Il Nuovo Teatro dell'Opera di Firenze (aka Auditorium Parco della Musica e della Cultura) è ancora in buona parte allo stato di cantiere (si nutrono seri dubbi che possa entrare compiutamente in attività nel 2012) ma quel (non poco) che c'è ha consentito di aprire, almeno pro-tempore, rispettando così in modo magari un pochino artificioso – ehi, ma siamo o no in Italia? - la promessa di inaugurare entro il 2011, e rientrando in-extremis nei vincoli di calendario dei 150-anni-di-unità.
La struttura della sala principale – a dire dei suoi progettisti - è essa stessa concepita come la cassa armonica di uno strumento (un violoncello, o un contrabbasso?) e quindi non bisognosa di artificiosi pannelli diffusori per trasferire i suoni da violoncelli e contrabbassi alle trombe (di Eustachio, smile!) degli ascoltatori. Il che direi avvenga in modo davvero eccellente, come si è potuto constatare alla chiusura della nona mahleriana.
Ieri sera, per la sua terza serata di operatività, il nuovo teatro ha ospitato Claudio Abbado, con le orchestre Mozart e del Maggio unite nel nome di Brahms, ma soprattutto di Mahler. Pochissimi i posti vuoti, il che ha fugato i timori indotti dall'offerta, in internet, di almeno un terzo dei biglietti di platea ancora a poche dal concerto (evidentemente il passa-parola e la riduzione del prezzo hanno convinto molti a non perdere un appuntamento che, credo, difficilmente potranno dimenticare in fretta.)
Le orchestre: qualcuno magari avrà in cuor suo criticato Abbado per aver voluto questo connubio fra l'orchestra di casa e la sua Mozart. A parte che nella Mozart (come al Maggio) suonano fior di solisti di fama internazionale, fra le due orchestre ci sono normalmente degli interscambi (di prime parti, soprattutto): fatto sta che il risultato gli ha dato pienamente ragione e nonostante le presumibili poche ore a disposizione per provare, l'affiatamento fra fiorentini e bolognesi, dislocati quasi a schacchiera (i maschi si distinguevano per la presenza o meno delle alette alle tasche delle giacche…) è parso invero eccellente e la prova inequivocabile del successo dell'impresa è stato l'abbraccio finale che ha unito tutti i componenti delle due compagini.
Nello Schicksalslied ha spiccato anche il Coro di Piero Monti, che ha magistralmente interpretato il triplice appello dell'Hyperion di Hölderlin, prima della (un po' posticciamente) serena conclusione strumentale brahmsiana.
Ma il pezzo forte della serata era, ovviamente, la Nona sinfonia di Mahler, opera forse prediletta da Abbado, che pare oggi sentirla anche fisicamente, oltre che spiritualmente, vicina. E ogni volta ne cura l'esecuzione anche in dettagli apparentemente insignificanti (come ad esempio far suonare anche alla seconda fila dei primi violini la frase iniziale dell'Andante comodo, o silenziare la spalla nell'incipit dell'Adagio). Memorabili le strappate di violini e viole nell'esposizione del tema del Ländler (Mahler usa il termine schwerfällig, quasi intraducibile, come di cosa che cade pesantemente) che gli tolgono ogni residuo di eleganza e di ingenuità . Travolgente poi il Rondo-Burleske, con l'accelerazione feroce dal Più stretto al Presto della Coda, che scolpisce terrificanti suoni spettrali.
E infine quell'Adagio che è suonato proprio quasi con sofferenza, come fosse il prodotto di uno sforzo fisico oltre che spirituale. Dopo la strepitosa quanto straziante perorazione dei quattro corni e l'ultimo addio del passato (due sole misure del violoncello solo, che ti strappano le budella) Abbado ha offerto la sua straordinaria visione delle ultime 27 battute della sinfonia, quell'Adagissimo dei soli archi dove compaiono dei veri e propri frammenti di vita vissuta, guardata con gli occhi umidi e una stretta al cuore. Da qui le luci sull'orchestra hanno cominciato impercettibilmente ma costantemente ad abbassarsi, fino a lasciare la scena quasi al buio. Qualche schizzinoso purista magari avrà storto il naso, pensando ad una trovata un po' kitsch, ad una parodia della Abschieds-Symphonie di Haydn, fatto sta che l'effetto è stato sconvolgente. Certo, più che il passaggio dalla luce alle tenebre, è pur sempre la musica ad avere il ruolo principale, con quel trasmutare del suono in silenzio, che rende in modo mirabile la serena rassegnazione dell'Uomo di fronte all'inevitabilità della fine della vita terrena.
Le viole, guidate dal leggendario Wolfram Christ (e dislocate appropriatamente al proscenio) dopo aver esalato (ersterbend) il LAb, col supporto del REb dei violoncelli e del FA dei violini secondi, restano dopo quella corona puntata per un tempo indefinito (materialmente, forse 2 minuti) che dà precisamente una sensazione, un brivido, più che l'idea, dell'eternità.
Che altro si può dire? Grazie!
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2 commenti:
Ieri sera è stata una serata memorabile molto più che il giorno dell'inaugurazione del nuovo teatro dell'opera di Firenze, almeno per noi artisti del coro.
Ieri abbiamo davvero fatto Musica e ti assicuro che da anni è ormai cosa rara.
La totale sintonia tra noi e il M°Abbado e il suo sorriso felice mentre cantava con noi le bellissime frasi dello Schicksalslied saranno per me ricordi indelebili che conserverò per sempre nel mio cuore.
Grazie a te che hai condiviso con noi questo avvenimento.
@Marisa
Sì, sono momenti che ti lasciano il segno, che ti fanno (ancora e nonostante tutto) sperare nel futuro.
Ancora complimenti!
Ciao!
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