Ieri sera inaugurazione della stagione 11-12 del Filarmonico di Verona con Falstaff. Tre ore e quindici minuti sono effettivamente una durata abnorme per la rappresentazione di un'opera che non raggiunge le due di pura musica: oltre ai due intervalli di 20 minuti abbondanti, abbiamo anche avuto tre attese (a luci spente in sala) per i cambi di scena a vista, effettuati con esasperante quanto studiata lentezza dai ragazzi della squadra tecnica (anche loro usciti alla fine per il meritato – a questo punto – applauso). E dire che Falstaff è un'opera così travolgente che si potrebbe addirittura rappresentare tutta d'un fiato, senza per questo chieder troppo al pubblico (salvo la rinuncia a non indispensabili passerelle nel foyer… smile!) ma almeno primo e secondo atto non si potevano tranquillamente accorpare?
Il piccolo Filarmonico non è nemmeno esaurito (anzi c'è anche chi ha approfittato delle pause per squagliarsela anzitempo) e il pubblico mi è parso elegante sì, ma sufficientemente moderato nell'ostentazione di lusso e ricchezza (forse perché di questi tempi è meglio non dare troppo nell'occhio, onde evitare che a qualcuno vengano tentazioni… patrimoniali, smile!) Età media da pensionati (ma su questi la Fornero non avrebbe motivi per piangere, ri-smile!) a riprova che il teatro lirico non sembra convincere i giovani, ahinoi, pur con prezzi non proibitivi. Chissà se la situazione cambierà in meglio quando anche da queste parti, invece del decrepito Euro, circolerà il Padulo (smile!)
Falstaff è l'opera-testamento di Verdi, o forse sarebbe meglio definirla l'estremo sberleffo (meglio… la burla!) di un genio appagato, ma anche disincantato e capace di sorridere di se stesso e dell'intero mondo del teatro musicale, al quale aveva già dato tutto e dal quale aveva anche ricevuto moltissimo. La partitura è disseminata di reminiscenze, citazioni (soprattutto, ma non solo, auto-) e richiami seri o parodistici a forme e contenuti di tanta musica che aveva percorso l'intero ottocento. Ci troviamo riferimenti alla forma-sonata, alla fuga, al canto gregoriano, a quartetti di Haydn, alla quinta di Beethoven, a Mozart e Weber; e poi a Traviata, Trovatore, Aida, al Requiem, ma anche a Carmen, ai Cantori e a Parsifal, giusto per citare quasi a caso… In sostanza, una specie di summa di tanta (se non tutta la) musica che era stata composta o rivalutata in quel secolo, che rimarrà nella storia come il più fecondo di innovazioni e di progresso della nostra civiltà musicale.
Nella sua monumentale biografia di Gustav Mahler, H.-L. de La Grange ci informa di quanta autentica adorazione avesse il maestro boemo per Falstaff, di cui fu artefice di due storiche prime nel mondo tedesco: nel gennaio del 1894 ad Amburgo, a poco meno di un anno dall'esordio scaligero dell'opera, e 10 anni dopo alla Hofoper. E quanta meticolosità e scrupolo mettesse nell'interpretazione della partitura (la cui strumentazione considerava addirittura rivoluzionaria e da cui prese spunti per sè) è testimoniato da chi assistette alle prove per le rappresentazioni amburghesi. Nel primo atto, le quattro comari, alla lettura delle missive del grasso-gradasso (dopo che Alice ha cantato i mirabili versi e il viso tuo su me risplenderà / come una stella sull'immensità) si fanno una bella sghignazzata, sulla triade di MI maggiore, ben 16 Ah!, su altrettante crome (tranne l'ultimo, una semiminima). Il tutto verrà ripetuto pari-pari in finale d'atto:
Ecco, Mahler, per dare a queste risatine un effetto più naturale, chiedeva alle cantanti di interporre due impercettibili pause dopo il secondo e il terzo gruppo di 4 Ah!
Questa premessa serviva ad introdurre il discorso su Daniele Rustioni… Che forse non sa di Mahler, o magari lo sa, ma preferisce restare fedele alla lettera del Guiseppe (così in teutonia, smile!) Lui è ormai più che una promessa, ha solo 28 anni ma sta rapidamente scalando posizioni in campo internazionale. Evidentemente la consuetudine con maestri di gran talento (Pappano e Noseda in primo luogo) gli ha permesso di raggiungere rapidamente una grande maturità, che anche ieri è emersa in modo evidente. Non solo il gesto e la capacità di tenere in pugno orchestra e palco fanno di questo ragazzo un talento naturale, ma la qualità del suono e la chiarezza dell'interpretazione sono lì a testimoniare del suo lavoro in profondità, che non può non essere alla base del risultato. Insomma, una bella realtà italiana, che già oggi non sfigura di fronte ad altri giovani stranieri, ormai arrivati.
Al centro della scena è Alberto Mastromarino, sul cui aspetto fisico si direbbe che Falstaff sia stato pensato e modellato(!) E lui il suo fisico ce lo mette coraggiosamente in mostra, allorquando rimane in scena coperto solo da mutandoni, all'inizio dell'atto conclusivo, dopo il bagno nel canale del Tamigi. Quando si dice immedesimazione nel ruolo! Ma per fortuna fa la sua bella figura anche la voce, potente nelle espressioni più truci, ma anche ricca delle sfumature che caratterizzano il personaggio. Per lui gran successo.
Ma tutta la compagnia di canto pare bene assortita, a cominciare da Vittorio Vitelli, l'altro baritono che impersona Ford-Fontana (voce forse meno penetrante di quella di Mastromarino) e che sé l'è cavata bene nella sua aria di sogno-realtà. Saverio Fiore ha dignitosamente tenuto il ruolo di Cajus, mentre Francesco Demuro mi è parso un Fenton discreto, anche se la sua vocina a volte ha stentato a passare adeguatamente. Buoni anche Nicola Pamio e il gigantesco Ziyan Atfeh (Bardolfo e Pistola).
Passando al gineceo… sugli scudi l'efficace macchietta di Quickly, impersonata fantasticamente nella parte attoriale e assai efficacemente in quella vocale da Elisabetta Fiorillo. Brava anche Manuela Custer (Meg) e più che discrete l'Alice di Virginia Tola e la Nannetta di Serena Gamberoni.
Completano il quadro e meritano un plauso il Coro di Armando Tasso e il Corpo di ballo di Maria Grazia Garofoli, che hanno reso il finale in modo davvero efficace.
Luca Guadagnino è un giovane regista cinematografico che si cimenta ora con il teatro musicale. Questa sua proposta resta saldamente ancorata alla tradizione, senza velleità di inventare chissà quali significati astrusi di un'opera solare e scanzonata come questa. Molto buona la gestione dei movimenti dei personaggi. Forse l'unico tocco di originalità è la scena che Francesca di Mottola ci propone per la casa di Ford (seconda parte del primo atto): costruzioni moresche, una palma e una vela sullo sfondo: L'Italiana in Algeri? Forse un omaggio all'opera buffa per eccellenza? (La palma per la verità torna poi allusivamente anche nell'atto conclusivo.)
Tirando le somme, uno spettacolo più che degno, che conferma come in provincia (i veronesi non se la prendano…) si facciano ancora cose egregie.
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