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13 giugno, 2018

Alla Scala un Fierrabras così-così


Ieri sera è arrivata alla terza recita la semi-sconosciuta Fierrabras di Franz Schubert. Piermarini con ampi spazi vuoti e lungi dal manifestare entusiasmi durante la recita, salvo applausetti ai cambi scena e ovviamente alla fine.

La mia generale impressione è che l’opera si possa al meglio valorizzare con un’esecuzione in forma di concerto, stante il suo contenuto musicale, di assoluto valore ma di scarsa teatralità, che si accompagna per di più ad una totale insensatezza drammaturgica. E dico subito che la regìa di Peter Stein tutto sommato serve a limitare i danni, mostrandoci ciò che più o meno verosimilmente si vedeva sui palchi viennesi del primo ottocento: fondali e quinte di cartapesta dipinti, costumi ricchi, sfarzosi ed esageratamente didascalici (bianchi e neri a vestire le due fazioni in campo) e masse corali disciplinatamente marcianti o ben piantate di fronte al pubblico. Un approccio da storia romanzata (di fatto inventata) come si potrebbe raccontare ai bambini: prendere un soggetto come questo sul serio, magari con facili attualizzazioni, credo determinerebbe il totale collasso dello spettacolo.

Una delle conseguenze della scelta di rappresentazione scenica è che - per cercare di garantire un minimo di coerenza, non dico di plausibilità, al guazzabuglio della trama - si ricorre doverosamente all’impiego di numerosi parlati (tipici del Singspiel) col che però si introducono - per lo spettatore non germanofono - elementi di disagio e di disturbo, non esclusa la necessità (complici le corporative esigenze sindacali) di fare un secondo intervallo.

Insomma, torno a ripetere: di Fierrabras si deve godere al meglio la musica, che è la musica di Schubert, non di Beethoven, non di Rossini, non del futuro Wagner. Musica irrimediabilmente non teatrale, come dimostra il fallimento di tutte le opere del nostro (e l’oblio in cui sono inevitabilmente cadute, trascinandovi anche parecchi tesori musicali). Il problema del teatro di Schubert non sono soltanto i libretti strampalati (quanti capolavori immortali hanno alla base testi ridicoli!) ma anche e precisamente il dna della sua musica, che paradossalmente diventa teatrale non nelle opere, ma nelle sonate, come spiegò inoppugnabilmente Piero Rattalino in questo saggio comparso nel 1989 su Musica&Dossier.

Daniel Harding ha diretto, secondo me, con diligenza più che con passione: bene i passaggi più intimistici e liederistici, mentre quelli marziali e corali (e sono tanti!) mi sono parsi meno curati e approfonditi. L’Orchestra ha risposto bene, e meglio ha fatto il Coro di Casoni, chiamato ad un vero superlavoro.

Degli interpreti mi hanno convinto pienamente il Roland di Werba e l’Eginhard di Sonn. Bene anche il Karl di Konieczny (quando canta, non quando parla...) e la Florinda della Röschmann (a parte i gravi poco udibili). La Fritsch è stata un’Emma discreta, salvo sbracare nei rari acuti, mentre Richter ha onorevolmente sostenuto la parte del protagonista, ma senza (personalmente) incantare, così come suo... padre Vasar (Boland). Oneste le prestazioni degli altri.

In conclusione: una proposta francamente discutibile, roba da festival (con tutto il rispetto per Salzburg da dove proviene).

04 giugno, 2018

Alla Scala arriva Fierrabras


Questa per la Scala è la stagione delle primizie: dopo Fledermaus e Orphée - e in attesa della super-primizia, Fin de partie - ecco arrivare per la prima volta al Piermarini il Fierrabras di Franz Schubert. (La produzione è del 2014 a Salzburg - Pereira regnante - ed è disponibile in DVD).

Opera che l’Autore non potè mai ascoltare e che per la verità in pochi hanno potuto ascoltare in teatro da quasi 200 anni a questa parte. Dopo le prime spurie rappresentazioni di fine ‘800 si dovette arrivare praticamente al 1988 (Vienna) per assistere alla riproposta di quest’opera, grazie alla dedizione di tale Claudio Abbado, la cui interpretazione si può oggi seguire anche su youtube, in questa registrazione audio.

Il genere è apparentabile a quello del Singspiel, comprendendo diversi dialoghi parlati, ma oltre alle arie, concertati e cori, include anche diversi Melodramen, in pratica dei parlati accompagnati. In ciò si differenzia, ad esempio, dal beethoveniano Fidelio (che ne prevede uno solo, nel sotterraneo) dal quale per il resto mutua alcune inconfondibili atmosfere.

Il libretto di Josef Kupelwieser è un farraginoso insieme di vicende che definire astruso e indigeribile è fargli un complimento: di certo è in buona parte responsabile della miserevole considerazione di cui l’opera ha goduto e gode tutt’oggi, a dispetto della qualità della musica di Schubert.

Il soggetto è derivato - per discutibile mescolanza - da almeno due racconti medievali, e presenta, sullo sfondo della guerra fra Carlomagno e i Mori, due vicende amorose che coinvolgono individui delle due diverse e contrapposte etnie e religioni: da una parte il cristiano Roland (eroico paladino carolingio) e la saracena Florinda (figlia dell’Ammiraglio Boland, capo dei mori); e dall’altra il protagonista Fierrabras (figlio di Boland e quindi fratello di Florinda) e la figlia di Carlomagno, Emma, che però è innamorata (e ricambiata) da un altro fedelissimo di suo padre, Eginhard, peraltro privo di titoli nobiliari. Per una di quelle gratuite e ridicole combinazioni che si verificano solo nei libretti d’opera, Roland-Florinda e Fierrabras-Emma si sono incontrati tempo addietro a Roma (dove Boland aveva trafugato reliquie preziose) e poi perduti di vista, ritrovandosi miracolosamente quattro anni dopo sulla scena dello scontro armato ai confini fra il territorio cristiano e quello saraceno. Dopo una serie di vicende improbabili e ai limiti dell’assurdo, le due coppie Roland-Florinda ed Emma-Eginhard possono finalmente coronare i rispettivi sogni d’amore, mentre al povero Fierrabras non resta che convertirsi al cristianesimo, benedire la felicità altrui ed entrare orgogliosamente nel novero dei paladini di Carlomagno...

Con i Singspiel di solito si procede a pesanti sforbiciamenti di grande parte dei parlati (come nell’edizione citata di Abbado) con il risultato di aumentare esponenzialmente il grado di incomprensibilità del soggetto e di lasciare allo spettatore solo il godimento della mirabile musica di Schubert. In questa edizione della Scala pare che invece buona parte dei parlati venga conservata (pur con modifiche all’originale); la regìa di Stein dovrebbe fare il resto per consentirci di apprezzare al meglio quest’opera.

Prossimamente esprimerò qualche considerazione dopo visione diretta.