitati facili fracassi e mai coperte le voci) e appropriatezza di accenti e sfumature.

Da lodare anche il Coro del Ventidio Basso, preparato egregiamente da Giovanni Farina, che si è così pienamente meritato la fiducia accordatagli dal ROF, dopo la defezione dei bolognesi.

Mediamente più che accettabile il fronte canoro; in particolare mi ha impressionato Sergey Romanovsky, un Nèoclés sicuro e squillante, che ha degnamente coronato la sua prestazione con un’apprezzabile Grand Dieu in apertura del terz’atto. Nino Machaidze l’ho trovata piacevolmente migliorata rispetto a prestazioni del passato: evidentemente lo studio deve averle giovato, in particolare nel rendere più morbidi e meno vetrosi gli acuti, così ne è uscita una Pamira davvero convincente.

Il Mahomet di Luca Pisaroni mi aveva invece convinto di più all’ascolto radio di giovedi scorso: da vivo la sua voce è meno penetrante e talvolta anche l’intonazione non mi è parsa bene a fuoco. Comunque si merita per me un’ampia sufficienza.

John Irvin è un onesto Cléomène, che personalmente affiderei ad una voce più... robusta, viceversa – all’ascolto - pare che lui sia il giovane eroe e non il maturo padre di Pamira. Discreto anche Carlo Cigni nei panni del vegliardo Hiéros: tanto più che il regista lo ha fatto cantare quasi sempre in modalità... peripatetica, il che non credo giovi ad un’emissione ottimale dei suoni.

Cecilia Molinari ha fatto onorevolmente la sua parte di Ismène, culminata nella ballade del second’atto. A proposito, questo è uno dei tanti punti controversi del testo rossiniano, quanto a dislocazione temporale: qui si è seguita la partitura originale per orchestra, dove Ismène arriva dopo il duetto Mahomet-Pamira; in altre produzioni (55’12”) si segue invece lo spartito canto-pianoforte, dove Ismène apre l’atto, prima della grande scena ed aria di Pamira e del successivo duetto.

Efficace l’Omar di Jurii Samoilov, onesto l’Adraste di Xabier Anduaga: si tratta di due... prodotti dell’Accademia rossiniana, messisi in luce negli anni scorsi con il training standard del Viaggio.

Bene, alla fine grandi applausi per tutti (veramente il regista mi pare non si sia presentato...) e un’isolatissima contestazione per Abbado. Per me, ad occhi chiusi (!) una piacevole serata. 

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