XIV

da prevosto a leone
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18 marzo, 2019

L’Orfeo di Carsen-Capuano-Vistoli a Roma


L’Orfeo di Gluck ieri pomeriggio in un Costanzi piuttosto affollato (ma non esaurito) è arrivato alla seconda recita delle 5 (+1) in programma.  

Carlo Vistoli era al centro dell’attenzione e devo dire che il combinato disposto della scrittura di Gluck, piuttosto sobria, e delle dimensioni non proibitive del teatro (dotato fra l’altro di buona acustica) ha contribuito a garantire alla sua prestazione un’accettabile efficacia, non facendo troppo rimpiangere i robusti suoni di contralto che da sempre siamo abituati a sentir uscire dalla bocca di Orfeo. Personalmente, avendo ascoltato (solo in registrazione, devo precisare) il sopranista Jaroussky (a Parigi nel maggio 2018) mi sentirei di dare un voto più alto a Vistoli, non fosse altro che per la miglior appropriatezza della sua voce di contraltista rispetto alle caratteristiche del personaggio. Ottima anche la sua presenza scenica.   

Onesto e non di più il contributo dei due soprani Mariangela Sicilia (Euridice) ed Emőke Baráth (ormai specialista del ruolo di Amore): due vocine abbastanza piccole e debolucce nei centri e nei gravi. Lodevole invece l’apporto del coro di Roberto Gabbiani (invero fondamentale in quest’opera).

Tutti autorevolmente concertati dall’esperta bacchetta di Gianluca Capuano (esordiente sul podio romano, ma che gli appassionati de laVerdi conoscono bene per le comparse in Auditorium con il suo ensemble vocale nel repertorio barocco). Al direttore mi sentirei di muovere un solo modesto rimprovero: qualche eccesso di... foga riguardo ai tempi. Senza pecche l’orchestra, con un plauso all’oboe per il suo intervento che anticipa il wagneriano venerdi santo.

Nonostante la durata dell’opera originale sia già abbastanza contenuta (circa 90’ netti) qui alcuni tagli (un paio relativamente piccoli, nel second’atto: da-capo omessi nei balli e nel coro finale; uno invece assai corposo: l’intero ballo, nel finale ultimo) la riducono a circa 75’: a parte la citata speditezza dei tempi di Capuano, c’è da esser certi che questo esito sia legato alle scelte estetiche e interpretative di Carsen (riprendo l’argomento più avanti). Un altro modesto (e quasi irrilevante) intervento sulla partitura riguarda il ballo degli eroi (in SIb) del second’atto: spostato - anche qui direi per esigenze sceniche (lo svestimento di Euridice nell'Eliso) - da prima a dopo il recitativo di Orfeo.

In definitiva, una prestazione musicale di cui ci si può accontentare, ecco. E anche il pubblico romano ha mostrato di gradirla, riservando applausi (non da stadio, peraltro...) per tutti quanti.
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Come noto, la messinscena di Carsen è una rivisitazione di suoi precedenti lavori (2006 e 2011) quindi di essa già si conoscevano pregi e difetti. Le scene di Tobias Hoheisel sono ispirate a severo minimalismo (tipo Wieland Wagner, per intenderci) in modo da concentrare l’attenzione dello spettatore sul canto e sulla recitazione dei protagonisti: uno spoglio e scuro terreno sabbioso circondato da un cyclorama bianco sul quale a volte si stagliano le silhouette dei personaggi. Costumi (pure di Hoheisel) di foggia moderna quanto anonima. Luci (Carsen e Peter van Praet) gestite con la proverbiale abilità del regista: illuminazione laterale, obliqua, retrostante.

Carsen, perseguendo l’obiettivo di enfatizzare gli aspetti più esistenzialisti del dramma, abolisce poi ogni sovrastruttura accessoria (non certo per fare della spending-review...) Quindi, oltre al minimalismo con cui caratterizza le scene, minimalizza o cancella tutto ciò che striderebbe con la sua concezione dell’opera: come i balli e le conseguenti coreografie. Che peraltro furono concepiti da Gluck-Calzabigi come parti integranti e non certo accessorie dell’opera, come ci conferma Giovanni Bietti nel suo intervento sul programma di sala. Sul quale è però sorprendente leggere un’affermazione del regista - nell’intervista rilasciata a Leonetta Bentivoglio - secondo il quale nella versione originale viennese del 1762 non ci sono danze! Beh, come spiegazione dei suoi barbari tagli, non c’è male...

In definitiva - a parte lo scippo consumato ai danni dell’ascoltatore, che si perde parecchia musica di ottima fattura - lo spettacolo rischia di diventare fin troppo serio se non monocorde. Se osserviamo la macro-struttura dei tre atti dell’opera, la potremmo (usando un termine musicale) definire come un semplice rondò: A-B-A-B-A. Dove le sezioni A sono caratterizzate da: giorno, luce e natura idilliaca; le B da notte, oscurità e natura orrida e infernale. Orbene, Carsen ci presenta invece solo uno scenario di tipo B, se si esclude il finale (Trionfi amore) peraltro abbastanza slavato. E meno male che il regista non ha ripetuto l’operazione perpetrata all’Alcina, dove aveva tagliato di netto il lieto-fine!

Parliamo adesso di Natura e Poesia. Se prendiamo ad esempio la prima scena, nell’originale ci troviamo una cerimonia funebre che avviene in un luogo incantevole, in mezzo ad alberi e fiori di ogni specie: il che accentua il contrasto lancinante con il dolore insostenibile di Orfeo - evocato dalla mirabile musica di Gluck - che in quegli elementi naturali riconosce i compagni dei suoi giorni felici passati con Euridice (In ogni tronco scrisse il misero Orfeo, Orfeo infelice: «Euridice, idol mio, cara Euridice»). Ebbene, se le parole hanno un senso, esso è totalmente tradito dalla scena proposta da Carsen, dove non c’è la minima traccia di Natura. Quanto alla Poesia, ditemi dove la si può trovare in una distesa di sabbia scura e in un corteo di popolani vestiti come becchini!  

Vengo ora ad Orfeo. Secondo Carsen è un poveraccio (everyman) come tutti noi, vittima di un destino avverso che gli ha tolto la persona più cara. Cosicchè, già al funerale, tira fuori un serramanico e cerca il suicidio... anticipato (rispetto a Gluck-Calzabigi). Sì, anticipato, perchè libretto e musica ci dicono che l’istinto suicida insorge in Orfeo soltanto dopo la seconda morte di Euridice, della quale lui si sente (ed è) unico responsabile, a causa della sua debolezza. Al funerale invece il suo atteggiamento è di temeraria sfida (Ho core anch’io...) ai numi di Acheronte e Averno che gli hanno sottratto la sposa, che lui si ripromette di recuperare alla vita prima ancora che Amore arrivi a supportarlo nell’impresa.  

Poi, per giustificare l’idea che si è fatto di Orfeo (un uomo qualunque, come tutti noi) ecco che Carsen (sempre nella citata intervista) afferma che nel testo di Calzabigi e nella musica di Gluck non ci sarebbe alcun riferimento allo status di artista (poeta e cantore) di Orfeo! Quando invece basta leggere il libretto e ascoltare gli interventi dell’arpa per convincersi del contrario. Insomma, il buon Carsen non ce la racconta giusta! 

Per lui i compagni di Orfeo, le Furie dell’Averno e gli Eroi dell’Eliso sono sempre le stesse persone: prima vive, poi morte e infagottate in bianchi sudari, poi rinate nell’Eliso e infine tornate vive ad accogliere i due amanti restituiti alla vita. Beh, a me pare una banalizzazione eccessiva del soggetto, conseguenza della sua totale smitizzazione perpetrata dal regista. Che poi ignora del tutto le precise modalità con le quali il mito pretende si realizzi la riconquista (e la seconda perdita) di Euridice. Le prime due scene dell’atto terzo (quella dove avviene il fattaccio e l’altra dove arriva provvidenzialmente Amore) dovrebbero essere ambientate ancora nell’aldilà infernale, poichè solo lì vale il divieto di sguardo. Invece Carsen già all’inizio dell’atto ci mostra Orfeo che trascina Euridice nell’aldiqua, rientrandovi precisamente dallo stesso passaggio impiegato per inoltrarsi nell’oltretomba (la fossa in cui la fanciulla era stata inumata) e ritrovandoci la giacca abbandonata a fine del primo atto, con annesso serramanico da usarsi per il secondo (per Carsen, non per Gluck) tentato suicidio. Ma se i due sono già riemersi nel mondo reale, non si capisce perchè lo sguardo debba esservi ancora vietato... 

Insomma, una serie di forzature (per me) francamente eccessive e giustificabili solo a fronte della scelta interpretativa di fondo compiuta dal regista. 

Ecco, come posso sintetizzare il tutto? Dicendo che: se ci si dimentica totalmente dei contenuti del soggetto originale e si fa propria la vision del regista, allora si può godere lo spettacolo e magari anche emozionarsi, poichè la suggestione che suscita questa messinscena è innegabile. 

Viceversa, è difficile andar oltre il rispetto e l’ammirazione per la professionalità con la quale l’allestimento è stato realizzato.

13 marzo, 2019

A Roma torna un Orfeo maschio


Al Costanzi sta arrivando (questa sera la primina giovani) l’Orfeo di Gluck, una co-produzione italo-franco-canadese affidata a Robert Carsen e già collaudata (mediamente con successo) nel 2018 a Parigi e prima ancora, nel 2011, a Toronto. Messinscena che Carsen ha peraltro riproposto rimaneggiando quella del 2006 a Chicago.

Come si sa, il ruolo del protagonista alle prime recite del 1762 a Vienna fu affidato ad un famoso castrato, il contralto Gaetano Guadagni, mentre nella versione francese del 1774 venne rivisto per la tessitura di tenore acuto. Tramontata l’epoca dei castrati, nella versione originale la parte venne tradizionalmente affidata ad un contralto en-travesti (prassi inaugurata già nell’800, con la sua versione ibrida, da Hector Berlioz). Ebbene, in questa produzione torna invece a sostenerla un maschio: è già successo l’anno scorso a Parigi (con Philippe Jaroussky, direzione di Fasolis) e alla COC nel 2011 (con Lawrence Zazzo, direzione di Bicket); ed era successo a Chicago nel 2006 (dove si esibì David Daniel, sempre con Bicket). Anche qui la cosa si ripete, protagonista Carlo Vistoli, il quale non è evidentemente (e per sua fortuna...) castrato ma - come i colleghi citati più sopra - controtenore.

Sull’opportunità e l’efficacia dell’impiego di queste voci (contraltisti come Vistoli, o sopranisti come Jaroussky) ci sono diverse correnti di pensiero: c’è chi lo disapprova, sostenendo che un contralto femmina en-travesti sia da preferire, poichè canta con voce naturale (come i castrati, per i quali furono scritte parti come quella di Orfeo); e chi all’opposto sostiene che un falsettista (se ben preparato) può imitare efficacemente la vocalità dei castrati, con il vantaggio di essere... di sesso maschile, quindi di per sè più appropriato, anche scenicamente, ad interpretare un ruolo di tal genere (poichè un Orfeo femmina rischia di trasportare la vicenda a... Saffo).

Beh, staremo a vedere e soprattutto sentire. Venerdi 15 ore 20 su Radio3 e - per ciò che mi riguarda - domenica 17 dal vivo.

18 maggio, 2014

L’Orfeo di Gluck con laBarocca

 

Chiusura di stagione in grande stile per laBarocca, l’ensemble di Ruben Jais specializzato nel repertorio del ‘6-700: con l’esecuzione in forma di concerto dell’opera più famosa di Gluck, Orfeo ed Euridice

Si tratta della versione originale (1762, Vienna) quindi in italiano e senza le aggiunte (oltre alla lingua) prodotte per Parigi nel 1774: insomma, la versione più autentica, una cui pregevole esecuzione si può ascoltare qui con Muti a Salzburg nel 2010.

La leggenda, o il mito se si preferisce, di Orfeo è arcinota ed è stata da sempre oggetto di opere letterarie, figurative e musicali: tutti sanno che il povero cantautore, ammesso dagli dei a recuperare dall’oltretomba la consorte Euridice (defunta causa morso di serpe) non sa resistere all’obbligo di non guardarla prima di tornare all’aldiqua, e così la perde definitivamente, ritirandosi in montagna a fare… l’omosessuale (!)

Non così nell’opera di Gluck, dove ci si inventò un incredibile lieto fine, con la seconda resurrezione della bella e il trionfo di Amore. Ecco come si giustificò l’autore della clamorosa innovazione, Ranieri de’ Calzabigi: Per adattar la favola alle nostre scene ho dovuto cambiar la catastrofe. Insomma, per festeggiare degnamente l’onomastico dell’Imperatore… si cambiò anche la storia. Ma fu la storia della musica a cambiare sotto la spinta del combinato disposto del libretto di Calzabigi e della musica di Gluck: un’autentica miscela esplosiva che mutò repentinamente tutte le regole del gioco nel mondo del teatro musicale, gettando una specie di ponte fra la Camerata dei Bardi e… Wagner.

Opera che si ricorda superficialmente per l’aria Che farò senza Euridice? ma che contiene mille altre perle, che ieri Ruben Jais ha splendidamente portato alla luce, con la sua proverbiale cura per il suono e per l’equilibrio delle voci. L’orchestra comprendeva due corni barocchi, due chalumeau e l’arpetta (la lira di Orfeo) dislocata opportunamente al proscenio. Impeccabile l’Ensemble vocale di Luca Dellacasa, autentico protagonista dell’opera. Delle tre soliste, Sonia Prina ha confermato le sue ben note qualità, con un’interpretazione appassionata del personaggio di Orfeo; bene anche Maria Grazia Schiavo (Euridice) a dispetto di una voce che tende al vetroso nelle note alte; sufficiente Francesca Cassinari (Amore), voce piuttosto piccola e non molto penetrante. 

In definitiva, una prova di grande livello dei complessi de laBarocca, che hanno meritato ovazioni da una platea abbastanza gremita e concesso il bis del conclusivo Trionfi Amore.
  

01 ottobre, 2009

L’Orfeo alla Grande Scala

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Devo premettere che le recensioni, impressioni, critiche lette sui giornali e sul web dopo le prime rappresentazioni mi avevano un pochino fatto dubitare sulla convenienza dell’investimento di ben 72€ per un posto (arretrato) in palco di IV Ordine, fortunosamente recuperato su internet pochi giorni fa (unico, fra altri posti offerti al minimo di 180€). In particolare si criticava l’idea stessa di rappresentare Monteverdi negli immensi spazi (ambiente e scena) del Piermarini, e si rimpiangeva come non mai la fine invereconda fatta fare alla Piccola Scala, struttura ideale per ospitare simili spettacoli.

Orbene, al tirar delle somme, mi sentirei di concludere che l’investimento non sia andato per niente in fumo. Intanto perché bisogna pur prendere ciò che il convento (pardon… la Fondazione) passa; poi perché il livello complessivo della rappresentazione mi è parso francamente più che dignitoso. E infine – e soprattutto - perché assistere a L’Orfeo è come rivedere in un film tutta la meravigliosa storia della nascita dell’Opera musicale, da cui poi si diramarono il melodramma, il belcanto e finalmente gli stessi drammi wagneriani! Storia tutta italiana, che si sviluppa sull’asse Firenze-Mantova-Venezia. La Mantova dei Gonzaga, baricentro di questo asse, che rivaleggia con la Firenze dei Medici, dei Bardi, dei Peri, e anche – non canta forse Lasciate ogni speranza… la Speranza di Monteverdi nell’atto terzo? - di Dante, a sua volta ispirato dal mantovano Virgilio! E la Venezia che ispira Monteverdi attraverso l’opera e la ricerca di Gioseffo Zarlino, di cui Monteverdi stesso occuperà il posto di Maestro di Cappella della Serenissima. Ma anche la Venezia di Tiziano Vecellio, cui appropriatamente Robert Wilson si ispira per una delle scene principali (il viale di cipressi dalla Venere con organista e Cupido).

Confermo che la mega-struttura scaligera poco si addice a rappresentare L’Orfeo, oltretutto se i mezzi (strumentisti e scene) sono, credo volutamente, più o meno gli stessi di cui dispose Monteverdi quel benedetto 24 febbraio del 1607, quando creò per la prima volta il suo capolavoro in una stanzetta (sempre relativamente alle dimensioni del ducale palazzo) dell’appartamento di Margherita Gonzaga.

Sul fronte musicale, Alessandrini ha proprio tenuto a smorzare al massimo, già dall’iniziale toccata, dove i cornetti non hanno certo dato un suono molto squillante, come siamo abituati a sentire. Del resto era giusto che gli strumenti – quasi tutti d’epoca, mi è parso, con necessità di riaccordare l’organetto e rifar la tesatura delle corde di un’arpa nell’intervallo - non andassero a coprire le voci (spesso vocine) che faticavano ad emergere dall’immenso palcoscenico. Voci comunque apprezzabili (Nigl su tutti).

Quanto alla scenografìa, direi un minimalismo proprio da mancanza di mezzi. Filologicamente interessante, come detto, l’idea della scena mutuata dal Tiziano, ma lì sembrava ci fosse un deserto con un filare di cipressi posticci che emergono da una moquette da campo di calcetto. Con tutto quel che è costato rifare il palcoscenico e le relative macchine, non si è nemmeno fatto scendere Apollo dall’alto (curiosamente invece, al suo posto, i cipressi!) Vero che il barocco di Monteverdi non è ancora quello di Händel, ma forse qui si è esagerato nel risparmiare sugli effetti magici (per dire: Caronte non solo non ha una barca, ma nemmeno un giaciglio su cui addormentarsi e così fa il sonnambulo).

Di grande effetto invece la regìa dei personaggi. Tutti si muovono al rallentatore e con eleganti gesti – oltre al cerone bianco delle facce - da mimo (complimenti ai cantanti per la prestazione). Nessun cedimento all’esteriorità e alle reazioni brusche: tutto deve essere interiorizzato. E così, ad esempio, la notizia ferale portata dalla Messaggera ha il solo effetto di far aggrottare un sopracciglio ad Orfeo: perché è la musica (oltre che l’abbassamento delle luci) ad incaricarsi di rappresentarci la catastrofe che colpisce quelle anime. L’unico colpo a sorpresa è un rumore da vaso di cristallo infranto, che si ode al momento tòpico dell’Atto IV, rumore che provoca il fatale sguardo all’indietro di Orfeo. Perfetta la resa della definitiva perdita di Euridice: l’occhio di bue che la seguiva si spegne subitaneamente, e lei rimane nella semi-oscurità, mentre lentamente arretra verso gli inferi. Apprezzabile la scelta del ballerino (ieri Nicola Strada) in veste di uccello, che appare e ricompare con le sue leggiadre movenze. Discutibili invece alcune scelte, come il restare in scena di Orfeo fra il primo e il secondo atto (e quando si sposa, allora?) anche se magari spiegabili con i tempi della partitura. O come - all’inizio dell’Atto conclusivo - il far udire solo le voci dei pastori (che cantano, come l’Eco poco dopo, giù nella buca dell’orchestra) lasciando la scena totalmente spoglia: un solo striminzito cipresso, prima che arrivi – a piedi – Apollo e che i filari calino, al suo posto, dall’alto.

Finale quindi apollineo, come da partitura, e non da 24/02/1607. Nel breve dialogo fra il dio ed il figliolo si intravede persino qualcosa che comparirà quasi tre secoli dopo: l’apparizione di Brünnhilde a Siegmund!

Alla fine calorosi applausi per tutti, nessuno escluso. Quindi, bella serata e grazie a chi ci ha permesso di godere di questo interessante pezzo del nostro patrimonio di cultura, arte e bellezza. Peccato che poi il tutto venga regolarmente snobbato, quando non addirittura disprezzato, dall’attuale (in)civiltà che ci circonda. Un andazzo che i nostri simpatici il gatto e la volpe (Brunetta&Bondi) non paiono proprio intenzionati ad ostacolare, anzi.

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