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18 agosto, 2024

ROF-2024-live: Ermione.

Ho riservato la mia prima presenza al ROF45 a quella che (non solo io) considero l’opera più innovatrice e moderna di Rossini: Ermione.

Il mio interesse era anche solleticato dalla presenza sul podio di Michele Mariotti, che ebbi occasione di vedere ed ascoltare proprio al suo battesimo al ROF, nell’ormai lontano 2010, con Sigismondo (prima ed ultima, al momento, rappresentazione) e con lo Stabat Mater. Da allora il direttore pesarese che, come molti suoi pari, del resto, ha avuto molto dalla sorte (essere figlio del fondatore-sovrintendente del Festival ed essere quindi cresciuto a pane-e-Rossini) di strada ne ha fatta assai ed oggi eccelle non solo in Rossini ma in una vasta area dell’immenso repertorio del teatro musicale.

E dico subito che, a conferma della buona impressione generale lasciatami dall’ascolto radiofonico della prima, anche questa terza recita ha per me meritato un voto ampiamente positivo.

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Ermione (tratto da Tottola dall’Andromaque di Racine, a sua volta liberamente derivata da quella di Euripide) è un soggetto tutto incentrato sulla psicologia (-schizofrenia?) dei quattro protagonisti (tutti, Andromaca esclusa, della generazione successiva a quella dei belligeranti di Troia) e sull’incredibile catena di rapporti conflittual-sentimentali che intercorrono fra gli stessi:

- Oreste (che ha appena vendicato il padre Agamennone, ammazzando sua madre Clitemnestra e l’amante di lei, il cornificatore Egisto) è invaghito della figlia di Menelao e della fedifraga Elena, la spartana Ermione;

- costei è patologicamente innamorata di Pirro (figlio del leggendario Pelide);

- il quale si è trovato in casa, come bottino di guerra, la povera Andromaca (più il figlioletto di lei Astianatte, che Racine e Tottola hanno tutto l’interesse a mantenere in vita, invece che credere alla sua morte per scaravento giù dalle mura troiane, da parte del futuro Odisseo) e se ne innamora all’istante, dimenticando una futile promessa fatta ad Ermione;

- ma Andromaca (unico personaggio con la testa sulle spalle, va subito detto, in mezzo a quei tre scavezzacollo figli/e di papà…) resta inflessibilmente fedele alla memoria del marito Ettore, fatto secco a Troia proprio dal padre del suo attuale spasimante!

Insomma, un inestricabile groviglio di sentimenti: l’infatuazione selvaggia, di Oreste per Ermione, di Ermione per Pirro e di Pirro per Andromaca, tutti amori impossibili e inquinati da cieca gelosia, che inevitabilmente potranno trovare sbocco solo in totale tragedia.      

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Mamma mia, come si vede, un soggetto di per sé fuori dall’ordinario, dal quale uno come il 27enne Rossini, all’apice del furore creativo degli anni napoletani, non poteva non rimanere soggiogato al punto da riservargli un trattamento adeguato, quindi fuori dall’ordinario

A cominciare già dall’Ouverture, che si apre in atmosfera cupa, dolente e poi agitata, presto interrotta dall’insolito ingresso del coro (!) dei deportati troiani; poi seguita da un motivo leggero e spiritoso e dal proverbiale crescendo, che Rossini si auto-impresterà in ben tre Ouverture di opere immediatamente successive (Eduardo, Bianca e Matilde).

L’opera inizia poi con la presentazione dei quattro personaggi principali e delle rispettive menti disturbate. E si capisce quindi come la musica, per seguirne questi psicologici labirinti, ne sia inevitabilmente contagiata, discostandosi dagli stilemi usuali. Al confronto anche le innovazioni dell’ultimo Gluck o di Cherubini sembrano solo dei timidi tentativi.

Dapprima si presenta Andromaca, che trepida per la sorte del figlio, ma contemporaneamente apprende delle profferte di amore da parte di Pirro, disposto per di più ad adottare Astianatte qual figlio ed erede al trono! Ma la sua coscienza le impedisce di tradire la fedeltà alla memoria del consorte, Ettore. Da qui il suo stato di prostrazione.

Ecco poi Ermione, circondata da premurose ancelle in un’atmosfera apparentemente idilliaca. Ma subito rotta dal cruccio che attanaglia la principessa spartana: Pirro la sta tradendo per Andromaca!  

Ed ecco appunto arrivare Pirro, in cerca della troiana. Ermione lo affronta a viso aperto, ma il Re si vanta della sua autorità e della sua decisione, pur con l’animo oppresso dall’incertezza riguardo le intenzioni di Andromaca, che non pare proprio disposta a… dargliela!

Ora tocca ad Oreste entrare in scena ed esporre subito la lancinante contraddizione che ne caratterizza la personalità: il suo amore non corrisposto per Ermione; e l’ingrato compito che lo attende, che ha risvolti per lui esiziali: convincere Pirro a dimenticare Andromaca, giustiziarne il figlio e quindi inducendolo a tornare da Ermione, col che lui perderebbe per sempre la sua amata!

Inizia adesso l’azione vera e propria. Pirro convoca Oreste e i greci per ascoltarne le ragioni, presenti anche Ermione e Andromaca. Dopo che Oreste lo ha invitato a liberarsi dei troiani, in particolare di Astianatte, Pirro, con tono arrogante, dichiara apertamente le sue determinazioni: impalmare Andromaca e porre in futuro Astianatte sul trono, ignorando bellamente il mortale rischio che ciò farebbe correre alla Grecia.

Ermione si dispera, mentre Oreste, ovviamente, spera (mors tua… etc,) Ma Andromaca ha fatto sapere a Pirro di non accettare le sue profferte. Al che il Re non esita a ricattarla, ipocritamente offrendo, per ingelosirla, la sua mano ad Ermione, e contemporaneamente gettando Astianatte, perché venga giustiziato, nelle mani di Oreste, che quindi raggiungerebbe il fine politico, ma a spese di quello sentimentale. Un mirabile concertato generale ci propone le quattro diverse attitudini dei protagonisti rispetto a questa drammatica quanto insostenibile situazione.   

Andromaca allora non vede altra via d’uscita che quella - poi scopiazzata in più di un melodramma - di fingere di promettersi a Pirro per averne in cambio il giuramento di salvar la vita al figlio, per poi suicidarsi prima di concedersi a quell’invasato. È in quest’atmosfera carica di tensione e incertezza che si chiude – con un finale concertato -  il primo atto.

Il secondo si apre con Pirro che esulta, informato della decisione di Andromaca di accettare le sue profferte. E proprio i due sono protagonisti di un incontro dove la gioia del Re, che finalmente vede coronarsi il suo sogno, si scontra con il cruccio di Andromaca, ormai preparata all’estremo sacrificio pur di salvare il figlioletto.

Dopo un fugace incontro-scontro di Ermione con la povera Andromaca, oggetto del disprezzo della prima, che ne ignora il tremendo stato di necessità, eccoci arrivati alla gran scena di Ermione. Davvero il compendio di tutte le straordinarie novità introdotte da Rossini: si va dalla vana speranza di un ripensamento di Pirro, alla constatazione del crollo di ogni prospettiva futura, al risentimento contro l’uomo che l’ha tradita e la donna che è stata causa del tradimento! 

Ora ci si avvicina allo scioglimento del dramma. E ci pensa Ermione ad… accontentare tutti: consigliata dalla fida Cleone, che le suggerisce di usare la sua influenza su Oreste - uno che per lei sarebbe disposto a tutto, per amore e per… esperienza pratica - finge di accettare le smanie di cui costui la fa bersaglio, lo convince a ripetere quel gesto di cui lui è ormai specialista universalmente riconosciuto: ammazzare il fedifrago Pirro! Omicidio che Oreste compie, non senza schizofreniche dissociazioni psichiche. 

Ma la stessa Ermione, in una seconda scena di altissima drammaticità, pentitasi subito dell’ordine impartito ma ormai non più revocabile, altrettanto schizofrenicamente maledice il sicario, al quale non resta che lasciarsi trascinare via dai compagni di missione.

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Beh, se ancor oggi noi scafati spettatori del terzo millennio, passati attraverso mille esperienze e rivoluzioni (e vessazioni?) restiamo sconvolti ed allibiti di fronte a simile esplosione di creatività musicale, possiamo capire perché per quasi 150 anni nessuno più si curò di tale autentico tesoro nascosto, meritoriamente ritrovato qui da noi negli anni’70 e poi definitivamente riportato alla ribalta dalla Fondazione Rossini e dal ROF.
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Johannes Erath ci propone una scena (di Heike Scheele) praticamente fissa, un ambiente incastonato in una cornice di neon (luci di Fabio Antoci) e abitato ora da personaggi della corte di Pirro, in abbigliamento moderno e vistoso (costumi di Jorge Jara) e dediti a libagioni e gozzoviglie, ora dal coro (il popolo dell’Epiro) rigorosamente in anonimi abiti neri. La passerella che circonda l’orchestra è parsimoniosamente impiegata per accogliere, portandoli proprio alla ribalta, i più drammatici incontri fra le coppie (Ermione-Pirro o Ermione-Oreste).

Sullo fondo della scena e ai due lati appaiono saltuariamente immagini marine (video di Bibi Abel) oppure i palchi del Teatro Rossini. Fin troppo invadente l’impiego di un mimo ad impersonare l’immanente presenza di Cupido, le cui frecce (da guerre stellari) sortiscono peraltro (come vuole il soggetto di Tottola) solo esiti nefasti. Eccessivamente duro mi è parso il trattamento riservato al povero Astianatte, perennemente bistrattato da tutti (mamma esclusa, per fortuna…)

Per il resto, la gestione dei personaggi è assai curata, mettendo nel dovuto risalto tutti i lati deteriori delle rispettive psiche.

In sintesi, una proposta intelligente e di buon gusto, ma soprattutto aderente allo spirito del testo.

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Torno ora al piano sonoro, ribadendo la meticolosa attenzione riservata da Mariotti ad ogni minimo dettaglio della partitura, testimoniata da passaggi in punta di cesello, affidati a strumenti solisti, a improvvisi strappi e scoppi orchestrali per sottolineare ogni sfumatura delle menti disturbate dei protagonisti. E una maniacale attenzione al canto, dei singoli e del coro, sempre guidati con millimetrica precisione. Più che meritata la lunga ovazione finale per il Direttore di casa.

Ma come non lodare il coro del Ventidio Basso e il suo curatore Giovanni Farina, alle prese con compito assai gravoso e fondamentale nell’economia dello spettacolo; compito assolto con il massimo dei voti per compattezza, potenza e omogeneità di suono.

Anastasia Bartoli è stata ancora una volta la trionfatrice della serata: voce senza sbavature, svettante nella parte alta della tessitura e davvero imponente negli sfoghi di passione e odio di questo personaggio: delirio per lei dopo la grande scena, e meritate ovazioni all’uscita finale.

Enea Scala non mi aveva convinto alla prima ascoltata per radio: acuti spesso ingolati e con vibrato piuttosto sgradevole. Ieri devo dire che si è – in buona misura – riscattato, anche se mi limiterò a dargli una piena sufficienza, non di più. Il pubblico per la verità è stato assai più indulgente, riservandogli un’accoglienza calorosa.

Assai più calorosa ancora quella ricevuta da Florez, che sa supplire con mestiere ed esperienza alle purtroppo naturali conseguenze… dell’età, ecco. In ogni caso, il suo è un Oreste forse meno svalvolato di quanto Tottola e Rossini non lo dipingano in versi e note, ma il suo carisma resta tuttora intatto.

Chi dalla ripresa radiofonica aveva tratto vantaggi forse eccessivi è stata l’Andromaca di Viktoria Yarovaya, che dal vivo ni è parsa meno autorevole, in specie bella parte bassa della tessitura, non proprio impeccabile.

Hanno confermato invece le buone impressioni sia Antonio Mandrillo (Pilade) che Michael Mofidian (Fenicio): voci ben impostate su tutta la gamma, che gli hanno meritato anche l’applauso dopo il loro siparietto nel finale. Oneste le prestazioni di Martiniana Antonie (Cleone), Paola Leguizamòn (Cefisa) e Tianxuefei Sun (Attalo).

Davvero una bella serata di musica, che il foltissimo pubblico della Vitrifrigo Arena ha accolto con grande entusiasmo.


08 agosto, 2024

Il ROF-2024 alla radio.

Radio3, fedele alla tradizione, irradia le prime del Festival, che quest’anno sono quattro e non tre, in omaggio allo status di Capitale italiana della cultura di cui gode Pesaro per il 2024.

Rompere il ghiaccio, nel rinnovato Auditorium Scavolini, è toccato a Bianca&Falliero, alla quarta presenza al ROF (dopo 1986-89 e 2005). A guidare dal podio la OSN-RAI era Roberto Abbado; Giovanni Farina ha diretto il Coro del Teatro Ventidio Basso.

Nei quattro ruoli principali figurano due (ormai) vecchie glorie del ROF: le voci acute di Bianca di Jessica Pratt e di Contareno (suo padre!) di Dmitry Korchak; affiancate da quelle più gravi di due promesse già battezzate al ROF in anni recenti: il(la) Falliero di Aya Wakizono e il Capellio di Giorgi Manoshvili.

Premesso che l’ascolto tecnologico ha sempre i suoi limiti, mi sento di giudicare positivamente la prova di Abbado, almeno sul lato delle agogiche. Bene anche il coro di Farina.

Quanto alle voci, la Pratt ha subito approfittato delle opportunità di coloratura offerte da Rossini per sciorinare i suoi proverbiali sovracuti (DO#, RE e persino MI) chiudendo il rondò finale con uno stentoreo e lunghissimo MIb. La cantante aussie ormai di casa qui da noi mi è parsa anche la voce più centrata sul personaggio.

Non così le altre tre voci. Korchak più che discreto, ma forse questa parte di bari-tenore non gli è proprio congeniale (ascoltare il Merritt del 1986…) così lui se l’è cavata sopperendo con il mestiere. Per la Wakizono stesso discorso: voce assai bella ed espressiva, ma non certo di contralto (ascoltare la Horne del 1986 ma anche la Barcellona 2005…) anzi di mezzo spinto (DO acuti come nulla fosse) che soprattutto nei duetti con Pratt si faticava a distinguere dal soprano. Fin troppo grave e cavernosa invece la voce di Manoshvili. Doveroso segnalare anche la Costanza di Carmen Buendìa, il Doge di Nicolò Donini, e poi Claudio Zazzaro e Dangelo Dìaz.

Accoglienza per tutti più che calorosa, anche se… ristretta. Forse il pubblico era esausto per l’autentica maratona durata dalle 20 fin quasi a mezzanotte! In effetti l’opera mostra tutte le sue contrastanti caratteristiche: quelle di una summa di tutto lo scibile del teatro musicale messa insieme da Rossini a partire dalla Camerata dei Bardi per arrivare ai giorni suoi, Beethoven incluso! Lunghissime scene, duetti, terzetti, quartetti e concertati con coro di splendida ma ipertrofica fattura, alternate a recitativi accompagnati in declamato e pure a recitativi secchi (ieri proprio nulla è stato tagliato!)


Insomma, ci si spiega ancor oggi la reazione ammirata del pretenzioso pubblico della Scala del 1819, ma anche la contemporanea stroncatura degli spocchiosi critici di allora.   
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2. L’equivoco stravagante.

Quarta comparsa al ROF (dopo 2002-08-19) anche per La terza opera di Rossini (seconda ad essere rappresentata) che ha fatto riaprire i battenti al glorioso Teatro intitolato al Maestro e rimesso in sesto dopo il terremoto del 2022 che ne aveva compromesso la sicurezza.

Opera che – causa bando dai teatri per divieti di censori-bacchettoni - ha generosamente imprestato sue parti a parecchie sorelle arrivate dopo di lei; citerò solo tre macroscopici esempi: il Coro introduttivo dell’Atto II, che verrà reimpiegato in Ciro in Babilonia e poi in Tancredi; il quintetto dell’atto II (Speme soave) ripreso nel corrispondente Spera se vuoi (Pietra di paragone, a 21’55”); e l’aria finale di Ernestina (qui a 43”) passata ancora nella Pietra di paragone a Clarice (qui a 1’28”).

Michele Spotti (al suo terzo impegno importante al Festival: Barbiere streaming 2020 e Bruschino 2021) sta facendo grandi progressi e ha diretto da par suo la Filarmonica Rossini, dando un taglio davvero mozartiano a questa partitura del todeschino, che al Teofilo si ispirò assai nei suoi primi anni di carriera. Mirca Rosciani ha guidato il Coro del Teatro della Fortuna ad una prestazione più che apprezzabile.

Oltre a orchestra e coro, anche il cast è totalmente rinnovato rispetto alla stessa produzione del 2019 (allora ospitata nella smisurata Vitrifrigo Arena). Artisti quasi tutti (Alaimo escluso) di recente frequentazione dell’Accademia. La debuttante nel cartellone principale del ROF, Maria Barakova, veste i panni della protagonista Ernestina, alla quale presta in modo convincente (cavatina, duetti e rondò finale) la sua bella e calda voce di mezzosoprano lirico. 

I due buffi sono il navigato trascinatore Nicola Alaimo (Gamberotto) e il quasi esordiente (dopo la Cambiale del 2018) Carles Pachòn (Buralicchio): entrambi degni di elogio nelle rispettive cavatine/arie ma anche nel duetto (con gag) del primo atto e nei concertati.

Pietro Adaìni (già nel Turco del 2018 e ne La Gazzetta del 2022) impersona il romantico Ermanno e lo fa con buon profitto: voce squillante e acuti (incluso un DO#) senza sbavature.     

I suoi due sodali per la conquista della cinica Ernestina (Rosalia e Frontino) sono Patricia Calvache (praticamente all’esordio) e Matteo Macchioni, già presente nella Gazza del 2015 e in Adina del 2018. Anche per loro (cui Rossini riserva le classiche arie da sorbetto) note più che positive.

Da ultimo sottolineo ancora il perfetto affiatamento di tutti nei pezzi d’insieme: duetti, quartetto, quintetto e finali d’atto.

Insomma, almeno all’ascolto radio, una riproposta più che positiva.

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3. Ermione.

Ermione rappresentò per Rossini un (fugace) momento di rottura dei collaudati schemi (napoletani) dell’opera seria, tanto che fu categoricamente bocciata dal pubblico e messa in naftalina dallo stesso compositore, per essere poi dimenticata lì per decenni. Questa fu – ante-litteram – un’operazione di tipo breakthrough (come usano dire i moderni barbari…) che solo 30 anni dopo troverà il massimo epigono in tale Wagner!

Se oggi ne possiamo apprezzare tutta la straordinaria modernità, è soprattutto grazie al recupero fattone dalla Fondazione Rossini e dal ROF, che lo mette in scena oggi per la terza volta, dopo 1987 e 2008.

E poi - ça va sans dire – il merito va anche riconosciuto a Direttori come Michele Mariotti, che la concerta qui per la prima volta proprio a casa sua, sapendone esaltare tutte le straordinarie qualità e la grande varietà di accenti, dal dolente, al lirico, alle esplosioni degli animi esacerbati. In ciò assecondato alla grande dalla OSN-RAI, davvero senza una sola sbavatura, e dal Coro del Teatro Ventidio Basso di Giovanni Farina.

Ma anche il cast ovviamente conta, e quello messo in campo in questa produzione ha avuto la sua punta di diamante nella protagonista, la sempre più convincente Anastasia Bartoli, già segnalatasi lo scorso anno come Cristina: davvero torreggiante, soprattutto nelle due grandi scene del second’atto.

Molto bene anche l’appassionata Andromaca di Viktoria Yarovaya, anche lei ormai veterana del ROF (esordio nel Demetrio del lontano 2010). 

Praticamente scontato il successo per il Direttore Artistico del Festival, tale J.D.F. (Oreste) ormai ultra-decano del ROF (esordio 1996!) che ha sciorinato il meglio del suo bagaglio virtuosistico. 

Maluccio, ahilui e ahinoi, il Pirro di Enea Scala. Al quale credo proprio manchi il phisique-du-role per questo personaggio. Senza scomodare il sontuoso Merritt, basterà aver presenti un Kunde o uno Spyres per fare confronti impietosi. Ma poi, a parte la vocalità naturale, ier sera mi è parso anche fuori forma, con difficoltà di intonazione, acuti gutturali e spesso ghermiti dal semitono sottostante, oltre ai gravi quasi inudibili. Peccato davvero!

Buone notizie invece per Antonio Mandrillo (Pilade) che ieri è stato, per meriti sul campo, il secondo e non il terzo tenore del cast.

Più che dignitose le prove di Michael Mofidian (Fenicio), Martiniana Antonie (Cleone), Paola Leguizamòn (Cefisa) e Tianxuefei Sun (Attalo).

Comunque accoglienza calorosissima per tutti, con punte per Mariotti, Florez e Bartoli.

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4. Il barbiere di Siviglia.

Da quest’anno il Barbiere diventa recordman in solitaria in fatto di presenze al ROF (7, senza contare lo streaming dell’autunno 2020 in epoca Covid, contro le 6 della Scala). Consideriamolo un doveroso tributo a quella che è indiscutibilmente ancora l’opera più nota e gettonata del grande Gioachino.

E per omaggiarla se ne omaggiano quest’anno alcuni iconici interpreti. A partire da uno che calcò le scene del ROF, vestendo i panni di Assur, nel remoto 1992 (!!!) Michele Pertusi. Il quale ha cantato come DonBasilio nelle ultime apparizioni. E anche ieri la sua Calunnia ha mandato il pubblico in visibilio!

Un altro navigatissimo del ROF (Siége del 2000 dopo presenza in una kermesse del 1996) è Carlo Lepore, che impersona, come nello streaming del 2020, il mangiapane-a-tradimento Don Bartolo. Anche la sua è stata un’interpretazione sontuosa, che ha avuto la punta di diamante nell’aria del primo atto, caratterizzata da quella incredibile raffica di scioglilingua che lascia sempre di stucco. 

Ma a proposito di veterani, che dire di Patrizia Biccirè, che fu Giulia ne La scala di seta del 1992! E che già fece Berta nel 1997! E anche ieri ha raccolto ovazioni dopo a sua arietta del vecchiotto

Dopo i decani, ecco i promettenti giovani della nuova leva di cantanti rossiniani. Il protagonista è Andrzej Filonkzyk, in terminologia goliardica un fagiolo, essendo alla seconda apparizione al ROF, dopo il Raimbaud (Ory) del 2022. Il suo è un accattivante Figaro: voce potente, buon portamento, subito esibiti nella celebre cavatina d’esordio. Certo, l’esperienza gli gioverà per migliorare ancora. 

Come lui, viene dall’Ory di due anni fa anche la Rosina di Maria Kataeva. E anche per lei vale lo stesso discorso: una prova superata con voto più che discreto, voce dal timbro morbido, bene impostata su tutta l’ampia tessitura mezzosopranile, oltre a buona sensibilità interpretativa.   

Jack Swanson (già Florville nel Bruschino del 2021) è oggi il lezioso Conte/Lindoro, cui ha prestato la sua bella voce chiara e dagli acuti squillanti. Anche per lui il futuro si prospetta roseo, a patto di continuare a... studiare.

Alla terza uscita (dopo 2018 e streaming 2020) come Fiorello/Ufficiale è William Corrò, che ha dato il suo valido contributo al buon successo della serata.

Successo propiziato dall’energica direzione – tempi a volte persin troppo parossistici - di Lorenzo Passerini, alla guida della solida Sinfonica Rossini, ben coadiuvati dal Coro del Teatro Ventidio Basso di Giovanni Farina.   

Insomma, un Barbiere più che positivo, un’esibizione che il pubblico ha giustamente accolto con grandissimo calore.

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Ecco, chiuso il ciclo radiofonico delle prime, ora non mi resta che assistere dal vivo… dopo Ferragosto.

Ma intanto, Ernesto Palacio ha già annunciato il cartellone del 2025:

·       Zelmira (Sagripanti/Bieito)

·       Italiana (Korchak/Cucchi)

·       Turco (Ceretta/Livermore)

·       Messa per Rossini
 

21 marzo, 2024

Guillaume Tell è approdato alla Scala - C.Muti in galera!

Scongiurato (per ora) lo sciopero delle maestranze del teatro, ecco approdato al Piermarini il Tell originale.

Rispetto all’edizione critica della Fondazione Rossini (Bartlet, 1992) Mariotti ha omesso le due più consistenti riaperture di tagli: il Pas de deux del primo atto e l’aria di Jemmy del terzo. Due brani che furono eseguiti nella prima al ROF del 1995, mentre nella ripresa pesarese del 2013 lo stesso Mariotti aveva omesso il primo ma eseguito il secondo. Altri piccoli tagli riguardano ad esempio i due interventi di Melcthal e quello di Tell nella Scena VI del primo atto, l’intervento di un cacciatore all’inizio del second’atto, il recitativo Arnold-Mathilde successivo al loro duetto (Atto II), una parte del Pas de Soldats (atto terzo) e l’invocazione degli austriaci a Tell, nella scena della tempesta (VII dell’atto finale, peraltro riportata sul libretto pubblicato come non tagliata…). 

Esecuzione musicale di livello assoluto. Grazie al Kapellmeister Mariotti, che il pubblico ha accolto come vero trionfatore della serata. Un vero peccato i tagli: valeva la pena iniziare alle 18:00 per ascoltare anche quest’altra musica sublime, così magistralmente interpretata. Al prossimo ROF il profeta-in-patria dirigerà Ermione, un appuntamento da mettere già in agenda…

Delle voci è da incorniciare quella di Dmitry Korchak: non solo, ma ovviamente anche per la scorpacciata di DO acuti (l’ultimo aux armes, scritto da Rossini un’ottava sotto, è proprio da Manrico!) che il tenore russo ci ha propinato con irrisoria facilità. Consensi unanimi e calorosi (vale sempre per lui il consiglio di non farsi distrarre dalle ambizioni da podio…)

Michele Pertusi cantò nel 1995 (quasi 30 anni fa!) questa edizione dell’opera al ROF: beh, l’età ha portato esperienza, imponenza e autorevolezza, che ampiamente compensano l’inevitabile logorio del mezzo vocale. Anche per lui un meritato trionfo.

Salomè Jicia ha una bella voce, che negli acuti spinti va al limite dell’urlo, ma in complesso è stata una Mathilde più che positiva, anche sul piano scenico.

Catherine Trottmann mi ha felicemente sorpreso: un vero peccato, a maggior ragione, averla (e averci) privata della bellissima (e lunga!) aria di Jemmy prima del tiro-alla-mela.

Tutti gli altri interpreti (alcuni sono navigati rossiniani) si sono bene (o benissimo) comportati, a partire da Dave Monaco (il pescatore che deve rompere il ghiaccio con qualche DO acuto non disprezzabile). E poi l’efficace Edwige di Géraldine Chauvet, il duro e sprezzante Gesler di Luca Tittoto, già veterano delle recite del 2013 al ROF e poi a Bologna. Evgeny Stavinsky ha dato voce ad un apprezzabile Melcthal, così come Nahuel Di Pierro è stato un più che discreto Walter. Dei restanti tre, Brayan Ávila Martinez (Rodolphe) mi è parso di voce poco penetrante, Paul Grant è stato un onesto Leuthold e l‘accademico Huanhong Li ha svolto diligentemente il suo compitino come Cacciatore.
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Che dire della regìa della figlia del Maeschtre? Peste-e-corna è ancora poco!

Intanto: butta nel cesso tutto il lancinante contrasto fra la vita di un popolo in pace con se stesso e in piena armonia con la natura, ignaro di essere schiavo di una potenza straniera… e la realtà dello stato di illibertà nel quale, appunto, non si accorge di vivere, a differenza dei pochi (Tell, Melcthal) che soffrono per tale stato di illibertà.

Invece la Muti, mandando in vacca tutta l’evocazione panica della Natura, cosa ci mostra (scene di Alessandro Camera, costumi di Ursula Patzak e luci di Vincent Longuemare)? Nibelheim (!!!)

Ispirandosi esplicitamente a Metropolis di Fritz Lang (1927) la Muti cucina un minestrone in cui il tema (unico e perfettamente delineato nel soggetto schilleriano tradotto in libretto da de Jouy e Bis) della lotta di liberazione nazionale contro l’occupante straniero (tema tipicamente romantico e pre-risorgimentale) viene indebitamente mescolato con quello (moderno e tuttora attuale) dello sfruttamento capitalistico di masse proletarie. Due temi che non possono stare insieme, come ci insegna la Storia, che ci dice che le lotte dell’800 di liberazione nazionale da gioghi stranieri (di cui la medievale vicenda del Tell è una remota ascendenza) non ebbero per protagonista le classi proletarie, ma la borghesia capitalistica alleata con sovrani costituzionali! (In Italia, il quartetto Vittorio Emanuele II, Camillo Cavour, Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi. Operai, proletari?)  

Nel 2013 a Pesaro Graham Vick aveva scelto di proporci il Tell proprio nello scenario della lotta di classe: un’idea che personalmente ho stigmatizzato, ma almeno aveva il pregio di essere presentata con grande coerenza e non faceva a pugni con la presenza immanente della Natura, tanto cara – per restare a questa produzione – al Concertatore, e che qui invece si perde irrimediabilmente.

Basterebbe tutto ciò a liquidare questa proposta come fallimentare. Ma poi ci sono, a dimostrazione della desolante mancanza di idee precise della regista, le mille stupide trovate, disseminate a piene mani lungo le 4 ore (nette) dello spettacolo: gli incappucciati del KKK, le tre spose felici quasi stuprate dai mariti nella prima notte di nozze e poi (passo a sei) bistrattate dagli occupanti; il povero Melcthal che nel second’atto viene ripresentato appeso ad una croce e attorniato dalle tre spose ormai usucapite dagli occupanti; un enorme scheletro d’albero (dal quale Gesler dovrebbe cogliere la mela!); le coreografie (Silvia Giordano) che avrebbero indotto gli amiconi del Jockey Club parigino a far dimettere il soprintendente dell’Académie Royale de Musique! Il tutto culminato nella scena finale con generale smutandamento delle masse proletarie!   

Insomma, raramente si è assistito ad una simile, schizofrenica dissociazione fra musica e immagini. Quindi, molto categoricamente: pollice verso!!!

16 marzo, 2024

Il Tell parigino approda finalmente alla Scala

Per la prima volta nella storia (!) la Scala ospiterà il rossiniano Guillaume Tell nella versione originale parigina, quella in lingua francese. A partire dal 20 marzo, visto che è rientrata la minaccia di sciopero delle maestranze, indetto proprio per la prima… minaccia che – ubi maior minor cessat - ora si è trasferita su La Rondine del 4 aprile!     

Quanto ai contenuti la Scala impiega la più recente edizione critica dell’opera, quella che M.Elizabeth C. Bartlet approntò nel 1992 per la Fondazione Rossini, mettendo ordine in quel mare-magnum di musica prodotta dal Gioachino per il Tell e nel ginepraio di informazioni relative al tormentatissimo iter della prima messinscena dell’opera in quel lunedi 3 agosto 1829. Fra i mille dettagli che magari interessano solo i musicologi, ci sono per lo meno due importanti aspetti che toccano contenuti riconoscibili anche al semplice melomane.

Si tratta di due importanti riaperture di tagli operati da Rossini già prima dell’esordio parigino (brani quindi esclusi dalle edizioni a stampa circolate da allora) giustificati principalmente dalla necessità di ridurre l’eccessiva durata dello spettacolo, che avrebbe impedito ai molti spettatori arrivati da fuori Parigi di prendere i treni che li riportavano alle loro case (?!) Così Rossini espunse il Pas de deux del primo atto (fra il Pas de six e il Pas d’archers) e l’aria di Jemmy del terz’atto (Ah que ton âme se rassure) subito prima della scena-madre del tiro-alla-mela.

Orbene, l’edizione critica della Bartlet fu impiegata per la prima volta al Rossini Opera Festival nel 1995, dove furono eseguiti sia il Pas de deux che l’aria di Jemmy; mentre nella successiva riproposta del 2013 il Pas de deux fu nuovamente ri-tagliato (!) Quindi vedremo cosa succederà qui.
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Lo spettacolo sarà allestito da Chiara Muti, che riceve così il testimone di un’ideale staffetta da papà Maeschtre, che diresse qui al Piermarini l’ultima apparizione del Tell (in versione italiana, peraltro) nell’ormai lontano SantAmbrogio del 1988, quando lei era ancora quindicenne.

Sul podio salirà Michele Mariotti, pesarese cresciuto (prima di inoltrarsi in… mare aperto) a pane-e-rossini, che diresse per la (sua) prima volta l’opera proprio nel 2013 al ROF (regìa, allora abbastanza contestata, del compianto Graham Vick). 

Oltre al Direttore, dei 12 interpreti ben 7 sono voci apparse negli anni al ROF, come qui sotto sintetizzato:

Michele Pertusi (Tell)

1992 Semiramide (Assur)
1993 Maometto II (Maometto)
1994 Semiramide (Assur)
1995 Guillaume Tell (Tell)
1997 Moïse et Pharaon (Mosè) - Petite Messe Solennelle
1999 Il viaggio a Reims (Lord Sidney) - Petite Messe Solennelle
2000 Le siège de Corinthe (Mahomet)
2006 Torvaldo e Dorliska (Duca d’Ordow)
2007 La gazza ladra (Gottardo) - Petite Messe Solennelle
2008 Maometto II (Maometto)
2018 Il barbiere di Siviglia (Basilio)

Dmitry Korchak (Arnold)
2006 Stabat Mater
2007 La gazza ladra (Giannetto)
2008 L’equivoco stravagante (Ermanno)
2011 Mosè in Egitto (Osiride)
2013 La donna del lago (Giacomo V)
2014 Armida (Gernando, Carlo) – Petite Messe Solennelle
2017 Torvaldo e Dorliska (Torvaldo) – Stabat Mater
2020 La cambiale di matrimonio (Direzione e concertazione)
2022 Otello (Rodrigo)
2023 Petite messe solennelle

Salome Jicia (Mathilde)

2015 Il viaggio a Reims – Accademia Rossiniana (Contessa di Folleville, Modestina)

2016 La donna del lago (Elena)

2017 Torvaldo e Dorliska (Dorliska) - Stabat Mater

2019 Semiramide (Semiramide)

2021 Elisabetta regina d’Inghilterra (Matilde)


Nahuel Di Pierro (Walther)

2013 Semiramide (Assur)

2022 Le Comte Ory (Le Gouverneur)


Luca Tittoto (Gesler)

2013 Guillaume Tell (Gesler)


Evgeny Stavinsky (Melchtal)

2022 Otello (Elmiro)

Dave Monaco (Ruodi)
2022 Il viaggio a Reims – Accademia Rossiniana (Conte di Libenskof, Zefirino/Gelsomino)
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Insomma, un Kapellmeister e un cast che con Rossini hanno una certa dimestichezza, il che fa ben sperare.  

24 agosto, 2023

ROF-44 in piazza – Petite Messe Solennelle

Confesso che l’idea di recarmi una quarta volta in pochi giorni alla decentrata quanto cacofonica (applico all’architettura alle vongole una categoria della musica…) Vitrifrigo Arena (arrivandoci e ripartendoci in auto da Rimini) senza invece fare almeno una volta quattro passi per la bella Pesaro (arrivandoci comodamente in treno) è stata la molla principale che mi ha convinto a rinunciare alla presenza dal vivo per la PMS e a godermi, oltretutto a-gratis (limitazioni incluse, ovviamente…) lo spettacolo dalla Piazza del Popolo, dove da anni viene regolarmente diffuso in streaming il concerto che chiude il Festival. Almeno 5-600 le persone che hanno seguito così l’evento.

Un paio di osservazioni, diciamo così, tecniche, sull'esecuzione: la prima riguarda il famoso Prélude Religieux che, dopo due esecuzioni nella versione spuria (quella orchestrata dal compianto Alberto Zedda) è tornato – opportunamente, direi proprio - all’originale nel solo organo, magistralmente suonato da Nicola Lamon. (Qui un mio post del 2014 sull’argomento.) L’altra riguarda l’associazione dei solisti alle parti cantate dal coro: Rossini l’aveva prevista in alcuni numeri, forse perché il coro delle prime esecuzioni era davvero ridotto all’osso; qui al ROF, come sempre, anche ieri i solisti non si sono aggregati.

Ovviamente (va sempre ripetuto) l’ascolto tecnologico non permette di formulare giudizi compiuti sui suoni, ma qualcosa si può comunque osservare, ad esempio le agogiche tenute dal Direttore. E qui devo dire che il profeta-in-patria Michele Mariotti, che tornava al ROF dopo 4 anni (Semiramide 2019) e debuttava nella PMS non mi ha del tutto convinto: avendo tenuto tempi (per me) troppo sostenuti e slentati, come del resto testimoniano i 90’ netti di durata dell’esecuzione (se confrontati ad esempio con i 78’ di questo impeccabile Chailly).    

Sui suoi standard di eccellenza l’OSN-RAI, che invece suonava per la seconda volta (al ROF, s’intende) la Messa, avendola già eseguita nella precedente apparizione del 2018. 

Il Coro del Ventidio Basso diretto da Giovanni Farina era al primo approccio di quest’opera, dopo aver cantato di recente in due Stabat Mater (2017-21) e non ha tradito le attese. Invero trascinanti, in particolare, i monumentali passaggi fugati del Cum Sancto Spiritus e del Credo (l’Allegro cristiano!) dove finalmente Mariotti ha allentato un po’ le briglie…

Tutti da elogiare i solisti, a partire da Vasilisa Berzhanskaya, di ritorno al ROF dopo due anni: nel 2021 aveva trionfato come Sinaide nel Moise e a seguire aveva cantato lo Stabat Mater nell’edizione in forma scenica diretta da Bignamini. Davvero rimarchevole la sua prestazione, culminata nell’accorata implorazione dell’Agnus Dei.

Bene anche Rosa Feola, debuttante al ROF, che ha illustrato con calore il Crocifixus e l’O Salutaris. Le due si sono anche distinte insieme nel Qui Tollis.

Dmitry Korchak faceva parte del quartetto protagonista della penultima apparizione della PMS, nel 2014, sotto la direzione di Zedda. Efficace, stentoreo e cesellato il suo Domine deus.

Giorgi Manoshvili era al suo primo impegno importante al ROF. Più che buono il suo Quoniam, per profondità e portamento. Voce potente, ma magari qualche decibel in più non guasterebbe, proprio sulle note più… basse.

Grandi applausi per tutti e conclusione in… gloria. 
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Bene, archiviato anche il 44, ci si prepara al 45, che dovrà essere proprio speciale, essendo naturalmente la colonna portante dell’evento Pesaro: capitale italiana della cultura 2024… E l’annuncio divulgato già la sera dell’11 lo conferma, almeno sotto l’aspetto quantitativo: 4 titoli (e non 3 come uso ormai consolidato) e cioè Ermione (terza produzione, dopo 1987 e 2008); Bianca&Falliero (quarta apparizione, dopo 1986, 1989 e 2005); Barbiere di Siviglia (diventerà recordman di apparizioni, 7, dopo 1992, 1997, 2005, 2011©, 2014 e 2018); e infine L’Equivoco stravagante (quarta presenza dopo 2002, 2008 e 2019).

Uno sforzo davvero notevole, cui si aggiungerà la chiusura del Festival con Il Viaggio a Reims che celebrerà i 40 anni da quella produzione del 1984 entrata nella storia grazie alla stratosferica coppia Abbado-Ronconi.

Ora non resta da fare che un’implorazione… no, che dico, un’intimazione ai politici locali (e non):

riportate il Festival in città, cazzo!