Thaïs di Jules Massenet fu presentata a Parigi nel 1894 (poi la versione
definitiva nel 1898) ma arriva al Piermarini, nell’originale
francese, solo adesso, dopo la fugace apparizione del 1942 in italiano con Marinuzzi sul podio e la Favero e Bechi protagonisti... Beh, confesso che
non la stavo proprio attendendo con grande ansia, tuttavia... a caval donato comprato etc.
Ma intanto: chi era costei? Ah, saperlo!
Le prime tracce risalgono all’antica Grecia, ai
tempi di Alessandro Magno (seconda
metà del 300 a.C.) al seguito del quale la prostituta Taide partecipò alla seconda
guerra persiana.
Della stessa epoca e sempre in ambito greco abbiamo
tracce di una (diversa) Taide in
opere di Menandro, due delle quali
(perdute) furono riprese più di 150 anni dopo (160 a.C.) da Terenzio nella sua commedia Eunuchus, dove Taide ha un protettore che la mette a disposizione
di un soldato, che le fa preziosi e graditi regali (Cicerone citò questo
particolare più di 100 anni dopo, nel suo De
Amicitia).
Da queste fonti nel Medioevo nacque e si diffuse lo
stereotipo Taide=puttana, che un tale
Dante Alighieri abbracciò in pieno,
tanto da citare una Taide nel Canto XVIII dell’Inferno, dove la incontra nel
girone dei lussuriosi degli adulatori
(!? il chiaro, anche se equivocato, riferimento è a Terenzio, via Cicerone). Peraltro
il divin poeta non usa mezze parole
per presentarcela:
Appresso ciò lo duca «Fa
che pinghe»,
mi disse, «il viso un poco più avante,
sì che la faccia ben con l'occhio attinghe
di quella sozza e
scapigliata fante
che là si graffia con l'unghie merdose,
e or s'accoscia e ora è in piedi stante.
Taïde
è, la puttana che rispuose
al drudo suo quando disse "Ho io grazie
grandi apo te?": "Anzi maravigliose!"
|

E
a chi si chiede il perchè dell’attributo delle unghie di Taide faccio notare
che nell’illustrazione (del Doré) lo stagno in cui sguazzano i tre arrapati per
la prostituta non è (secondo Dante) acqua infernale, ma merda!
Massenet?
No no, il suo esprit-de-finesse non
gli permetteva di abbassarsi a queste sozzerie! Così prese lo spunto da un
altro, e totalmente diverso, filone letterario che tratta di Taide: il filone cristiano, di storie fiorite (in
Grecia, Siria, ...) dalla metà del primo millennio in poi, che ci narrano di
una Taide che vive (siamo nel 4° secolo d.C.) ad Alessandria d’Egitto, dove è
sì una prostituta in origine, ma alla fine - a mo’ di Maria Maddalena - si
pente, espia le sue colpe e muore in... santità! Sì, la Santa Taide, ricordata sui calendari (magari come Santa Pelagia, che ha una storia simile
o sovrapponibile) precisamente l’8 Ottobre!
Questa
versione cristiana di Taide ebbe come campione nella Francia di fine ‘800 Anatole... France. Che dapprima (1867) ne fece un poema in versi
(La légende de Sainte Thaïs, comédienne) e poi (1889) un racconto, cui si ispirò Louis Gallet per stendere il libretto
dell’opera per l‘amico Massenet.
France
ideò il suo racconto sulla scorta di una versione medievale della storia di
Taide, dovuta alla monaca Hrotswitha von
Gandersheim, poco prima dell’anno 1000. In quel testo (teatrale) il
co-protagonista (che dà anche il titolo alla storia) è il monaco Paphnutius (Paphnuce per France e Athanaël nel libretto di Gallet) che di
fatto guida la donna perduta verso la rinuncia al mondo e la finale redenzione
e santificazione.
Ma France non si limitò a
romanzare la vicenda patetica e strappalacrime della prostituta pentita e
redenta, ma vi introdusse, di sua invenzione, un fondamentale arricchimento
della personalità del monaco Paphnuce, al quale fa compiere un percorso speculare a
quello di Thaïs, il passaggio
dall’ascesi alla libidine! Ecco quindi che il racconto (un po’ meno l’opera di
Massenet, che ne annacqua questo aspetto) acquista un risvolto di assoluto
rilievo e di aperta sfida alla religione: la drammatica commistione di santità
e peccato, di fede e lussuria, di spiritualità e materialità.
Come giustamente si addice
ad un racconto, France lo infarcì di divagazioni spesso poco pertinenti (o come
minimo dispersive) con il cuore della vicenda narrata, ed altrettanto
naturalmente esse vennero ignorate da Gallet al momento di predisporre il libretto
per Massenet: ciò vale per le lunghe descrizioni dei sogni di Paphnuce e, come
massimo esempio, per tutta la lunghissima scena del Banchetto (Capitolo II) di cui sopravviverà soltanto un breve
spezzone nella scena a casa di Nicias.
Il lavoro si suddivide in
tre soli capitoli, intitolati a specie vegetal-floreali: loto, papiro ed euforbia. Furono pubblicati in tre
puntate su una rivista nel 1889 e poi raccolti in volume nel 1890.
I. Le Lotus. Il primo capitolo descrive
con grande dovizia di particolari la vita della Tebaide, dove i monaci sono
continuamente alle prese con tentazioni sataniche a sfondo sessuale, che
combattono con digiuno e preghiera. Poi presenta il personaggio (e la
personalità) di Paphnuce, Abate di
Antinoe (o Antinopoli, sulla sponda destra del Nilo, di fronte all’odierna
Mallawi, tra Minya e Asyut, circa 300Km a sud del Cairo) e la sua decisione di
tornare - a 35 anni e dopo 10 di permanenza nel deserto - nella natia
Alessandria per redimere Thaïs, da lui conosciuta (e desiderata) quand’era quindicenne,
prima di essere toccato dalla fede, farsi monaco e dedicarsi al digiuno e alla
preghiera. Questa decisione sopraggiunse dopo che la figura della donna gli era
apparsa più volte in atteggiamenti esplicitamente adescanti. Invano un vecchio
asceta, Palémon, da lui interpellato, cerca di dissuaderlo dall’impresa. Così
lui si avvia - a piedi! - verso Alessandria, dopo aver affidato i suoi 23
discepoli ad un diacono.
Il
viaggio è assai lungo (sarebbero almeno 500 Km) e per di più France - per
ignoranza delle carte geografiche o per deliberata libertà letteraria - dopo averci descritto l’abate che si incammina
sulla riva sinistra - libica - del
Nilo (quindi dopo aver attraversato il fiume...) lo fa muovere, invece che
verso nord, esattamente nella direzione opposta, tanto che dopo 6 giorni e almeno
500 Km di camminata il nostro arriva a Silsilé (Gebel-el-Silsila, circa 1000 Km da Alessandria!) dove si
intrattiene con una Sfinge colà scolpita nella roccia e la libera da Satana (!)
Il 18°
giorno del suo viaggio (presumibilmente avendo ripreso la direzione giusta,
verso Nord) il nostro incontra un eremita agnostico e scettico, di origine
greca, con il quale ingaggia una specie di tenzone filosofica, cercando di
portarlo alla fede. Ma invano, così riprende il cammino e, in pochi giorni,
eccolo in vista di Alessandria.
Dopo
aver ripreso confidenza con le vie dell’opulenta e peccaminosa città (inclusa
una quasi-lapidazione da parte di frotte di ragazzini...) Paphnuce ritrova
facilmente la casa del suo vecchio amico Nicias, filosofo sibarita che lo
accoglie a braccia aperte, insieme alle sue due schiavette, Crobyle e Myrtale, convinto che l’abate si sia de-abatizzato. Invece
Paphnuce gli chiede solo di avere in prestito capi d’abbigliamento borghesi, da
indossare per raggiungere il suo obiettivo: redimere Thaïs! Nicias gli rivela
di esserne tuttora l’amante e lo mette in guardia dall’opporsi a Venere!
Vagando
per la città arriva al porto occidentale, affollato di navi e barche di ogni
tipo: ricordando i suoi sogni giovanili di andare per mare si addormenta,
sfinito, su un fascio di cordame ed ha uno dei suoi frequenti sogni (o incubi)
di cui poi cerca di individuare la provenienza, divina o infernale: la sfinge
di Silsilè lo afferra con le sue fauci e, prendendo il volo, gli fa fare un...
giro turistico che si conclude in un luogo desertico: lì c’è la porta
dell’Inferno! Paphnuce guarda giù nell’abisso e vede una specie di girone
dantesco popolato da infedeli che però si aggirano come nulla fosse sulla
sponda di un fiume infuocato e indifferenti ad una pioggia di fuoco. Vi scorge
Omero e Anassagora; e poi l’agnostico eremita incontrato durante il viaggio; e
infine l’amico Nicias, in piacevole compagnia di Aspasia di Mileto (!) sul
quale invoca - invano - una vera punizione divina...
Bruscamente
risvegliato da un portuale, viene presto inghiottito da una gran folla che si
avvia verso l’anfiteatro dove è in programma uno spettacolo con Thaïs! Paphnuce
vi entra in compagnia di un filosofo scettico (un tipo non dissimile
dall’eremita di Silsilé) ed assiste alla performance
della commediante-mondana che impersona (Euripide? Sofocle?) Polissena condannata a morte dai greci
per vendicare Achille. Dopo che lei ha offerto il petto alla spada di Pirro e
si è teatralmente immolata, Paphnuce grida alla folla in delirio: questa donna
sarà presto immolata a Dio resuscitato! Un’ora dopo bussa alla porta della
sontuosa dimora di Thaïs.
II. Le Papyrus. Il
secondo capitolo ci presenta - par-condicio - il personaggio e la personalità
della protagonista. Raccontandoci con dovizia di particolari la vita di Thaïs
fin dalla più tenera infanzia. Scopriamo che la piccola, figlia di un gestore
di cabaret al porto di Alessandria e
di una madre avarissima, era stata allevata di fatto da uno schiavo nubiano
cristiano, che l’aveva fatta battezzare, iniziandola ai principii religiosi ma
senza inculcarle alcun tabù a livello
di rapporti umani (poco dopo l’uomo, in seguito alle persecuzioni dei
cristiani, diventerà un martire della Chiesa, San Teodoro il Nubiano). Così lei
ebbe le prime esperienze sessuali con suoi coetanei e in modo innocente.
Poi la
sua vita cambiò con l’incontro con una vecchia donna che gestiva una compagnia
itinerante di danzatori, ragazze e ragazzi che venivano affittati per deliziare
le feste dei ricchi e dei notabili. Con lei si trasferì ad Antiochia (proprio
ad un passo da casa...) dove divenne famosa come danzatrice e suonatrice di
flauto. In effetti aveva intrapreso la professione di escort, accompagnando e concedendosi ai facoltosi clienti con la
massima naturalezza, senza porsi alcun problema morale.
Poi arrivò l’amore, per il figlio del
proconsole di Antiochia, che la piegò non senza pesanti insistenze. Amore però
durato nemmeno sei mesi, dopodichè Thaïs tornò per un po’ alla sua precedente professione,
per poi specializzarsi come attrice di prosa, fino a conquistare letteralmente
il pubblico-bene di Antiochia, la cui crema la ricoprì d’oro, in cambio di... sì,
proprio quello.
Fu così che, dopo anni trascorsi sulle rive
dell’Oronte, ebbe nostalgia della sua Alessandria e vi fece ritorno,
raccogliendo successi e... amori in quantità, ma non in qualità. Fra questi
ecco proprio Nicias, che cercava di trascinarla nel suo agnosticismo e nella
sua filosofia da carpe-diem, che lei
peraltro cominciava ad aborrire, proprio in virtù del suo lontano passato da
battezzata. Una notte, aggirandosi per Alessandria, si imbattè in una folla di
cristiani che celebravano un loro martire: San Teodoro il Nubiano! Il ricordo
dello schiavo che l’aveva fatta battezzare la distolse per un po’ dal vortice
della sua vita mondana, portandola ad allontanare da sè anche Nicias.
Ma ben presto in quel vortice tornò a
tuffarsi. Si era fatta costruire nella sua dimora una grotta delle ninfe, un ambiente esotico e orientaleggiante, dove
spiccava una statuetta di Eros, dono di Nicias, e dove lei amava ritirarsi con
gli amici a conversare; oppure, come quella sera, standosene a godere in
solitudine il gran successo riscosso sulla scena, ma anche a meditare sul
passar degli anni e sulla caducità delle cose terrene. Era la sera in cui
Paphnuce l’aveva vista recitare Polissena. E adesso lui era lì, davanti a lei.
Per manifestare il suo interesse per una donna così famosa e così bella.
I due all’inizio si abbandonano a banali
schermaglie: lui dice di amarla di un amore a lei sconosciuto; lei lo irride,
dall’alto della sua mondana esperienza in amori di ogni modo e maniera. Ma ecco
che due rivelazioni rompono quell’atmosfera innaturale: dapprima lui,
mostrandole il cilicio, si presenta come Paphnuce, Abate di Antinoé, suscitando
nella donna sgomento e timore reverenziale, alimentati dal vivo ricordo dello
schiavo nubiano divenuto martire; poco dopo è lei a rivelargli di essere stata
battezzata, suscitando nel monaco un autentico entusiasmo, insieme alla
certezza di poter ormai raggiungere il suo obiettivo di redenzione della
peccatrice.
Ma la mondanità sembra riprendere
il sopravvento: schiavi e schiave entrano per far bella Thaïs, che è invitata
ad una gran festa conviviale in suo onore, dopo la strepitosa performance teatrale che l’ha vista
trionfare poco prima. Paphnuce decide di non contrastarla, ma al contrario di
seguirla alla festa, restando muto al suo fianco.
Le Banquet. Qui France ci propina
un’edizione moderna del platoniano Simposio,
dove sedicenti filosofi di varie tendenze scolastiche si ritrovano (a casa di
un notabile romano, ammiraglio della flotta di stanza ad Alessandria) e si confrontano
dialetticamente - fra una portata e una bevuta - sui massimi sistemi (Dio per
primo) e sui misteri della vita e della realtà. È un pretesto che lo scrittore
impiega per mostrare la propria erudizione insieme ai propri orientamenti assai
critici (e sarcastici) verso la Chiesa cattolica.
Fra i convenuti troviamo anche Ario, l’eretico
condannato a Nicea, e un vecchio stoico che si rende protagonista di un
autentico colpo-di-teatro, che tronca bruscamente il godereccio simposio: un
suicidio in diretta!
La vacuità e la scostumatezza
dell’atmosfera del banchetto, fra eresie religiose e autentiche orge, aprono
ulteriormente gli occhi a Thaïs, ormai convinta a ritirarsi in un convento
fuori città, verso occidente, come le ha promesso Paphnuce, che approfitta
della situazione per trascinarla via da quei luoghi di perdizione. Ma prima lui
le impone di disfarsi di tutto ciò che ricorda la sua vita passata nel peccato.
Come? Dando alle fiamme tutto ciò che contiene la sua dimora! La donna vorrebbe
salvare almeno la statuetta di Eros, che lei considera simbolo dell’amore
naturale, non peccaminoso; ma Paphnuce, al colmo dell’ira, glie la strappa di
mano e la scaraventa sul rogo!
Ma ora le cose per i due si complicano, poichè
tutto il vicinato scende in strada, svegliato dal crepitare del fuoco e
dall’acre odore di fumo. E, all’apprendere che Thaïs sta per lasciare la città
insieme ad un monaco, si ribella a quello che considera un torto: negozianti
che si mantenevano vendendo ogni ben di dio alla mondana e vedono sfumare i
loro futuri affari; mendicanti cui Thaïs non lesinava carità che ora scompaiono;
cittadini acculturati che rischiano di perdere l’oggetto dei loro piaceri
estetici; amanti passati e futuri che vedono dissolversi l’oggetto dei loro
desideri... Insomma, ne nasce un vero e proprio tumulto generale, che prende di
mira il povero Paphnuce, ritenuto responsabile del disastro.
Per sua buona sorte, ecco sopraggiungere l’amico
Nicias, che calma i bollori della folla a suon di... monete d’oro e d’argento,
consentendo a monaco e pentita di svignarsela, uscendo dalla città verso
occidente. Lungo il cammino Paphnuce tratta la donna con grande e financo
eccesiva severità, costringendola a marciare a piedi nudi sul sentiero che
costeggia il deserto e il mare e rimproverandole continuamente le sue
malefatte, che solo dopo una lunga penitenza in clausura potranno essere
perdonate.
Poi, accorgendosi che i piedi di Thaïs cominciavano
a sanguinare, istantaneamente fu preso da grande compassione e cominciò ad
invocarla come Santa Thaïs. Sequestrò un asino ad un ragazzo per issarvi la
donna per il resto del viaggio, che durò ancora un’intera notte. All‘alba si
mostrarono in lontananza i primi segni del monastero dove erano diretti.
Ora frotte di monache si apprestavano a compiere
ogni specie di lavoro domestico, mentre altre rimanevano immobili in
contemplazione. Un’anziana monaca venne incontro ai due: era Albine, romana e
nobile di origine, poi dedicatasi a custodire le giovani donne che erano ospiti
del monastero. Paphnuce chiese per Thaïs una cella isolata e personalmente ne
chiuse il catenaccio della porta, prima di avviarsi sulla via del ritorno ad
Antinoe.
III. L‘Euphorbe. Se il viaggio di andata (fatto a piedi) era
stato lungo e sofferto, forse per temprare lo spirito e la carne in vista delle
fatiche della conquista (solo spirituale?) di Thaïs, quello di ritorno - ad
impresa positivamente completata - fu assai rapido, grazie ad un... barcone che
da Athribis (poche decine di Km a nord del Cairo) risaliva il Nilo per
trasportare merci verso i monasteri sparsi sulle rive del fiume.
La notizia della redenzione della donna fatale
era già arrivata prima di lui ad Antinoe, e Paphnuce fu quindi accolto come un
trionfatore. Si ritirò presto nella sua cella ma, invece di ritrovarvi serenità
e pace cominciò a sentirsi come a disagio, senza comprenderne il motivo. Ben
presto cominciò ad apparirgli in sogno Thaïs, dapprima nello splendore della
grazia, ma successivamente con aspetto esplicitamente peccaminoso. La sua cella
fu invasa da un branco di sciacalli, segno inequivocabile della presenza di
Satana. Sconvolto, decise di tornare nel deserto per sottoporsi a privazioni in
espiazione dei suoi peccati.
Così fece visita al vecchio saggio Palémon per
chiedergli conforto e consiglio. Il vegliardo gli suggerì di evitare altre
privazioni corporali e invece di visitare i tanti monasteri sorti nella
Tebaide, per raccoglierne le esperienze e la scienza. Ma, come già prima di
partire per Alessandria, Paphnuce fece l’esatto contrario: avendo visto in
sogno una colonna con capitello a forma di testa umana, mentre una voce lo
esortava a salire su quella colonna, si incamminò alla ricerca di rovine di
templi profani e ne ritrovò uno in cui si era fermato durante il viaggio verso
Alessandria: lì vi era proprio la colonna apparsagli in sogno, con la testa di
donna sulla cui fronte spuntavano due lunghe corna.
Trovò nelle vicinanze un falegname che gli
costruì una scala, che lui usò per andare ad appollaiarsi sulla sommità della
colonna (ndr: era il sacrificio cui si sottoponevano gli stiliti). Persone di buon cuore gli portavano del cibo e la sua
presenza in quel luogo abbandonato attirò ben presto frotte di suoi seguaci; e
con loro anche ogni tipo di businessman,
che offriva ristori e persino alloggi ai visitatori: insomma, il luogo diventò
meta turistica, oltre che di pellegrinaggio e in meno di sei mesi vi sorse una
vera e propria cittadina (ovviamente chiamata Stilopolis) con tanto di municipio, di milizia, di scuola e di
tribunale! E con una vita diurna e notturna da far invidia alle città più
grandi e... peccaminose.
Persino l’ammiraglio della flotta romana venne
in visita in quel posto e riconobbe il monaco che era stato suo ospite ad
Alessandria: la cosa non fece che aumentare la popolarità di Paphnuce,
riconosciuto come il più gran santo in circolazione, a venerare il quale
arrivava gente da ogni dove, per chiedergli miracoli in gran quantità.
Ma ormai Paphnuce si rendeva conto si essere
precipitato nel vortice del peccato, con la sua morbosa attrazione per la
figura di Thaïs, che non l’abbandonava più. Udì in sogno una voce che lo
adulava, invitandolo a far carriera nella gerarchia ecclesiastica e ad
abbandonare la colonna... volando come un angelo. Stava già per farlo quando la
voce sbottò in una gran risata, rivelandogli di venire dall’Inferno e non da
Dio e di essere stata la sua guida per tutto il tempo. Capì allora di essere diventato
schiavo di Satana, mentre si credeva invece ministro di Dio! E quindi decise di
abbandonare quella maledetta colonna (scendendo per la scaletta!) e di tornare
nel deserto a cercare... appunto, Dio.
Vagando sulla sabbia si imbattè in una grande necropoli
e trovò rifugio all’interno di una tomba, nei pressi di un’oasi dove trovava
acqua e qualche frutto per cibarsi: ne fece quindi la sua dimora e il luogo di
espiazione dei suoi peccati. Ma anche lì non trovò pace: una voce lo tormentava
di continuo e gli chiese di osservare le pitture murali che raffiguravano scene
di vita della famiglia del nobile ivi sepolto. Notò una suonatrice di lira che
si materializzò e con fare seducente lo informò di essere una delle tante
reincarnazioni di Thaïs, cercando di adescarlo. I diavoli abitavano ormai quel
luogo e uno addirittura gli strappò il cilicio e se lo portò via.
Paphnuce trovò un passatempo per dimenticare
Satana dedicandosi alla torcitura di una nuova corda per sostituire il cilicio
sottrattogli, ma il desiderio carnale lo opprimeva sempre più ed arrivò così ad
accusare Dio di averlo abbandonato e ad implorare il figlio, Gesù Cristo, uomo
come lui, di venirgli in aiuto: proprio
l’eresia di Ario! sghignazzò la voce demoniaca che lo perseguitava da
quando si era installato sulla colonna... e così stramazzò a terra come morto.
Fu risvegliato da monaci in cammino nel
deserto per incontrare SantAntonio (105 anni) che veniva laggiù (dalle parti di
Al Bahnasa, medio Egitto) per salutare i suoi discepoli. Paphnuce si unì a loro
e raggiunse il luogo dell’incontro dove era già schierata una moltitudine di
monaci in attesa del Santo, fra i quali riconobbe anche il vecchio Palémon.
Paphnuce si inchinò ai piedi di Antonio, ricordandogli di aver redento Thaïs e
chiedendogli la sua benedizione contro le tentazioni del demonio che non gli
davano pace.
Ma Antonio non si curò di lui e invece si
avvicinò ad un ragazzo di Antinoe, che Paphnuce ben conosceva, di nome Paul, un
povero ritardato mentale che aveva però visioni soprannaturali. E ad Antonio
che lo interrogava su ciò che vedeva in cielo, Paul rispose: vedo la Santa Thaïs
che sta per lasciare questa terra. E poi, guardando fisso Paphnuce: vedo tre
demoni che si stanno impadronendo di quest’uomo: sono Orgoglio, Lussuria e
Dubbio.
Paphnuce fu colpito al cuore da quella
rivelazione e fu preso da un irresistibile desiderio di rivedere la donna che
aveva redento senza aver voluto e potuto possederla. Ormai in preda
all’ossessione di farla sua maledì tutta la vita passata in privazioni e
sacrifici al servizio di Dio, si diede dello stolto per aver rinunciato al
piacere di un bacio di quella donna, più prezioso di tutte le celestiali, eterne beatitudini. Thaïs sta morendo, si
ripeteva disperatamente, Thaïs sta
morendo! Si mise a correre all’impazzata per raggiungerla. Saltò su un
barcone sul Nilo e dopo qualche tempo fu finalmente in vista del monastero di
Albine.
La monaca lo informò di ciò che era accaduto
dopo la sua partenza: Thaïs aveva umilmente accettato la sua clausura e fu così
che, dopo 60 giorni di penitenza, il catenaccio della sua cella, che lo stesso
Paphnuce aveva sigillato, cadde da sè e la donna entrò nella comunità delle
consorelle, allietandole con la sua arte, interpretando la vita e le opere di
donne sante e sagge. Poi fu colpita da una febbre che l’ha consumata e da tre
mesi va peggiorando, ormai vicina al trapasso. Arrivato al suo capezzale,
Paphnuce invocò Thaïs, implorandola blasfemamente di vivere, di fuggire con lui
per godere la vera felicità, quella terrena. Ma la donna ormai anelava al
Paradiso e, dopo aver teso le braccia verso la visione di Dio, spirò.
Paphnuce la divorava ancora di desiderio e di
amore carnale. Albine lo scacciò da lì, maledicendolo. E le sorelle, terrorizzate, se ne fuggirono
via gridando: un vampiro, un vampiro!
___
Ecco, adesso conosciamo (più o meno) il
soggetto ispiratore dell’opera. Vedremo quindi come Louis Gallet ne ricaverà il
suo libretto.
(1. continua)