ricongiungimenti

Maurizio & Claudio

31 agosto, 2021

laVerdi annuncia il primo trimestre 21-22

Perdurando (con temute minacce di nuove chiusure...) l’incertezza relativa alle ondate del Covid, laVerdi ha deciso (come già nel 2020) di annunciare per ora solo il primo trimestre (ottobre-dicembre) della stagione 21-22.

Lo hanno fatto la Presidente Ambra Redaelli e il Direttore generale nonchè artistico Ruben Jais, presenti gli Assessori regionale (Galli) e comunale (Del Corno) alla cultura (Regione e Comune continuano a sostenere la Fondazione in modo concreto e generoso).

A partire dal 30 settembre la stagione principale si articola in 10 concerti, la cui caratteristica ancora risente delle restrizioni-Covid per quanto attiene ai posti in sala e - soprattutto - a quelli sul palco (max 40 esecutori). Ciò spiega perchè non siano in programma grandi opere sinfoniche (che sono peraltro al cuore del repertorio dell’Orchestra) oppure - vedi Mahler - perchè si debba ricorrere a loro riduzioni o arrangiamenti per orchestra poco più che cameristica. [Vista però l’obbligatorietà per tutti del GreenPass, ci si sta muovendo per convincere le Autorità ad allentare, dall'anno prossimo, le restrizioni legate al distanziamento, consentendo così di disporre di più posti in sala e sul palco.]  

Ma è pur sempre un programma più che sostanzioso, che vedrà protagonisti alcuni Direttori ben noti in Auditorium (Zhang, Axelrod, Chauhan, Trevino, Marshall, Urbanski) oltre al Direttore musicale Flor e al patron de laBarocca Jais. Ad essi si aggiungono i due nomi nuovi (o quasi) di Alondra de la Parra (dopo due... false partenze) e Jaume Santonja. Fra i solisti il pianista Nobuyuki Tsuj, i violinisti Alëna Baeva e Marc Bouchkov, oltre al tenore Juian Prégardien.

A tutto ciò si aggiungono altre offerte che fanno ormai parte della tradizione della Fondazione: Crescendo in musica, laVerdi POPs, Musica da camera e Musica&Scienza.

L’anteprima della stagione, già annunciata da tempo, vedrà l’ormai consolidata visita annuale de laVerdi al tempio scaligero, visita programmata per il 12 settembre alle 19 (orario inconsueto, ma spiegabile per evitare la sovrapposizione con l’altro evento musicale che allieterà questa domenica milanese: il Concerto della Filarmonica di Chailly alle 20:30 in Piazza Duomo). Il Direttore musicale Claus Peter Flor dirigerà un programma che prevede, per par-condicio, due contrapposte facce (intese come persone ma soprattutto come attitudini) dell’800 romantico: Liszt e Brahms.

21 agosto, 2021

ROF-42: Stabat... Bignamini

Per rifarsi dell’astinenza del 2020, il ROF ha voluto fare le cose in grande anche nella tradizionale proposta del concerto che normalmente chiude il Festival (quest’anno però spodestato dalle nozze d’argento con JDF).

Così ecco che si è rappresentato lo Stabat Mater in forma (3/4?) scenica, cosa assai inconsueta e credo (ma potrei sbagliare...) del tutto nuova per il ROF, essendo il testo di Jacopone ormai arrivato alla 14a presenza al Festival (precedenti 81, 82, 84, 87, 94, 01, 03, 05, 06, 08, 10, 15, 17).

Responsabile del... misfatto il braccio destro dell’eterno Pier Luigi Pizzi, quel Massimo Gasparon che ha contribuito in questi giorni al grandioso successo del Moïse.

Siamo (anche questa credo sia una novità per lo Stabat) lontani dal Teatro Rossini, ma vicini... all’A14, cioè alla Vitrifrigo Arena, che tutti danno per morta (per il ROF, s’intende) da anni, ma della quale il travagliatissimo parto rigeneratore del Palafestival rimanda ormai regolarmente il trapasso da una stagione alla successiva.

Sul podio il Direttore Residente... de chè? ma de laVerdi, perbacco! Quel Jader Bignamini che è tornato a Pesaro dopo un lustro (Ciro in Babilonia) per cimentarsi (per la prima volta?) con questo capolavoro, composto apparentemente di malavoglia dal parvenue Rossini, tanto per accontentare un alto prelato spagnolo assai influente a Parigi. Bignamini non si smentisce, mandando come al solito a memoria la partitura che deve dirigere: e la sua è stata una direzione invero pregevole, per la misura con cui ha guidato gli strumenti e la precisione degli attacchi per soli e coro.

Il quartetto SATB era composto da Giuliana Gianfaldoni, soprano che ha debuttato al ROF lo scorso anno ne La cambiale di matrimonio: voce ben impostata e penetrante, che le ha consentito in particolare un apprezzabile approccio al difficile Inflammatus et Accensus, dove ha sciorinato i due ravvicinati DO acuti senza apparente sforzo. Poi Vasilisa Berzhanskaya, mezzosoprano trionfatrice del recentissimo Moïse come Sinaïde: e in bella evidenza anche Ieri, in particolare nella complessa cavatina del Fac ut portem. Ancora il tenore Ruzil Gatin, che nel 2018 fu un onorevole Zamorre nel Ricciardo e Zoraide: voce ancora un poco aspra nel centro della tessitura, ma squillante negli acuti (vedi il REb del Cujus animam). E infine la piacevole conferma del basso Riccardo Fassi, già apprezzato nei panni di Polibio nel Demetrio e Polibio del 2019.

Il Coro era ancora una volta quello del Ventidio Basso diretto ottimamente da Giovanni Farina. L’Orchestra la Filarmonica Rossini, già recente protagonista del Bruschino.
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Gasparon ovviamente ha seguito le tracce del maestro: la scena e i costumi sembravano derivati da quelli del Moïse, così come l’impiego della passerella che circonda l’orchestra, sulla quale sono avanzati di volta in volta i solisti per esporre i relativi numeri. Il coro era tendenzialmente diviso in due sezioni, poste a destra e sinistra della scena. Lo schermo sul fondo proiettava immagini di cieli di volta in volta nuvolosi, tempestosi, o finalmente invasi da luce abbagliante. 

In scena, oltre ai cantanti che si muovevano come seguaci di Gesù affranti per il dolore, 5 figuranti, che interpretavano rispettivamente la Madonna, Gesù e tre portantini che si son presi sulle spalle la salma del Cristo per un giro di passerella tipo marcia funebre di Sigfrido, durante il n°9 a-cappella (affidato come d’uso al coro e non ai solisti).

Durante l’Introduzione orchestrale e lo Stabat Mater del coro viene portata in scena la croce su cui viene issato (senza chiodi, ovviamente) il Cristo, e alla cui base si sdraia la Mater in gramaglie. Al n°5 (Eia Mater) avviene la deposizione del corpo di Gesù, adagiato fra le braccia della Madonna a mo’ di pietà-di-michelangelo. Al n°7 (Fac ut portem) il corpo di Gesù viene trasferito su un candido sudario e poi, come detto, al n°9 (Quando corpus) viene portato in processione. Nel frattempo (n°8, Inflammatus et accensus) al gran fracasso orchestrale si è accompagnata la proiezione di nuvole nere di un autentico uragano tropicale. Alla fine della colossale fuga (accompagnata sullo schermo dall’esplodere di una luce abbagliante) il corpo di Cristo uscirà definitivamente di scena. E dopo i poderosi accordi conclusivi la croce al centro della scena apparirà letteralmente ergersi su una collina formata da corpi di esseri umani adoranti.

Insomma, una cosa architettata con gusto, misura e raffinatezza, che il pubblico ha mostrato di gradire assai: applausi fragorosi e una gragnuola di pedate sul tavolato dell’Arena hanno accolto tutti i protagonisti di questa serata davvero da incorniciare.
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Il ROF chiude stasera il cartellone principale con la quarta recita di Elisabetta. Domenica ci sarà il Gala per le nozze d’argento di Florez. Che mi perdonerà se non sarò alla festa (aspetto quelle d’oro!!!)

18 agosto, 2021

ROF-42 live

Fra la domenca di ferragosto e il martedi successivo si è concentrato il mio personale pellegrinaggio a Pesaro per le tre opere del cartellone principale del ROF-42. Per la verità nella prenotazione avevo chiesto appuntamenti più diluiti nel tempo, ma il boxoffice del Festival deve aver avuto i suoi bei problemi per soddisfare tutte le richieste e così mi ha assegnato proprio le tre date alternative da me indicate... pazienza.

E a proposito di problemi con i posti, il Teatro Rossini deve averne creati parecchi, dato che all’epoca di apertura delle prenotazioni vi erano previsti anche quelli di platea, mentre alla fine si è dovuta riproporre la stessa configurazione del 2020, con la platea invasa dall’orchestra e inagibile al pubblico.
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Eccomi quindi ad iniziare questo commento proprio dal Bruschino, ospitato nella piccola bomboniera di Piazza Lazzarini. L’assetto particolare della sala e il pubblico forzatamente scarso (2 persone per palco) ha un po’ rattristato, ricordando troppo da vicino i tempi grami dell’estate scorsa (che speriamo non ritornino!) ma per fortuna lo spettacolo della premiata coppia Barbe & Doucet ha ampiamente riscattatato queste miserie...

Per sua natura un’opera buffa (o una farsa giocosa come in questo caso) si presta bene a riproposizioni e reinvenzioni senza che ne venga snaturata l’essenza originale: così i due registi-scenografi-costumisti hanno potuto impunemente trasfomare il castello di campagna di Gaudenzio in un barcone di quelli che si ha ancora l’occasione di vedere sull’Adriatico e che potrebbe plausibilmente rappresentare il pied-à-terre estivo del ricco possidente. Le luci di Guy Simard hanno poi contribuito a sottolineare le diverse atmosfere che caratterizzano la vicenda.

Parimenti apprezzabile il fronte dei suoni, dove il giovane e allampanato Michele Spotti ha guidato con il piglio di un veterano voci e strumenti, a partire dalla scintillante Sinfonia che ha permesso alla Filarmonica Gioachino Rossini di sfoggiare le sue qualità (qui la trovata rossiniana dei colpi di archetto vibrati sul leggio dai secondi violini ha però giocato un brutto scherzo alla strumentista di concertino, cui si è spenta la luce costringendola a suonare per parecchio tempo al buio... prima che per sua fortuna il contatto si ristabilisse). Un figurone ha fatto invece Ilaria de Maximy con il suo corno inglese, nel mirabile accompagnamento obbligato dell’aria di Sofia Ah donate il caro sposo ad un’alma che sospira.

E proprio la Sofia di Marina Monzò è stata la trionfatrice della serata: dal suo debutto del 2017 in un ruolo di contorno (Pietra del paragone) direi che sia cresciuta moltissimo, per controllo dell’emissione e duttilità di espressione, impersonando adeguatamente il ruolo di ragazza apparentemente ingenua (non è certo il predicozzo del tutore a... svezzarla)  ma invece ben decisa ad ottenere ciò che desidera.

I due buffi Giorgio Caoduro e Pietro Spagnoli hanno ben caratterizzato le diverse personalità dei due procuratori di nozze di interesse che alla fine vedono sfumare il loro disegno e devono accettare la dura (per loro!) realtà della vita, fatta di pupille emancipate e figli dissipatori.

Discreta la prestazione del Florville di Jack Swanson, un debuttante che non potrà che migliorare, avendo doti naturali di tutto rispetto. Gianluca Margheri è un Filiberto che - forse con l’intenzione di strafare - finisce per esibire qualche sguaiatezza di troppo. Onorevoli le prestazioni degl altri tre comprimari (la navigata Marianna di Chiara Tirotta, il tronfio Commissario di Enrico Iviglia e il povero figlio-di papà Manuel Amati).

Serata tutto sommato piacevole, accolta dal pubblico con calore inversamente proporzionale al... numero di mani disponibili.  
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Passiamo ora al piatto forte del Festival, quel Moïse et Pharaon che tornava al ROF dopo l’unica apparizione del 1997, edizione che aveva fatto epoca per l’allestimento del compianto Graham Vick, allora alla sua prima presenza a Pesaro, cui ne seguiranno altre, sempre accolte da contestazioni e scandali, ma anche da lodi sperticate...

In realtà quello del 1997 - almeno a giudicarlo con gli occhi di oggi - non era stato per nulla un allestimento scandaloso, almeno dal punto di vista della sostanziale coerenza con i contenuti originali del dramma: in questa (mediocre davvero) ripresa video si può constatare come Vick racconti abbastanza fedelmente la vicenda di natura biblico-storica con l’immancabile risvolto di rapporti umani di odio-amore. L’unico tratto di attualizzazione della storia lo si rileva solo al finale, quando la terra promessa si scopre essere la Palestina della prima metà del ‘900, che (Balfour intercedendo) diventò la casa nazionale degli ebrei (e infine lo Stato di Israele).

Ebbene, Pier Luigi Pizzi, che ha un approccio registico unanimemente ritenuto agli antipodi rispetto a quello di Vick, nella sostanza ne ripete pari-pari l’idea, presentandoci per tutta l’opera l’ambientazione egizia, ma con il finale precisamente collocato nella moderna Palestina.

(Fu con il Mosè in Egitto del 2011 che Vick fece davvero scandalo, impiegando la musica di Rossini come colonna sonora per narrare le efferatezze degli ebrei - Deir Yassin, per dire - nel loro processo di instaurazione dello Stato e trasformando Mosè in un estremista alla Jabotinski...)

Persino aspetti della scenografia recano somiglianze fra lo spettacolo di Vick e quello di Pizzi: ad esempio la passerella che avvolge l’orchestra: in Vick era assai più estesa e venne impiegata, olre che per farci transitare e sostare i cori e gli interpreti (proprio come fa Pizzi) anche - abbastanza cervelloticamente - per una processione di 5 minuti senza musica all’inizio del terz’atto, uno degli aspetti più criticabili di quella messinscena.

Pizzi riprende anche l’idea di Vick (mostrarci un giovane ebreo moderno proprio durante il Cantique finale) e la estende anche all’inizio dello spettacolo, dove il piccolo ebreo è presentato come simbolo del futuro.

Per il resto Pizzi resta fedele al suo clichè estetico, sia nelle scene (stilizzate e squadrate) che nei costumi (eleganti ma sobri) come anche nella gestione dei personaggi e nei movimenti delle masse. Assai efficaci le luci di Massimo Gasparon, soprattutto a sottolineare gli eventi miracolosi che si ripetono lungo l’arco della storia. E fa storia a sè (come sempre, quando viene eseguito) il lungo intermezzo di danze, dove è il coreografo di turno (qui Georghe Iancu) ad esibire - magari con pregi e difetti - la sua inventiva. Impeccabili i primi danzatori, Maria Celeste Losa e Gioacchino Starace.  

Sul fronte musicale, ottime notizie, innanzitutto da Giacomo Sagripanti, che ha guidato con sicurezza ed equilibrio la splendida Orchestra Sinfonica Nazionale RAI, ormai divenuta un asset insostituibile per le principali produzioni del ROF. (Vi ho riconosciuto con piacere, alla seconda tromba, quell’Alex Caruana che per anni fu prima parte de laVerdi.)

Il Coro del Teatro Ventidio Basso (istruito da Giovanni Farina) sta parimenti guadagnandosi - in pochi anni - i galloni di titolare del ROF, con prestazioni di assoluto valore, ricche di espressioni, sfumature e colori che caratterizzano la partitura rossiniana.

Vasilisa Berzhanskaya è stata di gran lunga la trionfatrice della serata, offrendoci una Sinaïde di gran spessore: voce solidissima e acuti potenti (meno penetrante l’ottava bassa); da stadio l’interminabile accoglienza che il pubblico ha riservato alla sua grande aria in chiusura dell’atto secondo.

Buona la prestazione di Eleonora Buratto, capace di modellare le diverse e inconciliabili sfaccettature della personalità di Anaï, perennemente combattuta fra amore e fede religiosa: la grande aria dell’atto quarto (la rinuncia all’amore in favore della fede) ne è stata chiara testimonianza.   

I capi dei due popoli, Roberto Tagliavini ed Erwin Schrott, sono stati resi (nella vocalità, ma anche nell’interpretazione) in modo assolutamente adeguato alle caratteristiche dei personaggi: austero, severo e intransigente Moïse, quanto tronfio, volubile e un po' vanesio Pharaon: una coppia davvero perfettamente assortita.

Luci e ombre sull Aménophis di Andrew Owens, bella voce chiara e squillante (RE sovracuto incluso) ma un poco in impaccio nel rendere al meglio la personalità schizoide (speculare a quella di Anaï) sempre in bilico fra desiderio - carnale per lo più - e ferocia vendicativa del principe ereditario.     

Più che apprezzabile la prova dell’Eliézer di Alexey Tatarintsev, che ha saputo mettere le sue ottime doti naturali al servizio del personaggio, che mescola la severità del fratello con tratti di pietas e di apprensione.     

Efficaci Nicolò Donini (Osiride e Voce dal cielo) e Matteo Roma (Aufide) mentre una particolare citazione va all’inossidabile Monica Bacelli, una Marie quale meglio non si potrebbe immaginare.

Inutile aggiungere che il successo è stato davvero trionfale.
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Infine Elisabetta Regina d’Inghilterra. Opera seria, come viene catalogata. Livermore in questi casi non ha mezze misure (tradotto: mantenere un minimo di equilibrio e di fedeltà al testo). Lui o fa ri-ambientazioni in chiave pesantemente politica (cito solo i suoi Vespri torinesi...) oppure la butta in (avan)spettacolo. Ecco: qui ha scelto la seconda strada (immagino che la politica la tenga in serbo per il prossimo Macbeth di SantAmbrogio).

Per la verità c’è anche la ri-ambientazione, ma non è una cosa seria, chè prendere Leicester per Townsend che svolazza su uno Spitfire e i cugini scozzesi per i nazifascisti fa appunto sorridere. (Un po’ come il suo Tamerlano scaligero ambientato nella Rivoluzione d’ottobre, dove Stalin e Lenin si contendono una figlia dello Zar.) Ma il regista ragiona così (in occasione della prima ai microfoni di Radio3): visto che il libretto è pura invenzione e di autenticaamente storico ha ben poco, allora anch’io mi sento autorizzato ad inventarmi ciò che mi pare e piace! E così di apprezzabile resta appunto solo la spettacolarità di scene (Gio Forma) costumi (Gianluca Falaschi) luci (Nicolas Bovey) ed effetti video (D-Wok). Oltre ad un continuo e francamente stucchevole (perchè insensato) e ripetitivo movimento di persone e soprattutto di cose (che magari scendono dall’alto, trovata da inflazione galoppante).

Certo, bisogna riconoscere che l’opera è assai difficile, ostica e di non immediata digeribilità: sappiamo che Rossini era (positivamente) ossessionato dal fare colpo sull’esigente platea napoletana, dove era atteso con sospetto pari alla curiosità; e così scelse alcuni brani (a partire dalla sinfonia) di sue opere già collaudate e li immerse in un mare di recitativi accompagnati. I quali però, se non adeguatamente sostenuti dall’orchestra, rischiano di diventare più noiosi di quelli secchi, che per lo meno possono essere esposti in gran fretta.

E qui vengo perciò a Evelino Pidò, la cui direzione mi è parsa carente proprio nel sostegno ai recitativi, mentre assai meglio ha supportato arie, concertati e cori, grazie alla gran forma della OSN-RAI.

Non perfettamente assortito il cast vocale, dove si potrebbe persino parlare di... scambi di persona: Elisabetta-Matilde e Leicester-Norfolc! Karine Deshaves mi è parsa piuttosto timorosa nell’affrontare il ruolo della famigerata Virgin Queen e quando ci ha provato ha emesso acuti non sempre puliti; Salome Jicia invece cantava come fosse... la Regina, sovraccaricando troppo la mite e arrendevole Matilde.

Sergey Romanovsky non ha centrato completamente il personaggio eroico di Leicester, anche se ha fatto assai meglio dell’ormai logoro Barry Banks, voce chioccia e oggi del tutto inadatta per un cattivone alla Iago.

Onorevoli le prestazioni dei due comprimari: Marta Pluda, en-travesti come Enrico; e Valentino Buzza, Guglielmo. Sempre all’altezza il Coro di Giovanni Farina.

In definitiva, che dire? Che - nel mio caso - non posso parlare di questa chiusura di trittico come di dulcis-in fundo!

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Ma il fundo ancor non l’ho toccato, poichè mi incombe venerdi 20 uno Stabat Mater (in forma scenica) che non mancherò di commentare.

10 agosto, 2021

ROF via radio

Moïse et Pharaon ha aperto ieri sera il ROF-42, tornato alla piena normalità di programmazione, anche se ancora dimezzato nei... posti a teatro. La mia impressione dalla ripresa di Radio3 è decisamente positiva. Voci (coro incluso) tutte all’altezza e Orchestra RAI in grande spolvero - a nozze poi nell'interminabile intermezzo sinfonico della Festa di Iside - diretta da un ottimo Sagripanti.

Pare che il pubblico abbia anche gradito la messinscena del ragazzo novantenne Pizzi, che si dice abbia ambientato la vicenda in Egitto e - alla fine - nella terra promessa. Quindi precisamente come si legge sul libretto... E anche un’altra novantenne, la senatrice Segre, pare che abbia apprezzato, non risprmiandosi - al microfono di Bossini - una frecciatina (moderata, perchè non si parla male dei morti!) al dedicatario di questo ROF, quel Graham Vick che in anni recenti deve averla parecchio irritata con le sue interpretazioni, ehm... originali.

Quindi spero proprio che l’impressione venga confermata fra qualche giorno dall’ascolto-visione live, di cui riferirò.

05 agosto, 2021

Si avvicna il ROF-42

Dopo la forzatamente ridotta edizione del 2020, il ROF ritorna con un programma normale (3 opere nel cartellone principale, più lo Stabat Mater, una serie di concerti da camera, l’ormai tradizionale Viaggio degli accademici e la chiusura con un Gala in omaggio a JDF che festeggia le nozze d’argento con il ROF) sia pure con restrizioni residue (o nuove di zecca) legate al Covid-19: oltre alla riduzione di circa la metà dei posti nominali e all’obbligo di rispetto del distanziamento e di indossare mascherine, il ROF sarà fra le prime manifestazioni teatrali a richiedere agli spettatori il famigerato green-pass per poter accedere ai luoghi del Festival.

Ad inaugurare il cartellone principale, lunedi 9, sarà una nuova produzioone di Moïse et Pharaon affidata alla bacchetta di Giacomo Sagripanti e alla regia dell’inossidabile Pier Luigi Pizzi. Il destino ha voluto che il predecessore di Pizzi nell’allestimento di quest’opera sia prematuramente scomparso proprio pochi giorni fa: così a Graham Vick, il cui Moïse fece storia nel lontano 1997 al suo primo apparire al ROF, è stata dedicata questa edizione del Festival.

Altra nuova produzione (in combutta con il Massimo palermitano) è Elisabetta Regina d’Inghilterra, che comparve al ROF nel 2004 per la prima volta. Infine Il Signor Bruschino (alla quinta apparizione al ROF dall’ormai lontano 1985) che è co-prodotto con la ROH del Sultano dell’Oman e con Bologna. Quest’anno tocca allo Stabat Mater- Bignamini sul podio - il ruolo di rappresentante della grande produzione non-operistica di Rossini.

Le sedi delle rappresentazioni principali sono (come da parecchi anni ormai) l’ex Adriatic- (ora Vitrifrigo) Arena e il Teatro Rossini. Il Gala conclusivo avrebbe dovuto inaugurare il rinnovato Palafestival (Scavolini patroneggiante) ma i lavori ancora non sono ultimati e così lo spettacolo sarà in Piazza del Popolo, mentre proprio in una piazza nei pressi del Palafestival ne verrà trasferita l’irradiazione in streaming. 

Radio3 come sempre non mancherà le tre prime (9-10-11 agosto) alle ore 20, con eccezione del Moïse che inizia alle 19.
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Annunciato anche il cartellone 2022: nuove produzioni di Le Comte Ory e Otello, più la ripresa de La Gazzetta del 2015.