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27 ottobre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°5


Altro simpatico ritorno in Auditorium (ieri peraltro assai poco frequentato): è quello di Wayne Marshall (e poi dicono che a Malta non vogliono gente di colore...) che ci presenta un programma fluvial-marino snodantesi fra ‘800 e ‘900, ma sempre saldamente in acque territoriali tonali amiche.

Subito una considerazione che si applica a tutti e tre i brani in programma: Marshall ha tenuto tempi non stretti, ma strettissimi, trasformando i fiumi in rapide e mandando i mari in burrasca! Ma - dato che l’Orchestra non è... annegata - il risultato deve considerarsi più che accettabile.  
  
Si parte quindi con Vltava, il secondo dei sei poemi sinfonici che Smetana dedicò alla sua patria (ciclo Má vlast). La Moldava è in effetti il fiume simbolo della Boemia, che attraversa da sud-ovest a nord-est, sfociando nella più piccola Elbe poco sopra Praga. In poco più di 150 Km in linea d’aria (fra sorgente e foce) compie un percorso di ben 430 Km, il che rende bene l’idea della sua importanza per quei territori.

Seguiamo un’esecuzione patriottica della Filarmonica ceca diretta da Jiri Belohlavek: dopo che flauti e clarinetti (Allegro commodo non agitato, 6/8) hanno evocato le due sorgenti del fiume, ecco negli archi (1’31”) il famoso tema principale in MI minore (che viene dall’Italia e compare anche nell’inno nazionale d’Israele) che poi (3’15”) ci porta in DO e FA maggiore attraverso una caccia nei boschi, poi (4’13”, L’istesso tempo, ma moderato, 2/4, SOL maggiore) ad una festa di nozze di contadini; quindi, modulando a LAb maggiore (5’48”) ad una danza notturna di ninfe, in 4/4; dopo un passaggio in MI maggiore, a 8’26” ritorna in MI minore, 6/8, il tema principale del fiume, che poi (9’15”) si getta - con diverse modulazioni di tonalità - nei gorghi e nelle rapide di SanGiovanni; riecco (10’29”, Più moto) la Moldava nel poderoso procedere delle acque (ritorno del tema principale in MI maggiore) e poi si sale su fino a passare (10’57”) ai piedi del mitico castello di Vyšehrad, che riconosciamo musicalmente dalla comparsa del suo tema, protagonista dell’omonimo primo poema del ciclo, che ci accompagna... alla foce.

A proposito, non sarebbe male se laVerdi mettesse in cantiere l’esecuzione integrale del ciclo, che meriterebbe un concerto tutto per sè...

Encomiabile la prestazione di tutti, ma come non segnalare flauti e clarinetti per la magistrale esposizione delle sorgenti del fiume.
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Ecco poi Benjamin Britten, con i Four sea interludes dal Peter Grimes. La sequenza dei quattro brani non rispetta quella dell’opera (come si può dedurre dallo specchietto sottostante):


Nell’opera gli interludi sono in effetti sei, equamente distribuiti nelle sue tre parti (prologo incluso) e non sono titolati. Il primo serve come preludio - dopo il Prologo al tribunale - al primo atto, ed evoca un mattino grigio al borgo affacciato sul mare. La tonalità è (appropriatamente) LA minore, il tempo Lento e tranquillo. Il secondo evoca la tempesta che si abbatte sul borgo alla sera (Presto, con fuoco) ed è in MIb minore, con diverse modulazioni. Il terzo (Allegro spiritoso) è in LA maggiore ed apre il second’atto accompagnando la serena atmosfera del villaggio in un giorno di festa. Il quarto è una Passacaglia (Andante moderato) che precede l’arrivo di Grimes e del suo giovane aiutante verso la baita del marinaio, dove il ragazzo troverà la morte. Il quinto (Andante comodo e rubato) è in MIb maggiore, apre il terzo atto ed introduce la scena di una notturna festa danzante. Il sesto (Lento) fa da preludio alla conclusione dell’opera, riprendendo l’atmosfera del primo interludio.

Nella suite Britten ha invece impiegato quattro dei sei interludi (la Passacaglia l’ha isolata in un brano ad-hoc) disponendoli secondo un principio di opposizione luce-tenebre (o giorno-notte). Dapprima la coppia di brani diurni (LA minore e maggiore) e poi quella di brani notturni (MIb maggiore e minore). Significativo il fatto che le due tonalità (LA-MIb) siano separate da un inquietante tritono, figura musicale assai appropriata a rappresentare l’insanabile dissociazione fra la personalità ribelle e misantropa di Grimes e il perbenismo un po’ bigotto della società nella quale il protagonista vorrebbe integrarsi, essendone viceversa ripetutamente emarginato.

Marshall sta abbastanza... calmo per i primi tre brani, poi si scatena nell’ultimo, che non a caso evoca una tempesta, suscitando l’entusiasmo dei fedelissimi.
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Chiude il programma Die Seejungfrau di Alexander von Zemlinsky. La sua ispirazione alla novella di Andersen (La Sirenetta) è tanto dichiarata quanto labile, non avendo il compositore indicato precisi e dettagliati riferimenti sulla partitura (ne esistono però in appunti stesi durante la composizione). Antony Beaumont, che ha curato l’edizione critica della partitura (data per persa un secolo fa e poi fortunosamente ritrovata a pezzi qua e là e rimessa insieme) scrive nella prefazione all’edizione Universal che Zemlinsky avrebbe cominciato a comporre questa musica dopo la cocente delusione provata in seguito al fallimento della sua vicenda sentimentale con la giovane e bella Alma Schindlersua allieva che aveva stravisto per lui, sognando nientemeno che di dargli un figlio (!) ma che poi di punto in bianco lo piantò in asso per accasarsi con tale Gustav Mahler...  Mah, forse lui si sentiva come la sirenetta respinta dal principe (!?)    

A proposito di Principe, il grande Quirino, in un sapiente saggio pubblicato sul programma di sala (che mi permetto di riprodurre qui, sperando che nessuno chieda la mia testa per aver violato diritti) propone una plausibile associazione fra le note di Zemlinsky e il testo di Andersen.

L’opera, che reca l’attributo Fantasia in tre movimenti per orchestra da una novella di Andersen, è appunto tripartita (quasi fosse una sinfonia) e ci si sente tutta l’influenza della musica contemporanea (siamo a cavallo del secolo) a Zemlinsky, che in sostanza si rifà ad un nome ben preciso e conosciuto: Richard Wagner (cui ovviamente si accodano Strauss e Mahler) e più remotamente a Liszt e Berlioz.

Grazie al lavoro di Beaumont si possono oggi ascoltare due versioni dell’opera, che differiscono sostanzialmente nel secondo movimento: del quale era stata in un primo tempo ritrovata una versione riveduta dall’Autore, che ne aveva tagliato una parte (79 battute, 4-5 minuti di musica); parte scoperta successivamente fra le sue carte. Riccardo Chailly ha eseguito e inciso più volte la versione riveduta (qui con la Radio di Berlino); quella originale si può ascoltare in questa bella esecuzione finlandese di Storgårds (il taglio riaperto va da 22’45” a 27’15”).

A questo punto diviene spontanea la domanda: ma laVerdi quale versione ha suonato? Ebbene, ha suonato quella originale (con le 79 battute reintrodotte); ma, grazie ai tempi forsennati di Marshall, la durata ha eguagliato quella (ad esempio) di Chailly che invece taglia quelle battute.

Successo clamoroso e applausi ritmati: Marshall ringrazia facendo chiari cenni verso i ragazzi, come a dire: merito loro!

Sarà una pura combinazione, ma questa Seejungfrau è anche nel programma del prossimo concerto dell’OSN (su Radio3 sabato 3 novembre, 20:30).

24 marzo, 2014

A Torino fra tragedia e commedia


Il Regio torinese ha in programma in questi giorni un dittico bifronte, serio-leggero. Resterà famoso nella storia quello che fu programmato alla Fenice in occasione della prima di Elektra (1938) allorquando alla tragedia straussiana si fece seguire Il signor Bruschino (!) Anche qui – cosa del resto già fatta alla Scala proprio 10 anni fa - abbiamo l’accoppiata  tragedia + commedia, e così la par-condicio è salva e tutti vanno a casa soddisfatti, anche se a Torino la tragedia viene (grazie al regista) privata della sua genuina conclusione… idilliaca, come vedremo meglio.  

Una tragedia fiorentina (1917, da Wilde) precede di circa un anno lo Schicchi (1918, testo di Forzano) e con esso condivide l’ambientazione gigliata. Poi però, a parte le circostanze belliche in cui furono composte e le comuni viste sull’Arno, le due opere hanno assai poco in comune. E non solo per i soggetti alquanto divergenti, ma proprio per i contenuti squisitamente musicali: tanto maledettamente salace e genuinamente italico quello di Puccini, quanto cerebralmente e incorreggibilmente crucco (non è un’offesa, occhio!) quello di von Zemlinsky

Il regista Vittorio Borrelli ha pensato bene di risparmiare… sull’affitto collocando le due vicende nello stesso caseggiato, più o meno trasportandole all’epoca in cui le opere videro la luce. Il che tutto sommato non nuoce, né scandalizza più di tanto.

Quanto a Stefan Anton Reck, la sua origine (anagrafica e musicale) teutonica non gli impedisce di gestire con la dovuta spigliatezza anche la brillante partitura pucciniana.
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Eccoci quindi, in un teatro non propriamente affollatissimo, alla Tragedia fiorentina. Caspita come si corre veloci oggi, ha commentato il mio vicino di posto sul treno che ci portava a Torino: su Renzi han già fatto anche un’opera lirica… (tera-smile!)

Beh, va detto che della tragedia c’è effettivamente un ingrediente indiscusso e indiscutibile: un omicidio per strangolamento in piena regola. Però tutto il resto della vicenda ha davvero dell’incredibile e del gratuito. Andiamo con ordine.

Siamo nella Firenze del ‘500 e un commerciante rientra a casa prima del previsto trovandovi la sua mogliettina in compagnia piuttosto sospetta di un giovane. Fin qui sembra Hunding che torna da Sieglinde e vi scopre Siegmund: qualche vago sospetto del padrone di casa viene mascherato da affettate profferte di ospitalità, soprattutto dopo che il giovane intruso si è manifestato per il figlio del Duca della città.

Dopo aver cercato (o fatto finta) di vendergli un po’ della sua mercanzia (stoffe e abiti alla moda) il commerciante si dice pronto ad offrire all’ospite qualunque cosa gli aggradi. E qui ecco il primo fatto poco plausibile: il giovane nobile chiede con tutta naturalezza di avere la donna (sic!) Ma non basta, perché il marito, invece di dargli la risposta più ovvia, cerca semplicemente di dissuaderlo minimizzando le qualità della moglie (la bellezza le è rifiutata… arriverà a dire di lei!)

La quale moglie si lascia sentire dal marito mentre dichiara al giovane di volerlo morto! Poi, con il commerciante in giro per la casa, i due amanti si abbracciano e si baciano sulla bocca come nulla fosse. E come nulla fosse il duchino dice poi che si è fatto tardi e fa per andarsene a casa non senza aver ottenuto dalla donna un appuntamento galante per il mattino successivo (!)

Portandogli cappa e spada il commerciante si ricorda di possedere a sua volta un brando arrugginito e invita il giovane a incrociare qualche colpo. La cosa da scherzosa diventa seria: dopo essere stato ferito di striscio, il padrone di casa disarma l’ospite, poi a mani nude lo mette sotto e infine lo strangola senza misericordia.

A nulla valgono le implorazioni del giovane e la donna per parte sua ben si guarda dall’intervenire, come potrebbe, per difenderlo dalla ferocia del marito. Passato il duchino a miglior vita, il commerciante si volge verso la moglie per completare l’opera di fustigazione dei costumi.

E qui la tragedia si muta in… farsa. La donna sbotta estasiata: caro, perché non mi avevi mai detto di essere così forte? E l’uomo, già pronto a strozzarla, trasalisce e risponde: toh, e tu perché non mi hai mai detto di esser così bella? E l’opera si chiude con i due che si baciano sulla bocca… (roba da chiodi!)

In molti si sono naturalmente cimentati nel cercare di spiegare cosa di criptico ci può esser sotto ad una simile strampalata conclusione. Così mi ci provo anch’io, tanto per passare il tempo. Lo spunto me lo ha dato quella specie di monologo che il padrone di casa recita a metà circa dell’atto unico, dopo aver parlato di affari e di politica con il suo (anzi… di sua moglie) ospite, piuttosto disinteressato a tali argomenti, per la verità. Dice infatti: Dunque, tutto quanto il vasto mondo è chiuso fra le quattro mura di questa stanza, e solo con tre anime ad abitarvi?

Personalmente mi stuzzica sempre immaginare dietro questi triangoli delle allegorie di grandi fenomeni di carattere storico-politico-sociale. Nella fattispecie ipotizzo la donna di casa essere la classe operaia che, sfruttata dalla borghesia capitalista, si concede all’aristocrazia, che obiettivamente esercita ancora su di lei un certo fascino… Poi però, nel momento in cui la borghesia soffoca (letteralmente!) la nobiltà, ecco che alla classe operaia non resta che riconoscerne la forza e lo strapotere e (fingere di?) buttarsi fra le sue braccia. Beh, erano fenomeni sotto gli occhi di Wilde come poi di Zemlinsky, o no?

Ecco, invece pare che il regista non abbia potuto sopportare questa pagliacciata (una tragedia è una tragedia, vivaddio!) e quindi ha mandato Wilde e Zemlinsky a quel paese e la fedifraga all’altro mondo, come del resto si merita! Beh, per essere la prima rappresentazione in assoluto al Regio, dopo quasi un secolo di vita, come rispetto dell’originale non c’è malaccio (smile!) E poi tutto ciò alle mie orecchie contraddice abbastanza la chiusa musicale di Zemlinsky, con quel celestiale diminuendo in LAb maggiore dell’intera orchestra, che sa poco di Tod e tanto di Verklärung (giusto per citare il compositore che, con il rivale-in-amore Mahler, più ha lasciato tracce nella musica del nostro).

Mattatore è stato ovviamente il beniamino di casa, Mark S. Doss, che ha sostenuto da par suo una parte piuttosto impervia e faticosa, anche fisicamente. Discreta la prova di Zoran Todorovich e rimarchevole, soprattutto per la… ehm, presenza scenica, quella di Ángeles Blancas Gulín. Insomma, per il piuttosto misconosciuto Zemlinsky un debutto torinese più che accettabile.
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Lo Schicchi è una vera perla, non lo si scopre da oggi, e se il cast è all’altezza non può non piacere e divertire. Con l’intelligente e sobria regia di Borrelli e un’orchestra ben guidata da Reck, chi si è distinto su tutti è Francesco Meli, ancora una volta confermatosi tenore di razza. Con lui Alessandro Corbelli, un protagonista efficacissimo e poi la Serena Gamberoni cui non è mancato l’applauso a scena aperta, di prammatica dopo il Babbino.

Ma bene han fatto tutti gli altri. Alla fine, quando Schicchi recita la frase conclusiva e batte le mani… ecco che è scattato inevitabilmente l’applauso del pubblico, che ha coperto le ultime nove, esilaranti battute in SOLb di Puccini. Ma va bene anche così…