Gianandrea Noseda si cimenta al suo Regio con il Fidelio. Ieri terza delle otto rappresentazioni, in un Regio assai affollato, accolta da un autentico trionfo, minuti e minuti di applausi e corsette al proscenio a non finire per tutti i protagonisti.
Il mio concittadino ha confermato di essere oggi uno dei migliori Kapellmeister, con un'interpretazione a dir poco eccellente, dai primi accordi secchi di MI maggiore dell'Ouverture, fino alla poderosa semiminima in DO che chiude l'opera. Passando per un memorabile attacco del finale primo e un'altrettanto emozionante apertura del second'atto. Naturalmente sorretto dalla forma dell'orchestra, un insieme compatto, in cui hanno spiccato prestazioni solistiche di prim'ordine (corni e fagotti su tutti). Ma perfetto anche il Coro di Claudio Fenoglio, nel memorabile O welche Lust e nel travolgente finale. Bravo e complimenti a Noseda anche per non aver ceduto alla perenne tentazione di infilare la Leonore III prima del finale: non siamo ad un concerto, vivaddio!
Gli interpreti non saranno tutti membri effettivi dello star-system, ma hanno offerto prestazioni ampiamente al di sopra della sufficienza, a partire dalla Merbeth, una Leonore vocalmente adeguata (cui perdoneremo qualche… eccesso di foga) per passare ad Hawlata, un Rocco misurato e dalla voce calda e rotonda. Gallo è un Pizarro con qualche eccesso di brutalità, ma compensata da grande sicurezza. Storey pare sempre sul punto di impiccarsi, appena arriva al SOL sopra il rigo, però il suo Florestan non è stato per nulla disprezzabile, compresi i tre SIb sparati con sicurezza. La Marzelline della Or sé l'è cavata dignitosamente, pur mostrando una voce non troppo robusta. Stessa cosa dicasi per Kaimbacher, un discreto Jaquino. Il Fernando di Holzer senza infamia e senza lode, ma comunque sopra il livello di guardia. Pena e Jurlin efficaci nei piccoli ma importanti interventi nel coro dei prigionieri.
Insomma, musicalmente un Fidelio per me più che positivo ed emozionante.
Grazie anche alla regìa. Mario Martone non propone improbabili invenzioni, tanto per accontentare qualche schizzinoso che si annoierebbe di un allestimento fedele allo spirito dell'originale, ma così accontenta la stragrande maggioranza del pubblico che – oltre ad ascoltare un Fidelio di alto livello – ne vive il significato più autentico: la razionale condanna di ogni forma di violenza e sopraffazione, e la nobiltà della fede incrollabile nel prevalere della giustizia, di cui Leonore è simbolo assoluto.
Lo scenario è quello di un campo di concentramento, più che di un carcere, la torretta (con altoparlanti) ci rimanda ad Auschwitz, o a qualche siberiano Gulag. Efficacissimo il posizionamento della cella in cui è rinchiuso Florestan, posta nell'angolo sinistro del palco (guardando dal pubblico) e proprio sopra la buca dell'orchestra. Già all'attacco dell'Ouverture un occhio di bue ne illumina la porta ferrata con luce radente, che getta sul bianco sipario tagliafuoco l'ombra di una grata, simbolo dell'oppressione. La scena è assai povera, ponteggi innocenti che servono fra l'altro a rappresentare il piano terra, rispetto al sotterraneo in cui si svolge gran parte del secondo atto. Costumi apparentemente più ottocenteschi che moderni, ma efficaci a presentare la condizione dell'umanità tenuta ingiustamente in catene. Anche Martone non resiste alla tentazione di far scendere in platea un personaggio (Pizarro che legge la lettera-spiata che lo avverte del pericolo) ma è cosa da poco, rispetto agli eccessi canadesi appena visti in Scala.
Efficace e lodevole la direzione dei movimenti di singoli e masse; su tutto lo scatenamento dei prigionieri da parte delle loro donne, a seguito dell'intervento riparatore del Dom.
In conclusione, un bellissimo pomeriggio di musica e di arte. Grazie al Regio e a Torino.
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