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11 dicembre, 2024

La Forza dal vivo

Ieri sera ecco la vera prima (con tutto il rispetto per giovani e vip) della stagione scaligera 24-25.

Confermo subito il mio personale giudizio, formulato dopo la visione TV: una produzione complessivamente apprezzabile, ma come media ponderata di componenti che si posizionano su una forbice (dal dignitoso all’ottimo) abbastanza ampia. E in ogni caso, nulla di mai visto-sentito prima e di cui rimanga indelebile ricordo…

Vediamo quindi per prima la messinscena di Muscato. Il quale deve pur metterci qualcosa di suo, per giustificare onori e… parcella: il risultato è per certi versi apprezzabile, per altri un po’ meno.

Come il regista stesso aveva apertamente annunciato, il suo Konzept (cioè il messaggio che intende mandare allo spettatore per tramite del suo allestimento) verte sull’attualità più pesante che accompagna ogni nostro santo giorno: la guerra.

Il tutto presentato, va riconosciuto, con maestria ed efficacia… ma: siamo proprio sicuri che fosse questo il succo (e il messaggio) che Verdi ci ha voluto inviare con quest’opera? Farci cioè riflettere sugli orrori delle guerre (che pure erano notizia di tutti i giorni ai suoi tempi)? Il mirabile Pace, mio Dio, si riferisce a questo tipo di guerre? O non, invece, alla pace interiore che la povera Leonora implora dal Signore?

Verdi si era innamorato del Wallenstein di Schiller. Dovendo musicare un testo (di Saavedra) che tratta anche di guerra sì, ma con poche righe (a Velletri) a descriverne le fucilate e gli scontri all’arma bianca, per il resto raccontandoci la prosaica vita nella guarnigione spagnola, Verdi incaricò Piave di scrivere le scene di Velletri mutuandole dalla trilogia schilleriana. Ma quale parte del Wallenstein scelse? Proprio quella più vicina al testo spagnolo: non scene cruente di guerra, ma la prosaica vita nella guarnigione (il prologo Wallensteins Lager) dove ufficiali e soldati disquisiscono e spettegolano di generali, strategie e rivalità e dove i soldati si lasciano andare a deplorevoli azioni contro la cittadinanza che li ospita.

E per questo passaggio Verdi scelse (impiegando la traduzione di Maffei) la scena 8 di Schiller (divenuta la 14 dell’opera), quella del Cappuccino (reincarnatosi in Melitone) che rimprovera i militari per la loro ignavia e dissolutezza, mentre al fronte si muore… Le scene che chiudono l’atto terzo, Rataplan incluso, sono quasi da avanspettacolo, una parodia della guerra. Dopodichè Verdi, per preparare il terreno a… Schiller, inventò di conseguenza (e di sana pianta, rispetto a Saavedra) anche la colorita scena di Petrosilla simpaticamente guerrafondaia ad Hornachuelos. 

Muscato invece ci mostra continui riferimenti alla guerra, calati in epoche diverse: settecento, otto/novecento e… oggi. Ne vediamo già nel primo atto qualche traccia: la presenza - non prevista dal libretto, anche se didascalicamente utile - di Carlo, militare di carriera, al momento dell’uccisione del padre. Le guardie armate che puntano i loro archibugi contro potenziali intrusi attorno alla residenza dei Calatrava, e persino Leonora, nella transizione al second’atto, che si traveste da soldato per raggiungere in incognito Hornachuelos.

Dove – invece che in una locanda frequentata da qualche personaggio locale, da carrettieri e magari da pellegrini diretti al Giubileo – troviamo un vero e proprio centro di arruolamento di reclute e volontari, crocerossine incluse, tutti allegramente pronti a seguire Preziosilla in Italia per combattere l’odiato tedesco. 

A Velletri la guerra si fa più vicina a noi, prendendo le sembianze della WWI (gli archibugi diventano moschetti M91…) Un po’ di forzatura esiste (nel libretto la battaglia è solo descritta con poche righe di didascalia e in musica occupa la scena 3, poco più di 100 battute…) tuttavia fin qui l’idea di Muscato regge abbastanza bene, mescolando i riferimenti bellici con le goliardate di Hornachuelos e Velletri.

Ma dove francamente Muscato eccede è nel volerci presentare anche le guerre di oggi impiegando come scenario il Convento, dove Melitone distribuisce la sbobba ai poveracci. E dove (è proprio l’attualità più spinta) assistiamo ad una scena che ricorda odierne distruzioni e genocidi, o campi di concentramento (o magari i nostri C.A.R.A.) ben presidiati da agenti anti-sommossa equipaggiati con kalashnikov (???)

Insomma, a me pare che la centralità della guerra che caratterizza la messinscena di Muscato sia magari accattivante, ma anche sovrabbondante. Il regista ha – come accade spesso e volentieri – creato il suo Konzept prendendo, del soggetto, una parte per il tutto. Come isolare una tessera di un mosaico e ingigantirla a scapito di altre che vengono così penalizzate. Non leggiamo in ogni studio sulla Forza che si tratta di un unicum nella produzione verdiana, proprio dal punto di vista della poliedricità della forma e dei contenuti? Dove troviamo dramma, tragedia, lutti e omicidi tutti interni ad un ambiente famigliare (i Calatrava e Alvaro) e dove la guerra rappresenta poco più di un pittoresco accessorio.

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Dal punto di vista tecnico, l’idea, ormai diventata quasi uno standard registico, di impiegare una piattaforma girevole per agevolare la rapidità dei cambi-scena è azzeccata, proprio in ragione della struttura dell’opera, che presenta diverse occasioni in cui quell’accorgimento mostra la sua efficacia.

Apparentemente bizzarra (ma invece coerente con l’idea di mostrarci la guerra nei… secoli) la scelta di vestire protagonisti e masse con costumi da emporio di trovarobe: dalle parrucche settecentesche alle uniformi ottocentesche agli odierni kalashnikov.  

Scene più o meno appropriate ai diversi ambienti, con vasto impiego di cartapesta e flora finta. E, a proposito di foglie, quelle che alla fine spuntano rigogliose da un tronco rinsecchito ad accompagnare la Verklärung di Alvaro, vengono direttamente da… Tannhäuser!

Luci (e oscurità…) ben dosate. Movimenti di masse e singoli che vanno da staticità tipo tableau-vivant ai caotici assembramenti. Il regista ci mostra talvolta in scena personaggi che non vi dovrebbero essere: la cosa ha ora aspetti positivamente didascalici (Carlo presente all’uccisione del padre, in modo che sia più facilmente riconoscibile quando lo si incontra per la prima volta a Hornachuelos) o francamente stucchevoli (FraMelitone che compare clandestinamente qua e là senza ragioni particolari, come ad esempio nel terz’atto, ben prima delle scene schilleriane).

Altro dettaglio di dubbia efficacia, a proposito della morte di Calatrava: la sfortunata accidentalità dell’episodio (che di fatto scagiona il povero Alvaro da ogni accusa di omicidio) viene smentita dal gesto del giovane indio che, invece di gettare la pistola a terra e lontano, va a depositarla con forza sul tavolino a fianco del quale si trova il Marchese: qui come minimo, vostro onore, si tratta di omicidio preterintenzionale!

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Chailly, l’Orchestra e il Coro di Malazzi hanno il merito principale di innalzare decisamente la media dei voti per questa produzione. Il Direttore rende alla perfezione tutte le sfaccettature che fanno, giova ripeterlo, di questa partitura davvero un pilastro di tutta l’opera di Verdi. Già la mirabile esecuzione della Sinfonia anticipa tutte le meraviglie che si scopriranno nelle successive tre ore!

Orchestra in stato di grazia, in tutte le sezioni come nei singoli: Il clarinetto di Meloni e il violino della Marzadori sono solo le punte di un iceberg di eccellenza.

Il Coro ormai si supera ad ogni nuova prova: per compattezza, accenti e – non da ultimo e grazie al regista – presenza scenica.

Le voci? Qui, come per la regìa, note più… mixed, ecco: dall’eccellenza all’onesta e dignitosa prestazione.

Top-down, quindi: Tézier mattatore della serata. Il suo Carlo si presta solo ad elogi: voce senza sbavature in tutta la gamma, baldanza (Pereda) cameratismo (con Alvaro) e poi odio cieco e insensato, fino alla finale (tardiva e… ipocrita?) richiesta di perdono. Davvero una prestazione superlativa.

Netrebko (ancora qualche buh dalla seconda galleria?) ormai non fa più notizia, tale e tanta è la sua eccellenza (ormai di antica data) nel puro canto, ma anche (e questa cresce ad ogni nuova prova) nell’interpretazione.   

Jagde ha una gran voce, passante e corposa (il timbro però non è proprio pulitissimo…) assai appropriata per il personaggio così combattuto e disperato di Alvaro. Forse gli manca qualcosa nell’espressione, quel quid che emozioni l’ascoltatore. Per curiosità cito un piccolissimo particolare, che ieri si è ripetuto dopo la prima del 7. Nella lunga scena con Carlo del terz’atto, Alvaro deve eseguire per due volte (sempre sul verso Vi stringo *** al cuor mio) un gruppetto (*** sta per FA-MI-RE#-MI) che invece Jagde semplifica in RE#-MI. Più avanti invece canterà altri gruppetti in modo canonico, dal che si deve dedurre che la cosa non sia dovuta a casualità, ma a preciso approccio interpretativo.

Berzhanskaya è una scatenata Preziosilla, forse portata ad andare fin troppo sopra le righe, ma la voce c’è e come, coniugata con la giusta verve che si addice al personaggio.

Vinogradov ha un vocione fin troppo cavernoso (ricorda antichi bassi… orientali) e mi pare gli manchi qualcosa della pietas che dovrebbe caratterizzare il Padre Guardiano.

Bosi e Romano hanno eseguito con dignità e onore i loro compiti, come Trabuco e Melitone.

Rahal, Beggi, Li e Hyseni (Curra, Calatrava, Alcade e Chirurgo) su un onorevole massimo sindacale, ecco.

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Pubblico entusiasta e parecchi minuti di applausi per tutti, Tézier, Netrebko e Chailly in testa.

07 dicembre, 2024

SantAmbrogio in TV

Aforistiche note a caldo.  

Anfitrioni: Carlucci recita regolarmente le stesse frasi, buone per tutti i titoli, da 10 anni. Vespa fa panegirici alla Rai come da clausola del suo contratto milionario.  

Orchestra, coro e rispettivi Direttori da lode.

Cast di livello grazie a Tezier e (un filo sotto) a Netrebko (qualche buh?) e (due fili sotto) a Jagde. 

Berzhanskaya e Vinogradov appena accettabili.
Meglio di loro Bosi e Romano.

Regia pretenziosa e… guerrafondaia: militari, guardie e poliziotti ovunque, inclusi Hornachuelos e il convento! L’uccisione di Calatrava non è accidentale, ma omicidio preterintenzionale! Melitone prezzemolo: fa anche gli straordinari…

Insomma: una produzione dignitosa ma non epocale. Di più fra qualche giorno.


15 aprile, 2013

DonCarlo festeggia i 40 anni del Regio moderno


Mercoledi 10 aprile si celebravano i 40 anni dalla riapertura (con rocamboleschi Vespri) del teatro torinese (i festeggiamenti proseguiranno sino a fine giugno) e Don Carlo è stato scelto per onorare la ricorrenza (poi per una qualche insondabile ragione la prima è slittata di 24 ore…) Ieri la seconda, in un teatro piacevolmente gremito in ogni ordine di posti. E dove alla fine il pubblico si è accalcato sotto il palco per tributare un autentico trionfo a tutti i protagonisti, non essendosi risparmiato prima applausi a scena aperta al termine di tutte le stazioni di questo meraviglioso calvario che è il Don.

Qui siamo proprio in un teatro-della-città, che i cittadini sentono come loro proprio e di cui giustamente apprezzano la serietà, la professionalità e lo stare-con-i-piedi-per-terra, fornendo prodotti di qualità senza pretendere (non essendolo) di essere i primi al mondo e soprattutto senza pretendere di attribuirsi porzioni sproporzionate dei finanziamenti pubblici. Il riferimento alla Scala è evidente: il quale ormai non è più il teatro dei cittadini milanesi, ma è una meta turistica per stranieri neo-ricchi, dove la maggioranza del pubblico passa di lì per caso e, soprattutto, senza cognizione di causa.
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Lo spettacolo riprende l’allestimento del 2006 di Hugo de Ana, mentre sul podio sale il padrone di casa, Gianandrea Noseda da Sesto San Giovanni.

Regìa che gli snob con la puzza al naso tacceranno di ammuffita musealità (o di zeffirellite rafferma) poiché le scene copiano quasi alla lettera le architetture dell’Escurial e di Valladolid, i costumi sono precisamente quelli che vediamo nei quadri e nelle pitture cinquecentesche e ciò che avviene in palcoscenico è al 100% rispettoso delle didascalie prescritte in partitura. Ah, che noia, che barba, che noia, vuoi mettere qualche bel cappottone ddr e l’ambientazione nella Dallas di JR ?!

Per la verità la regìa, col Don Carlo (o Carlos) un problemino ce l’ha sempre, ed è una faccenda di… taglie: datosi che il povero Infante, all’inizio del secondo atto, deve scambiare la Eboli per la Regina (della quale Regina conosce meglio di chiunque altro, e per evidenti ragioni, le… dimensioni, smile!) è necessario che soprano e mezzosoprano che impersonano le due signore abbiano corporature almeno vagamente compatibili. (La benda che copre l’occhio offeso della Eboli non è un problema, essendo prudentemente nascosta dalla maschera e dal velo da lei indossati.) Ora, la defezione della Frittoli (annunciata dall’altoparlante alle ore 14:29) sostituita dalla Kasyan (che ha due taglie in meno…) qui ha provocato invece un palese… scompenso volumetrico, talchè ha fatto piuttosto sorridere il Carlo che scambiava la giunonica Barcellona per l’esile georgiana (cose che capitano solo in teatro, smile!)  
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Ma a proposito di inverosimiglianze, sappiamo che il dramma di Schiller e il libretto di Méry-DuLocle, mentre presentano uno sfondo storico-politico assolutamente rigoroso, contengono invece una versione ampiamente romanzata e fantasiosa delle relazioni personali intercorrenti fra Carlo, Elisabetta e Filippo.

Per fare un minimo di chiarezza storica, bisogna ricordare alcune date: Filippo II (nato nel 1527) succede al padre Carlo V (tramite abdicazioni successive) nel 1556-58 (Carlo V muore appunto nel ‘58). Ha già all’attivo due matrimoni, dal primo dei quali è nato il Carlo della nostra vicenda, nel 1545. Quindi quando Filippo eredita (parte del) l’impero del padre, ha 29 anni e suo figlio Carlo ne ha 11.

Veniamo ora ai due giovani: ammesso che si siano incontrati a Fontainebleau, la cosa deve essere avvenuta assolutamente prima del 1559 (anno del matrimonio, il terzo, di Filippo con Elisabetta). Ora, a quel tempo DonCarlo ed Elisabetta (che erano coetanei, classe 1545) avevano 12, massimo 13 anni! Praticamente dei bambini insomma, le cui eventuali promesse di matrimonio corrisponderebbero a quelle che oggi si fanno due sbarbati delle scuole medie! (Invece pare verosimile che i due fossero destinati, magari a loro insaputa, ad un qualche matrimonio di Stato).    

È storicamente accertato che Filippo sposò Elisabetta nel 1559, quando lui aveva 32 anni e la francesina ne aveva solo 14, e ancora stava uscendo dalla pubertà (ebbe la prima gravidanza, abortita, 5 anni dopo). Ed è verosimile che i fatti narrati nell’opera siano anteriori al 1564, anno in cui Elisabetta ebbe appunto la prima delle sue 4 gravidanze (successivamente ebbe due femmine - ’66 e ’67 - e un altro aborto nel ’68). In effetti il libretto reca l’indicazione verso il 1560: il che comporta che Carlo ed Elisabetta, ai tempi dello scandalo narrato nell’opera, dovessero avere 15 anni al massimo (!?)

Quanto a Filippo, che spesso viene rappresentato come un ottuagenario decrepito, aveva appunto 32 anni quando sposò Elisabetta, e 33 ai tempi della vicenda dell’opera, il che contrasta abbastanza con il crin bianco da lui stesso citato nella famosissima Ella giammai m’amò… Però qui a Torino Filippo è impersonato nel primo cast dal 36enne Abdrazakov, il che tutto sommato rende giustizia alla… storia!  
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Tornando a bomba, la versione rappresentata al Regio è Don Carlo e non Carlos, dal che si deduce essere quella in italiano (Scala 1884) e in soli (smile!) quattro atti (3 ore nette di musica) avendo abbandonato oltralpe l’idilliaco Fontainebleau. Edizione qui meritoriamente esente anche da pseudo-filologie-a-buon-mercato (tipo riscoperte dell’america di Peregrine o Lacrymose assortite, per intenderci, o di pagine di partitura rifatte di sana pianta da Verdi medesimo in occasione dell’edizione scaligera).

Per gli aficionados di Radio3 allego, dall’archivio di Musica&Dossier, due scritti sull’opera verdiana, apparsi sui numeri di aprile 1988 e di novembre 1992 a firma di due vecchie conoscenze: Stefano Catucci e Guido Barbieri.
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Come detto, ieri gran trionfo per tutti gli interpreti, fra i quali mi sembra spetti di diritto la priorità di menzione a Svetlana Kasyan, che ha dovuto forzatamente anticipare il suo debutto di due giorni, causa l’indisposizione della Frittoli. Bene, questa giovane georgiana, alle prime esperienze forti, è stata davvero una piacevolissima sorpresa, mostrando grande tecnica, una bella voce e soprattutto una sicurezza da cantante navigata: per essere un esordio, davvero splendido.

Accanto a lei un Ramón Vargas abbastanza efficace, senza sbavature, anche se la voce non è abbastanza… eroica (non sempre, ovvio, ma quando ciò sarebbe necessario).

Ildar Abdrazakov è un Filippo convincente (come detto, anche… anagraficamente): voce calda e mai cavernosa, bella espressività e portamento davvero regale, incluse le tremende contraddizioni che animano il personaggio.

Ludovic Tézier per me ha fatto un figurone: un Posa di grande spessore e autorevolezza, cui è difficile trovare lacune.

Molto bravo anche Marco Spotti, che ha restituito con durezza, ma senza esagerazioni macchiettistiche, la figura dello sbifido cerbero Inquisitore.

Roberto Tagliavini ha dignitosamente prestato la sua voce (che arrivava più che altro dalle… profondità della cripta) al Frate-CarloV.

Lascio per ultima Daniela Barcellona: dopo la (tutto sommato) positiva comare Quickly alla Scala, la statuaria mula triestina si cimenta in un altro, e invero impegnativo, ruolo verdiano: quello di Eboli. Ecco, una prestazione di livello non assoluto, stante le caratteristiche… somatiche della sua voce, che non collimano precisamente con quelle del personaggio, soprattutto nelle scalate più ardite. Tuttavia un risultato complessivo più che accettabile, raggiunto anche, se non soprattutto, grazie alla impeccabile capacità di stare in scena.     

I comprimari erano Sonia Ciani (Tebaldo en-travesti) Erika Grimaldi (Voce dal cielo) Dario Prola (Lerma) e Luca Casalin (Araldo).

Fabrizio Beggi, Scott Johnson, Federico Sacchi, Riccardo Mattiotto, Franco Rizzo, Marco Sportelli (gli ultimi tre sono membri stabili del Coro del Regio) hanno ben recitato la parte dei bistrattati Deputati fiamminghi.

Sempre all’altezza il Coro di Claudio Fenoglio, sia nelle parti di canto arcano e sommesso dei frati, che in quelle di grande e smaccata sonorità, davanti ad Atocha.

Il Kapellmeister Noseda si conferma ancora una volta solido ed affidabile concertatore: cava dall’orchestra i suoni più cupi e introversi, come i fracassi più enfatici. Guida le voci da par suo, senza mai metterle in difficoltà e tiene tempi mediamente serrati, senza però andare mai oltre i limiti della correttezza interpretativa. Insomma, un nome, una certezza!