Ieri sera è arrivata alla terza recita
la semi-sconosciuta Fierrabras di Franz Schubert. Piermarini con ampi
spazi vuoti e lungi dal manifestare entusiasmi durante la recita, salvo applausetti ai
cambi scena e ovviamente alla fine.
La mia generale impressione è che l’opera
si possa al meglio valorizzare con un’esecuzione in forma di concerto, stante
il suo contenuto musicale, di assoluto valore ma di scarsa teatralità, che si
accompagna per di più ad una totale insensatezza drammaturgica. E dico subito
che la regìa di Peter Stein tutto
sommato serve a limitare i danni, mostrandoci ciò che più o meno verosimilmente
si vedeva sui palchi viennesi del primo ottocento: fondali e quinte di
cartapesta dipinti, costumi ricchi, sfarzosi ed esageratamente didascalici (bianchi
e neri a vestire le due fazioni in campo) e masse corali disciplinatamente
marcianti o ben piantate di fronte al pubblico. Un approccio da storia
romanzata (di fatto inventata) come si potrebbe raccontare ai bambini: prendere
un soggetto come questo sul serio, magari con facili attualizzazioni, credo determinerebbe
il totale collasso dello spettacolo.
Una delle conseguenze della scelta di
rappresentazione scenica è che - per cercare di garantire un minimo di
coerenza, non dico di plausibilità, al guazzabuglio della trama - si ricorre
doverosamente all’impiego di numerosi parlati
(tipici del Singspiel) col che però si introducono - per lo spettatore non germanofono
- elementi di disagio e di disturbo, non esclusa la necessità (complici le
corporative esigenze sindacali) di fare un secondo intervallo.
Insomma, torno a ripetere: di Fierrabras
si deve godere al meglio la musica,
che è la musica di Schubert, non di Beethoven,
non di Rossini, non del futuro Wagner. Musica irrimediabilmente non teatrale, come dimostra il
fallimento di tutte le opere del nostro (e l’oblio in cui sono inevitabilmente
cadute, trascinandovi anche parecchi tesori musicali). Il problema del teatro
di Schubert non sono soltanto i libretti strampalati (quanti capolavori
immortali hanno alla base testi ridicoli!) ma anche e precisamente il dna della sua musica, che paradossalmente
diventa teatrale non nelle opere, ma
nelle sonate, come spiegò
inoppugnabilmente Piero
Rattalino in questo saggio comparso nel 1989 su Musica&Dossier.
Daniel
Harding
ha diretto, secondo me, con diligenza più che con passione: bene i passaggi più
intimistici e liederistici, mentre
quelli marziali e corali (e sono tanti!) mi sono parsi meno curati e
approfonditi. L’Orchestra ha risposto bene, e meglio ha fatto il Coro di Casoni,
chiamato ad un vero superlavoro.
Degli interpreti mi hanno convinto
pienamente il Roland di Werba e l’Eginhard di Sonn. Bene anche il Karl di Konieczny (quando canta, non quando
parla...) e la Florinda della Röschmann (a parte i gravi poco udibili). La Fritsch è stata un’Emma discreta,
salvo sbracare nei rari acuti, mentre Richter
ha onorevolmente sostenuto la parte del protagonista, ma senza (personalmente)
incantare, così come suo... padre Vasar
(Boland). Oneste le prestazioni degli altri.
In conclusione: una proposta francamente
discutibile, roba da festival (con tutto il rispetto per Salzburg da dove
proviene).
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