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Devo premettere che le recensioni, impressioni, critiche lette sui giornali e sul web dopo le prime rappresentazioni mi avevano un pochino fatto dubitare sulla convenienza dell’investimento di ben 72€ per un posto (arretrato) in palco di IV Ordine, fortunosamente recuperato su internet pochi giorni fa (unico, fra altri posti offerti al minimo di 180€). In particolare si criticava l’idea stessa di rappresentare Monteverdi negli immensi spazi (ambiente e scena) del Piermarini, e si rimpiangeva come non mai la fine invereconda fatta fare alla Piccola Scala, struttura ideale per ospitare simili spettacoli.
Orbene, al tirar delle somme, mi sentirei di concludere che l’investimento non sia andato per niente in fumo. Intanto perché bisogna pur prendere ciò che il convento (pardon… la Fondazione) passa; poi perché il livello complessivo della rappresentazione mi è parso francamente più che dignitoso. E infine – e soprattutto - perché assistere a L’Orfeo è come rivedere in un film tutta la meravigliosa storia della nascita dell’Opera musicale, da cui poi si diramarono il melodramma, il belcanto e finalmente gli stessi drammi wagneriani! Storia tutta italiana, che si sviluppa sull’asse Firenze-Mantova-Venezia. La Mantova dei Gonzaga, baricentro di questo asse, che rivaleggia con la Firenze dei Medici, dei Bardi, dei Peri, e anche – non canta forse Lasciate ogni speranza… la Speranza di Monteverdi nell’atto terzo? - di Dante, a sua volta ispirato dal mantovano Virgilio! E la Venezia che ispira Monteverdi attraverso l’opera e la ricerca di Gioseffo Zarlino, di cui Monteverdi stesso occuperà il posto di Maestro di Cappella della Serenissima. Ma anche la Venezia di Tiziano Vecellio, cui appropriatamente Robert Wilson si ispira per una delle scene principali (il viale di cipressi dalla Venere con organista e Cupido).
Confermo che la mega-struttura scaligera poco si addice a rappresentare L’Orfeo, oltretutto se i mezzi (strumentisti e scene) sono, credo volutamente, più o meno gli stessi di cui dispose Monteverdi quel benedetto 24 febbraio del 1607, quando creò per la prima volta il suo capolavoro in una stanzetta (sempre relativamente alle dimensioni del ducale palazzo) dell’appartamento di Margherita Gonzaga.
Sul fronte musicale, Alessandrini ha proprio tenuto a smorzare al massimo, già dall’iniziale toccata, dove i cornetti non hanno certo dato un suono molto squillante, come siamo abituati a sentire. Del resto era giusto che gli strumenti – quasi tutti d’epoca, mi è parso, con necessità di riaccordare l’organetto e rifar la tesatura delle corde di un’arpa nell’intervallo - non andassero a coprire le voci (spesso vocine) che faticavano ad emergere dall’immenso palcoscenico. Voci comunque apprezzabili (Nigl su tutti).
Quanto alla scenografìa, direi un minimalismo proprio da mancanza di mezzi. Filologicamente interessante, come detto, l’idea della scena mutuata dal Tiziano, ma lì sembrava ci fosse un deserto con un filare di cipressi posticci che emergono da una moquette da campo di calcetto. Con tutto quel che è costato rifare il palcoscenico e le relative macchine, non si è nemmeno fatto scendere Apollo dall’alto (curiosamente invece, al suo posto, i cipressi!) Vero che il barocco di Monteverdi non è ancora quello di Händel, ma forse qui si è esagerato nel risparmiare sugli effetti magici (per dire: Caronte non solo non ha una barca, ma nemmeno un giaciglio su cui addormentarsi e così fa il sonnambulo).
Di grande effetto invece la regìa dei personaggi. Tutti si muovono al rallentatore e con eleganti gesti – oltre al cerone bianco delle facce - da mimo (complimenti ai cantanti per la prestazione). Nessun cedimento all’esteriorità e alle reazioni brusche: tutto deve essere interiorizzato. E così, ad esempio, la notizia ferale portata dalla Messaggera ha il solo effetto di far aggrottare un sopracciglio ad Orfeo: perché è la musica (oltre che l’abbassamento delle luci) ad incaricarsi di rappresentarci la catastrofe che colpisce quelle anime. L’unico colpo a sorpresa è un rumore da vaso di cristallo infranto, che si ode al momento tòpico dell’Atto IV, rumore che provoca il fatale sguardo all’indietro di Orfeo. Perfetta la resa della definitiva perdita di Euridice: l’occhio di bue che la seguiva si spegne subitaneamente, e lei rimane nella semi-oscurità, mentre lentamente arretra verso gli inferi. Apprezzabile la scelta del ballerino (ieri Nicola Strada) in veste di uccello, che appare e ricompare con le sue leggiadre movenze. Discutibili invece alcune scelte, come il restare in scena di Orfeo fra il primo e il secondo atto (e quando si sposa, allora?) anche se magari spiegabili con i tempi della partitura. O come - all’inizio dell’Atto conclusivo - il far udire solo le voci dei pastori (che cantano, come l’Eco poco dopo, giù nella buca dell’orchestra) lasciando la scena totalmente spoglia: un solo striminzito cipresso, prima che arrivi – a piedi – Apollo e che i filari calino, al suo posto, dall’alto.
Finale quindi apollineo, come da partitura, e non da 24/02/1607. Nel breve dialogo fra il dio ed il figliolo si intravede persino qualcosa che comparirà quasi tre secoli dopo: l’apparizione di Brünnhilde a Siegmund!
Orbene, al tirar delle somme, mi sentirei di concludere che l’investimento non sia andato per niente in fumo. Intanto perché bisogna pur prendere ciò che il convento (pardon… la Fondazione) passa; poi perché il livello complessivo della rappresentazione mi è parso francamente più che dignitoso. E infine – e soprattutto - perché assistere a L’Orfeo è come rivedere in un film tutta la meravigliosa storia della nascita dell’Opera musicale, da cui poi si diramarono il melodramma, il belcanto e finalmente gli stessi drammi wagneriani! Storia tutta italiana, che si sviluppa sull’asse Firenze-Mantova-Venezia. La Mantova dei Gonzaga, baricentro di questo asse, che rivaleggia con la Firenze dei Medici, dei Bardi, dei Peri, e anche – non canta forse Lasciate ogni speranza… la Speranza di Monteverdi nell’atto terzo? - di Dante, a sua volta ispirato dal mantovano Virgilio! E la Venezia che ispira Monteverdi attraverso l’opera e la ricerca di Gioseffo Zarlino, di cui Monteverdi stesso occuperà il posto di Maestro di Cappella della Serenissima. Ma anche la Venezia di Tiziano Vecellio, cui appropriatamente Robert Wilson si ispira per una delle scene principali (il viale di cipressi dalla Venere con organista e Cupido).
Confermo che la mega-struttura scaligera poco si addice a rappresentare L’Orfeo, oltretutto se i mezzi (strumentisti e scene) sono, credo volutamente, più o meno gli stessi di cui dispose Monteverdi quel benedetto 24 febbraio del 1607, quando creò per la prima volta il suo capolavoro in una stanzetta (sempre relativamente alle dimensioni del ducale palazzo) dell’appartamento di Margherita Gonzaga.
Sul fronte musicale, Alessandrini ha proprio tenuto a smorzare al massimo, già dall’iniziale toccata, dove i cornetti non hanno certo dato un suono molto squillante, come siamo abituati a sentire. Del resto era giusto che gli strumenti – quasi tutti d’epoca, mi è parso, con necessità di riaccordare l’organetto e rifar la tesatura delle corde di un’arpa nell’intervallo - non andassero a coprire le voci (spesso vocine) che faticavano ad emergere dall’immenso palcoscenico. Voci comunque apprezzabili (Nigl su tutti).
Quanto alla scenografìa, direi un minimalismo proprio da mancanza di mezzi. Filologicamente interessante, come detto, l’idea della scena mutuata dal Tiziano, ma lì sembrava ci fosse un deserto con un filare di cipressi posticci che emergono da una moquette da campo di calcetto. Con tutto quel che è costato rifare il palcoscenico e le relative macchine, non si è nemmeno fatto scendere Apollo dall’alto (curiosamente invece, al suo posto, i cipressi!) Vero che il barocco di Monteverdi non è ancora quello di Händel, ma forse qui si è esagerato nel risparmiare sugli effetti magici (per dire: Caronte non solo non ha una barca, ma nemmeno un giaciglio su cui addormentarsi e così fa il sonnambulo).
Di grande effetto invece la regìa dei personaggi. Tutti si muovono al rallentatore e con eleganti gesti – oltre al cerone bianco delle facce - da mimo (complimenti ai cantanti per la prestazione). Nessun cedimento all’esteriorità e alle reazioni brusche: tutto deve essere interiorizzato. E così, ad esempio, la notizia ferale portata dalla Messaggera ha il solo effetto di far aggrottare un sopracciglio ad Orfeo: perché è la musica (oltre che l’abbassamento delle luci) ad incaricarsi di rappresentarci la catastrofe che colpisce quelle anime. L’unico colpo a sorpresa è un rumore da vaso di cristallo infranto, che si ode al momento tòpico dell’Atto IV, rumore che provoca il fatale sguardo all’indietro di Orfeo. Perfetta la resa della definitiva perdita di Euridice: l’occhio di bue che la seguiva si spegne subitaneamente, e lei rimane nella semi-oscurità, mentre lentamente arretra verso gli inferi. Apprezzabile la scelta del ballerino (ieri Nicola Strada) in veste di uccello, che appare e ricompare con le sue leggiadre movenze. Discutibili invece alcune scelte, come il restare in scena di Orfeo fra il primo e il secondo atto (e quando si sposa, allora?) anche se magari spiegabili con i tempi della partitura. O come - all’inizio dell’Atto conclusivo - il far udire solo le voci dei pastori (che cantano, come l’Eco poco dopo, giù nella buca dell’orchestra) lasciando la scena totalmente spoglia: un solo striminzito cipresso, prima che arrivi – a piedi – Apollo e che i filari calino, al suo posto, dall’alto.
Finale quindi apollineo, come da partitura, e non da 24/02/1607. Nel breve dialogo fra il dio ed il figliolo si intravede persino qualcosa che comparirà quasi tre secoli dopo: l’apparizione di Brünnhilde a Siegmund!
Alla fine calorosi applausi per tutti, nessuno escluso. Quindi, bella serata e grazie a chi ci ha permesso di godere di questo interessante pezzo del nostro patrimonio di cultura, arte e bellezza. Peccato che poi il tutto venga regolarmente snobbato, quando non addirittura disprezzato, dall’attuale (in)civiltà che ci circonda. Un andazzo che i nostri simpatici il gatto e la volpe (Brunetta&Bondi) non paiono proprio intenzionati ad ostacolare, anzi.
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