Ieri sera Le Siège de Corinthe è arrivato alla terza delle quattro recite in programma, in un’Adriatic
Arena per la verità non proprio piena come un uovo...
Della serie: come rovinare una delle opere migliori
del genio pesarese. E l’artefice dell’impresa impossibile risponde al nome di Carlus Padrissa, che ha fatto
esattamente il contrario di ciò che Rossini ha genialmente costruito:
distruggere tutta la poesia e la sontuosità dell’opera, per presentarci
un’accozzaglia di trovate una più becera dell’altra.
A partire dal Konzept
di fondo, che trasporta la ricca e colta Corinto in un imprecisato quanto arido
deserto, dove due branchi di animali assetati si contendono l’acqua (di
centinaia di bottiglioni da dispenser
di ufficio stipati a far da permanente scenografia.
Sullo sfondo, già dall’esecuzione della sinfonia,
versi di Byron che con il soggetto rossiniano (e soprattutto con la musica!)
c’entrano come i cavoli a merenda. A proposito di Byron, il colmo della
proditoria aggressione all’arte di Rossini viene perpetrato nel second’atto,
allorquando la splendida musica di danza (fra l’altro arricchita di una quarta
scena recuperata fra le carte parigine) che deve supportare nientemeno che una
grande festa nuziale, viene addirittura stuprata da ciò che si vede in scena,
sullo sfondo di altri macabri sproloqui del Lord albionico: dapprima Mahomet e
Pamira vittime di incubi notturni, poi scaramucce fra hooligan greci e turchi, sfociate in un generale parapiglia, sempre
per il possesso di qualche bidone d’acqua. Insomma: uno scempio, che il
pubblico ha giustamente riprovato con sonori buh, certo non indirizzati in quel momento all’orchestra e al
povero Roberto Abbado, che avevan fatto del loro meglio per portare quella
splendida musica alle nostre orecchie.
Costumi di foggia, colori e disegni stravaganti (due
capitelli dorici a far da... reggipetto ad una femmina e un maschio durante la ballade di Ismène faranno epoca!) che
rivestivano le masse greche e turche come costumi da bagno, con tanto di cuffia
nera in testa; per il resto: turchi sul rosso e greci sul grigiazzurro. Luci
impiegate in modo piuttosto elementare: colori pacchiani e abuso di effetti
velleitari.
E poi: pannelli mobili, recanti scritte e immagini
che vorrebbero ricordarci gli orrori di tutte le guerre, che scendono e salgono
sulla scena, ma vengono anche portati in processione attraverso la platea. E a
proposito non parliamo di questa ormai trita-ritrita-frullata-e-rifrullata
(quanto idiota) abitudine dei registi da strapazzo di spostare l’azione dal
palcoscenico alla platea: qui si son visti cortei, passerelle (una proprio
disposta davanti all’orchestra, tipica dei più stolti avanspettacoli) e scene
di canto peripatetico, con invito (in occasione della marcetta dei greci,
nemmeno fossimo a Vienna al suono della Radetzky)
a partecipare all’happening per
spettatori fatti alzare dalle loro sedie e spediti a rinforzare la folla di hooligan... mamma mia!
___
Dimentichiamo questi obbrobri e passiamo alla musica
e al canto, che per fortuna hanno almeno in parte riscattato la volgarità della
messinscena. Roberto Abbado si è
ancora presentato (come già avevamo saputo alla prima) con un tutore (in realtà una specie di custodia per ottavini
messa a tracolla per impedire al braccio destro di accostarsi al fianco) e
senza bacchetta: ciò non gli ha impedito di guidare da par suo la OSN-RAI che
non ha bisogno di presentazioni, quanto a qualità di suono e compattezza in
tutte le sezioni. Un’esecuzione più che apprezzabile: per equilibrio (evitati
facili fracassi e mai coperte le voci) e appropriatezza di accenti e sfumature.
Da lodare anche il Coro del Ventidio Basso, preparato egregiamente da Giovanni Farina, che si è così
pienamente meritato la fiducia accordatagli dal ROF, dopo la defezione dei
bolognesi.
Mediamente più che accettabile il fronte canoro; in
particolare mi ha impressionato Sergey
Romanovsky, un Nèoclés sicuro e squillante, che ha degnamente coronato la
sua prestazione con un’apprezzabile Grand
Dieu in apertura del terz’atto. Nino
Machaidze l’ho trovata piacevolmente migliorata rispetto a prestazioni del
passato: evidentemente lo studio deve averle giovato, in particolare nel
rendere più morbidi e meno vetrosi gli acuti, così ne è uscita una Pamira davvero
convincente.
Il Mahomet di Luca
Pisaroni mi aveva invece convinto di più all’ascolto radio di giovedi
scorso: da vivo la sua voce è meno penetrante e talvolta anche l’intonazione
non mi è parsa bene a fuoco. Comunque si merita per me un’ampia sufficienza.
John Irvin è un onesto Cléomène, che personalmente affiderei
ad una voce più... robusta, viceversa – all’ascolto - pare che lui sia il
giovane eroe e non il maturo padre di Pamira. Discreto anche Carlo Cigni nei panni del vegliardo
Hiéros: tanto più che il regista lo ha fatto cantare quasi sempre in
modalità... peripatetica, il che non credo giovi ad un’emissione ottimale dei
suoni.
Cecilia Molinari ha fatto onorevolmente la
sua parte di Ismène, culminata nella ballade
del second’atto. A proposito, questo è uno dei tanti punti controversi del
testo rossiniano, quanto a dislocazione temporale: qui si è seguita la
partitura originale per orchestra, dove Ismène arriva dopo il duetto Mahomet-Pamira; in altre produzioni (55’12”) si segue invece lo spartito
canto-pianoforte, dove Ismène apre l’atto, prima
della grande scena ed aria di Pamira e del successivo duetto.
Efficace l’Omar di Jurii Samoilov, onesto l’Adraste di Xabier Anduaga: si tratta di due... prodotti dell’Accademia
rossiniana, messisi in luce negli anni scorsi con il training standard del Viaggio.
Bene, alla fine grandi applausi per tutti (veramente
il regista mi pare non si sia presentato...) e un’isolatissima contestazione
per Abbado. Per me, ad occhi chiusi (!) una piacevole serata.
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