Fra la domenca di ferragosto e il
martedi successivo si è concentrato il mio personale pellegrinaggio a Pesaro
per le tre opere del cartellone principale del ROF-42. Per la verità nella
prenotazione avevo chiesto appuntamenti più diluiti nel tempo, ma il boxoffice del Festival deve aver avuto i
suoi bei problemi per soddisfare tutte le richieste e così mi ha assegnato
proprio le tre date alternative da me
indicate... pazienza.
Eccomi quindi ad iniziare questo
commento proprio dal Bruschino, ospitato nella piccola
bomboniera di Piazza Lazzarini. L’assetto particolare della sala e il pubblico
forzatamente scarso (2 persone per palco) ha un po’ rattristato, ricordando
troppo da vicino i tempi grami dell’estate scorsa (che speriamo non ritornino!) ma per fortuna lo spettacolo
della premiata coppia Barbe & Doucet ha ampiamente
riscattatato queste miserie...
Per sua natura un’opera buffa (o una farsa giocosa come in questo caso) si presta bene a riproposizioni e reinvenzioni senza che ne venga snaturata l’essenza originale: così i due registi-scenografi-costumisti hanno potuto impunemente trasfomare il castello di campagna di Gaudenzio in un barcone di quelli che si ha ancora l’occasione di vedere sull’Adriatico e che potrebbe plausibilmente rappresentare il pied-à-terre estivo del ricco possidente. Le luci di Guy Simard hanno poi contribuito a sottolineare le diverse atmosfere che caratterizzano la vicenda.
Parimenti apprezzabile il fronte dei suoni, dove il giovane e allampanato Michele Spotti ha guidato con il piglio di un veterano voci e strumenti, a partire dalla scintillante Sinfonia che ha permesso alla Filarmonica Gioachino Rossini di sfoggiare le sue qualità (qui la trovata rossiniana dei colpi di archetto vibrati sul leggio dai secondi violini ha però giocato un brutto scherzo alla strumentista di concertino, cui si è spenta la luce costringendola a suonare per parecchio tempo al buio... prima che per sua fortuna il contatto si ristabilisse). Un figurone ha fatto invece Ilaria de Maximy con il suo corno inglese, nel mirabile accompagnamento obbligato dell’aria di Sofia Ah donate il caro sposo ad un’alma che sospira.
E proprio la Sofia di Marina Monzò è stata la trionfatrice della serata: dal suo debutto del 2017 in un ruolo di contorno (Pietra del paragone) direi che sia cresciuta moltissimo, per controllo dell’emissione e duttilità di espressione, impersonando adeguatamente il ruolo di ragazza apparentemente ingenua (non è certo il predicozzo del tutore a... svezzarla) ma invece ben decisa ad ottenere ciò che desidera.
I due buffi Giorgio Caoduro e Pietro Spagnoli hanno ben caratterizzato le diverse personalità dei due procuratori di nozze di interesse che alla fine vedono sfumare il loro disegno e devono accettare la dura (per loro!) realtà della vita, fatta di pupille emancipate e figli dissipatori.
Discreta la prestazione del Florville di Jack Swanson, un debuttante che non potrà che migliorare, avendo doti naturali di tutto rispetto. Gianluca Margheri è un Filiberto che - forse con l’intenzione di strafare - finisce per esibire qualche sguaiatezza di troppo. Onorevoli le prestazioni degl altri tre comprimari (la navigata Marianna di Chiara Tirotta, il tronfio Commissario di Enrico Iviglia e il povero figlio-di papà Manuel Amati).
Passiamo ora al piatto forte del
Festival, quel Moïse et Pharaon che tornava al ROF dopo l’unica apparizione
del 1997, edizione che aveva fatto epoca per l’allestimento del compianto Graham
Vick, allora alla sua prima presenza a Pesaro, cui ne seguiranno altre,
sempre accolte da contestazioni e scandali, ma anche da lodi sperticate...
In realtà quello del 1997 - almeno a giudicarlo con gli occhi di oggi - non era stato per nulla un allestimento scandaloso, almeno dal punto di vista della sostanziale coerenza con i contenuti originali del dramma: in questa (mediocre davvero) ripresa video si può constatare come Vick racconti abbastanza fedelmente la vicenda di natura biblico-storica con l’immancabile risvolto di rapporti umani di odio-amore. L’unico tratto di attualizzazione della storia lo si rileva solo al finale, quando la terra promessa si scopre essere la Palestina della prima metà del ‘900, che (Balfour intercedendo) diventò la casa nazionale degli ebrei (e infine lo Stato di Israele).
Ebbene, Pier Luigi Pizzi, che ha un approccio registico unanimemente ritenuto agli antipodi rispetto a quello di Vick, nella sostanza ne ripete pari-pari l’idea, presentandoci per tutta l’opera l’ambientazione egizia, ma con il finale precisamente collocato nella moderna Palestina.
(Fu con il Mosè in Egitto del 2011 che Vick fece davvero scandalo, impiegando la musica di Rossini come colonna sonora per narrare le efferatezze degli ebrei - Deir Yassin, per dire - nel loro processo di instaurazione dello Stato e trasformando Mosè in un estremista alla Jabotinski...)
Persino aspetti della scenografia recano somiglianze fra lo spettacolo di Vick e quello di Pizzi: ad esempio la passerella che avvolge l’orchestra: in Vick era assai più estesa e venne impiegata, olre che per farci transitare e sostare i cori e gli interpreti (proprio come fa Pizzi) anche - abbastanza cervelloticamente - per una processione di 5 minuti senza musica all’inizio del terz’atto, uno degli aspetti più criticabili di quella messinscena.
Pizzi riprende anche l’idea di Vick (mostrarci un giovane ebreo moderno proprio durante il Cantique finale) e la estende anche all’inizio dello spettacolo, dove il piccolo ebreo è presentato come simbolo del futuro.
Per il resto Pizzi resta fedele al suo clichè estetico, sia nelle scene (stilizzate e squadrate) che nei costumi (eleganti ma sobri) come anche nella gestione dei personaggi e nei movimenti delle masse. Assai efficaci le luci di Massimo Gasparon, soprattutto a sottolineare gli eventi miracolosi che si ripetono lungo l’arco della storia. E fa storia a sè (come sempre, quando viene eseguito) il lungo intermezzo di danze, dove è il coreografo di turno (qui Georghe Iancu) ad esibire - magari con pregi e difetti - la sua inventiva. Impeccabili i primi danzatori, Maria Celeste Losa e Gioacchino Starace.
Sul fronte musicale, ottime notizie, innanzitutto da Giacomo Sagripanti, che ha guidato con sicurezza ed equilibrio la splendida Orchestra Sinfonica Nazionale RAI, ormai divenuta un asset insostituibile per le principali produzioni del ROF. (Vi ho riconosciuto con piacere, alla seconda tromba, quell’Alex Caruana che per anni fu prima parte de laVerdi.)
Il Coro del Teatro Ventidio Basso (istruito da Giovanni Farina) sta parimenti guadagnandosi - in pochi anni - i galloni di titolare del ROF, con prestazioni di assoluto valore, ricche di espressioni, sfumature e colori che caratterizzano la partitura rossiniana.
Vasilisa Berzhanskaya è stata di gran lunga la trionfatrice della serata, offrendoci una Sinaïde di gran spessore: voce solidissima e acuti potenti (meno penetrante l’ottava bassa); da stadio l’interminabile accoglienza che il pubblico ha riservato alla sua grande aria in chiusura dell’atto secondo.
Buona la prestazione di Eleonora Buratto, capace di modellare le diverse e inconciliabili sfaccettature della personalità di Anaï, perennemente combattuta fra amore e fede religiosa: la grande aria dell’atto quarto (la rinuncia all’amore in favore della fede) ne è stata chiara testimonianza.
I capi dei due popoli, Roberto Tagliavini ed Erwin Schrott, sono stati resi (nella vocalità, ma anche nell’interpretazione) in modo assolutamente adeguato alle caratteristiche dei personaggi: austero, severo e intransigente Moïse, quanto tronfio, volubile e un po' vanesio Pharaon: una coppia davvero perfettamente assortita.
Luci e ombre sull Aménophis di Andrew Owens, bella voce chiara e squillante (RE sovracuto incluso) ma un poco in impaccio nel rendere al meglio la personalità schizoide (speculare a quella di Anaï) sempre in bilico fra desiderio - carnale per lo più - e ferocia vendicativa del principe ereditario.
Più che apprezzabile la prova dell’Eliézer di Alexey Tatarintsev, che ha saputo mettere le sue ottime doti naturali al servizio del personaggio, che mescola la severità del fratello con tratti di pietas e di apprensione.
Efficaci Nicolò Donini (Osiride e Voce dal cielo) e Matteo Roma (Aufide) mentre una particolare citazione va all’inossidabile Monica Bacelli, una Marie quale meglio non si potrebbe immaginare.
Infine Elisabetta Regina d’Inghilterra. Opera seria, come viene catalogata. Livermore in questi casi non ha mezze misure (tradotto: mantenere un minimo di equilibrio e di fedeltà al testo). Lui o fa ri-ambientazioni in chiave pesantemente politica (cito solo i suoi Vespri torinesi...) oppure la butta in (avan)spettacolo. Ecco: qui ha scelto la seconda strada (immagino che la politica la tenga in serbo per il prossimo Macbeth di SantAmbrogio).
Per la verità c’è anche la ri-ambientazione, ma non è una cosa seria, chè prendere Leicester per Townsend che svolazza su uno Spitfire e i cugini scozzesi per i nazifascisti fa appunto sorridere. (Un po’ come il suo Tamerlano scaligero ambientato nella Rivoluzione d’ottobre, dove Stalin e Lenin si contendono una figlia dello Zar.) Ma il regista ragiona così (in occasione della prima ai microfoni di Radio3): visto che il libretto è pura invenzione e di autenticaamente storico ha ben poco, allora anch’io mi sento autorizzato ad inventarmi ciò che mi pare e piace! E così di apprezzabile resta appunto solo la spettacolarità di scene (Gio Forma) costumi (Gianluca Falaschi) luci (Nicolas Bovey) ed effetti video (D-Wok). Oltre ad un continuo e francamente stucchevole (perchè insensato) e ripetitivo movimento di persone e soprattutto di cose (che magari scendono dall’alto, trovata da inflazione galoppante).
Certo, bisogna riconoscere che l’opera è assai difficile, ostica e di non immediata digeribilità: sappiamo che Rossini era (positivamente) ossessionato dal fare colpo sull’esigente platea napoletana, dove era atteso con sospetto pari alla curiosità; e così scelse alcuni brani (a partire dalla sinfonia) di sue opere già collaudate e li immerse in un mare di recitativi accompagnati. I quali però, se non adeguatamente sostenuti dall’orchestra, rischiano di diventare più noiosi di quelli secchi, che per lo meno possono essere esposti in gran fretta.
E qui vengo perciò a Evelino Pidò, la cui direzione mi è parsa carente proprio nel sostegno ai recitativi, mentre assai meglio ha supportato arie, concertati e cori, grazie alla gran forma della OSN-RAI.
Non perfettamente assortito il cast vocale, dove si potrebbe persino parlare di... scambi di persona: Elisabetta-Matilde e Leicester-Norfolc! Karine Deshaves mi è parsa piuttosto timorosa nell’affrontare il ruolo della famigerata Virgin Queen e quando ci ha provato ha emesso acuti non sempre puliti; Salome Jicia invece cantava come fosse... la Regina, sovraccaricando troppo la mite e arrendevole Matilde.
Sergey Romanovsky non ha centrato completamente il personaggio eroico di Leicester, anche se ha fatto assai meglio dell’ormai logoro Barry Banks, voce chioccia e oggi del tutto inadatta per un cattivone alla Iago.
Onorevoli le prestazioni dei due comprimari: Marta Pluda, en-travesti come Enrico; e Valentino Buzza, Guglielmo. Sempre all’altezza il Coro di Giovanni Farina.
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