XIV

da prevosto a leone
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04 marzo, 2013

C’è del comico anche a Verona


Ieri pomeriggio a Verona, in un Filarmonico che purtroppo presentava parecchi vuoti, la prima di Un giorno di regno, che riprende una stagionata produzione del Regio di Parma e del Comunale di Bologna, già presentata anche al Piermarini dall’Accademia della Scala nel 2001, per la regìa di Pier Luigi Pizzi. E anche oggi gli interpreti sono giovani di quell’Accademia (o da essa transitati) diretti dall’ottimo Stefano Ranzani.

La seconda opera composta da Verdi (dopo Oberto e prima di Nabucco) è anche rimasta, fino a Falstaff, l’unica di genere leggero: quella di Felice Romani è una commedia degli equivoci, a partire dalla località dove ha luogo la vicenda, Brest, che può indifferentemente trovarsi in Francia o in Bielorussia (! una pacchia per registi in cerca di ri-ambientazioni originali) e dove troviamo un finto sovrano polacco, una bella ragazza che il padre nobilastro vuol sposare ad un vecchio riccastro mentre lei ama un giovane squattrinato, una vedova ancor giovane e piacente che si crede abbandonata dall’amante e poi scopre che è il finto sovrano… e un lieto fine dove due coppie si uniscono (o ri-uniscono) in nome dell’amore e dove i due vecchi babbioni attaccati solo all’interesse devono far buon viso a cattiva sorte.

Insomma, un libretto a prima vista alquanto strampalato, come mille altri che avevano spopolato fra il ‘700 e l’inizio ‘800 e dai quali avevano principalmente tratto vantaggio i vari Rossini e Donizetti. Peccato che nel 1840 tutto ciò fosse ormai passato in archivio: il pubblico chiedeva contenuti assai diversi, e se proprio voleva ancora divertirsi con qualcosa di giocoso preferiva di gran lunga le opere famose e consolidate di maestri ormai entrati nella storia a improbabili e nostalgiche (almeno così giudicate) scimmiottature.

Ma il povero Verdi, che pur si sentiva cordialmente estraneo a quel genere di opere, dovette suo malgrado chinare la testa davanti ad una specie di aut-aut della Scala, della serie: o mangi ‘sta minestra, o salti dalla finestra e qui non ci metti più piede. Per sopramercato, lui era ancora convalescente dallo choc per una incredibile catena di tragedie familiari e quindi si può immaginare in quale stato d’animo si mettesse a comporre questo Finto Stanislao.    

Ergo nessuna meraviglia se il 5 settembre del 1840 il pubblico della Scala decretò un clamoroso pollice verso che indusse il teatro a cancellare ogni recita successiva.   

Eppure… eppure, se analizziamo le cose con un minimo di serenità scopriamo che – lungi dall’essere un capolavoro, su questo non ci piove – si tratta di un’opera tutt’altro che da buttare, e guarda caso proprio a partire (sembrerebbe assurdo) dal libretto inattuale del Romani. Nel quale troviamo sì una trama assai ridicola e improbabile, ma anche un paio di caratterizzazioni di personaggi che sono tutt’altro che insulse e vanesie.

E sono propriamente i due protagonisti: lui, Belfiore, il finto Stanislao; e lei, la Marchesa del Poggio, sua amante. Due personaggi che si staccano decisamente dalla prosaica e meschina mediocrità dei due vecchi intrallazzatori (il Barone e il Tesoriere) intenti soltanto a perseguire i loro venali obiettivi, propri della nobiltà parassitaria e reazionaria.

Belfiore e la Marchesa evidentemente rappresentano forze emergenti dall’establishment incartapecorito della società del loro tempo: lui a prima vista parrebbe un tipo di avventuriero poco raccomandabile, ma poi si scopre che, oltre a godere della totale fiducia di un Re (di cui veste i panni non in quanto imbroglione e millantatore, ma nello svolgimento di una delicata missione politica) lui è anche un uomo sinceramente innamorato (il suo temporaneo abbandono della Marchesa, da lei vissuto come tradimento, ha appunto serissime motivazioni) e un liberale convinto; lei è una donna emancipata, assetata (ma non certo a tutti i costi) d’amore e pronta a contrastare le ammuffite convenzioni della società. Ecco: due individui con una visione progressista del mondo, prova ne sia che ciascuno per proprio conto e in modo diverso si adopera per promuovere l’unione dei due giovani innamorati (Giulietta ed Edoardo) contro la volontà della coppia reazionaria Barone-Tesoriere.

Anche la figura di Giulietta (una ragazza che ha il coraggio di contestare apertamente le stupide convenzioni della società, una specie di Rosina insomma) e la sana filosofia della gente comune (che non manca di irridere l’ipocrisia dei potenti) contribuiscono a dare al libretto uno spessore non proprio evanescente.     

Sul piano musicale, di certo siamo di fronte ad una anacronistica riproposizione di abusati stilemi rossiniani e donizettiani, ma attenzione: anacronistica per il pubblico di quei tempi, che viveva fenomeni di trasformazione della società assai tumultuosi e legittimamente pretendeva anche dal teatro d’opera italiano l’innovazione e il progresso che avanzava in Europa. Non per noi che osserviamo con 170 anni di prospettiva storica e abbiamo alle spalle una straordinaria evoluzione della civiltà musicale, il che da un lato rimpicciolisce le distanze fra quei tempi e quei fenomeni (fra Rossini e questo Verdi, per intenderci) e dall’altro ci consente di valutare il livello estetico ed artistico di un’opera come questa senza l’emotività e i condizionamenti di cui naturalmente soffrivano il pubblico e la critica di metà ‘800.    

Ecco perchè oggi possiamo serenamente constatare come il giovine ed ancora acerbo Verdi fosse riuscito – nelle condizioni ricordate e magari senza rendersene conto – a sfornare un oggetto tutt’altro che impresentabile. Soprattutto se viene oggi presentato con il raffinato e intelligente equilibrio dell’allestimento di Pizzi – ripreso da Paolo Panizza - e con la lodevole dedizione della compagnia di canto dei giovani perfezionandi dell’Accademia scaligera.      

Lo spettacolo di Pizzi-Panizza è invero godibilissimo, con la sua ambientazione nelle terre verdiane, fra abbondante gastronomia locale, prosciutti, forme di parmigiano, mortadelle e dolci assortiti in gran quantità, brumosi paesaggi padani e vaghi riferimenti di natura architettonica. Bellissimi poi i costumi di stile settecentesco, caratterizzati da sgargianti colori, sfarzosi senza però cadere nel ridicolo o nel pacchiano. E poi la simpatica trovata di aggiungere elementi coreografici, del tutto appropriati allo scenario, a partire dalla presentazione dei principali personaggi dell’opera durante l’esecuzione della Sinfonia.

Fra le voci si è distinto il protagonista, Filippo Polinelli, per ottima prestazione vocale e brillante presenza scenica; accanto a lui Teresa Romano, una discreta Marchesa, pur con qualche eccesso urlacchiante, che lei si è ampiamente fatta perdonare (smile!) con l’esibizione, gustosamente inventata da Pizzi, delle sue seducenti grazie, nella peraltro castissima scena della vasca da bagno.

Non fosse per il timbro di voce tendente al metallico, la carioca Ludmilla Bauerfeldt (Giulietta) si meriterebbe un voto più che discreto. Il suo giovane amante Edoardo, al secolo Jaeyoon Jung - che era scritturato per altre recite, ma ha sostituito all’ultimo momento l’indisposto Scotto di Luzio - non ha demeritato, anche se il suo registro grave, già dal SOL a centro rigo purtroppo risulta quasi inudibile.

Brillanti i due buffi: Filippo Fontana (Tesoriere) e soprattutto Simon Lim (il Barone). I comprimari Ian Shin e Carlos Cardoso hanno degnamente completato il cast.

Note di merito anche per signori e signore del coro di Armando Tasso e per il Corpo di ballo dell’Arena di Maria Grazia Garofoli.

Quanto a Ranzani, ai miei orecchi ha il merito di aver cavato il meglio sia dalla partitura, aggredita con deciso cipiglio e senza ipocritamente nasconderne anche gli aspetti più… acerbi, né smussarne le frequenti spigolosità, che dagli strumenti della ridotta ma agguerrita formazione veronese e dalle voci, da lui letteralmente calamitate e condotte per mano.

Calorosissimo e per me meritatissimo successo, con lunghe acclamazioni finali, seguite agli applausi a scena aperta che avevano accolto quasi tutti i numeri musicali. Insomma, complimenti alla Fondazione dell’Arena per questa proposta decisamente interessante e lodevolmente realizzata. 

14 dicembre, 2011

Un “Abnorme Falstaff” a Verona


Ieri sera inaugurazione della stagione 11-12 del Filarmonico di Verona con Falstaff. Tre ore e quindici minuti sono effettivamente una durata abnorme per la rappresentazione di un'opera che non raggiunge le due di pura musica: oltre ai due intervalli di 20 minuti abbondanti, abbiamo anche avuto tre attese (a luci spente in sala) per i cambi di scena a vista, effettuati con esasperante quanto studiata lentezza dai ragazzi della squadra tecnica (anche loro usciti alla fine per il meritato – a questo punto – applauso). E dire che Falstaff è un'opera così travolgente che si potrebbe addirittura rappresentare tutta d'un fiato, senza per questo chieder troppo al pubblico (salvo la rinuncia a non indispensabili passerelle nel foyer… smile!) ma almeno primo e secondo atto non si potevano tranquillamente accorpare?

Il piccolo Filarmonico non è nemmeno esaurito (anzi c'è anche chi ha approfittato delle pause per squagliarsela anzitempo) e il pubblico mi è parso elegante sì, ma sufficientemente moderato nell'ostentazione di lusso e ricchezza (forse perché di questi tempi è meglio non dare troppo nell'occhio, onde evitare che a qualcuno vengano tentazioni… patrimoniali, smile!) Età media da pensionati (ma su questi la Fornero non avrebbe motivi per piangere, ri-smile!) a riprova che il teatro lirico non sembra convincere i giovani, ahinoi, pur con prezzi non proibitivi. Chissà se la situazione cambierà in meglio quando anche da queste parti, invece del decrepito Euro, circolerà il Padulo (smile!)

Falstaff è l'opera-testamento di Verdi, o forse sarebbe meglio definirla l'estremo sberleffo (meglio… la burla!) di un genio appagato, ma anche disincantato e capace di sorridere di se stesso e dell'intero mondo del teatro musicale, al quale aveva già dato tutto e dal quale aveva anche ricevuto moltissimo. La partitura è disseminata di reminiscenze, citazioni (soprattutto, ma non solo, auto-) e richiami seri o parodistici a forme e contenuti di tanta musica che aveva percorso l'intero ottocento. Ci troviamo riferimenti alla forma-sonata, alla fuga, al canto gregoriano, a quartetti di Haydn, alla quinta di Beethoven, a Mozart e Weber; e poi a Traviata, Trovatore, Aida, al Requiem, ma anche a Carmen, ai Cantori e a Parsifal, giusto per citare quasi a caso… In sostanza, una specie di summa di tanta (se non tutta la) musica che era stata composta o rivalutata in quel secolo, che rimarrà nella storia come il più fecondo di innovazioni e di progresso della nostra civiltà musicale.

Nella sua monumentale biografia di Gustav Mahler, H.-L. de La Grange ci informa di quanta autentica adorazione avesse il maestro boemo per Falstaff, di cui fu artefice di due storiche prime nel mondo tedesco: nel gennaio del 1894 ad Amburgo, a poco meno di un anno dall'esordio scaligero dell'opera, e 10 anni dopo alla Hofoper. E quanta meticolosità e scrupolo mettesse nell'interpretazione della partitura (la cui strumentazione considerava addirittura rivoluzionaria e da cui prese spunti per sè) è testimoniato da chi assistette alle prove per le rappresentazioni amburghesi. Nel primo atto, le quattro comari, alla lettura delle missive del grasso-gradasso (dopo che Alice ha cantato i mirabili versi e il viso tuo su me risplenderà / come una stella sull'immensità) si fanno una bella sghignazzata, sulla triade di MI maggiore, ben 16 Ah!, su altrettante crome (tranne l'ultimo, una semiminima). Il tutto verrà ripetuto pari-pari in finale d'atto:

Ecco, Mahler, per dare a queste risatine un effetto più naturale, chiedeva alle cantanti di interporre due impercettibili pause dopo il secondo e il terzo gruppo di 4 Ah!

Questa premessa serviva ad introdurre il discorso su Daniele Rustioni… Che forse non sa di Mahler, o magari lo sa, ma preferisce restare fedele alla lettera del Guiseppe (così in teutonia, smile!) Lui è ormai più che una promessa, ha solo 28 anni ma sta rapidamente scalando posizioni in campo internazionale. Evidentemente la consuetudine con maestri di gran talento (Pappano e Noseda in primo luogo) gli ha permesso di raggiungere rapidamente una grande maturità, che anche ieri è emersa in modo evidente. Non solo il gesto e la capacità di tenere in pugno orchestra e palco fanno di questo ragazzo un talento naturale, ma la qualità del suono e la chiarezza dell'interpretazione sono lì a testimoniare del suo lavoro in profondità, che non può non essere alla base del risultato. Insomma, una bella realtà italiana, che già oggi non sfigura di fronte ad altri giovani stranieri, ormai arrivati.

Al centro della scena è Alberto Mastromarino, sul cui aspetto fisico si direbbe che Falstaff sia stato pensato e modellato(!) E lui il suo fisico ce lo mette coraggiosamente in mostra, allorquando rimane in scena coperto solo da mutandoni, all'inizio dell'atto conclusivo, dopo il bagno nel canale del Tamigi. Quando si dice immedesimazione nel ruolo! Ma per fortuna fa la sua bella figura anche la voce, potente nelle espressioni più truci, ma anche ricca delle sfumature che caratterizzano il personaggio. Per lui gran successo.

Ma tutta la compagnia di canto pare bene assortita, a cominciare da Vittorio Vitelli, l'altro baritono che impersona Ford-Fontana (voce forse meno penetrante di quella di Mastromarino) e che sé l'è cavata bene nella sua aria di sogno-realtà. Saverio Fiore ha dignitosamente tenuto il ruolo di Cajus, mentre Francesco Demuro mi è parso un Fenton discreto, anche se la sua vocina a volte ha stentato a passare adeguatamente. Buoni anche Nicola Pamio e il gigantesco Ziyan Atfeh (Bardolfo e Pistola).

Passando al gineceo… sugli scudi l'efficace macchietta di Quickly, impersonata fantasticamente nella parte attoriale e assai efficacemente in quella vocale da Elisabetta Fiorillo. Brava anche Manuela Custer (Meg) e più che discrete l'Alice di Virginia Tola e la Nannetta di Serena Gamberoni.

Completano il quadro e meritano un plauso il Coro di Armando Tasso e il Corpo di ballo di Maria Grazia Garofoli, che hanno reso il finale in modo davvero efficace.

Luca Guadagnino è un giovane regista cinematografico che si cimenta ora con il teatro musicale. Questa sua proposta resta saldamente ancorata alla tradizione, senza velleità di inventare chissà quali significati astrusi di un'opera solare e scanzonata come questa. Molto buona la gestione dei movimenti dei personaggi. Forse l'unico tocco di originalità è la scena che Francesca di Mottola ci propone per la casa di Ford (seconda parte del primo atto): costruzioni moresche, una palma e una vela sullo sfondo: L'Italiana in Algeri? Forse un omaggio all'opera buffa per eccellenza? (La palma per la verità torna poi allusivamente anche nell'atto conclusivo.)

Tirando le somme, uno spettacolo più che degno, che conferma come in provincia (i veronesi non se la prendano…) si facciano ancora cose egregie.
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