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07 novembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 58


L’EXPO ha chiuso i battenti, ma non Campogrande, che prima di dedicarsi al prossimo MITO si sofferma ancora sugli inni nazionali (Vietnam, questa volta).

Poi programma tutto sovietico, diretto da Stanislav Kochanovsky, che torna dopo nemmeno un mese sul podio dell’Auditorium, rimpiazzando l’originariamente designato Aziz Shokhakimov (che in compenso è appena stato nominato Direttore Principale Ospite de laVERDI).

Dapprima per supportare il rampante Yuri Revich (anche per lui un ritorno qui dopo due anni) nel Concerto di Aram Khachaturian, azero-armeno di Georgia, presto trasferitosi a Mosca - proprio come il suo conterraneo Stalin - e pienamente e convintamente integratosi nell’establishment musicale dell’URSS, scalandone la piramide fino al top. A parte una fugace e tardiva (1948) accusa di formalismo mossagli da un ormai moribondo Ždanov - accusa presto rientrata più a causa della scomparsa del censore che per merito della deliberatamente ipocrita autocritica del musicista – il nostro potè poi girare il mondo in lungo e in largo a spese del regime per farne l’apologia.

Il concerto qui eseguito è del 1940, periodo in cui il patto Molotov-Ribbentrop aveva illuso Stalin e compari di poter continuare indisturbati il consolidamento del loro potere assoluto, fatto di purghe e fucilazioni per i dissidenti e di premi in natura per gli artisti vessilliferi del regime. Regime che – attraverso l’Unione dei Compositori Sovietici, del cui comitato organizzativo Khachaturian era allora vice-presidente! - aveva fatto sorgere a Ruza (100Km a ovest di Mosca) una specie di villaggio del riposo e della creatività per musicisti, dove il nostro trascorse proprio l’estate del ‘40 con la moglie Nina incinta e dove compose di getto il concerto per violino, poi sostanziosamente rivisto dall’amico e dedicatario Oistrakh, che lo tenne quasi subito a battesimo a Mosca e di cui ecco un’esecuzione con l’Autore sul podio.

Oistrakh, oltre a fornire apprezzati consigli a Khachaturian sulla parte solistica, scrisse anche, per l’iniziale Allegro con fermezza, una sua cadenza (che si ascolta nella registrazione citata, da 8’06”) più brillante e classica nel contenuto di quella originale (che si può ascoltare invece da Haik Kazazyan, da 7’56”). 

Khachaturian si attiene scrupolosamente alla struttura classica: tre movimenti (due veloci ad incastonare quello lento) e impiego della forma-sonata nel primo e del Rondo nel finale; praticamente… fine ‘700! Certo, i temi sono tutt’altro che sinfonici, ispirati come sono a melodie popolari vagamente orientaleggianti, che il compositore aveva assimilato nelle sue terre caucasiche; ma sono magistralmente elaborati e danno al brano quella brillantezza che ne ha garantito il successo fin dalla prima esecuzione.
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Seguiamo la citata interpretazione di Oistrakh. Non ci sono accidenti in chiave, ma l’Allegro con fermezza (che occupa quasi il 40% dell’intera durata) è in RE minore, introdotto da 9 robuste battute orchestrali, dopo le quali (15”) il solista espone il primo tema, di sapore maschio e nervoso, suddiviso in due sezioni, subito rimbeccato dall’orchestra; tema poi ripetuto (1’03”) un’ottava più in alto e ancora sviluppato con il concorso orchestrale. Una transizione lenta (1’51”) conduce al secondo gruppo di temi (2’12”, Poco meno mosso) più elegiaco, vagamente ambientato sulla dominante LA e caratterizzato da un secondo motivo (3’27”) quasi lamentoso. Una breve cadenza (3’54”) conduce al corposo sviluppo, introdotto ancora rumorosamente (4’09”) dall’orchestra, dove il solista ripropone assai variati i temi principali, dialogando con l’orchestra fino ad adagiarsi su trilli di FA acuto. Qui (7’40”) violino e clarinetto si rimbeccano un veloce motivo di biscrome che scende e risale di un’ottava per sfociare (8’06”) nella lunga cadenza principale del solista. Dopo la quale(10’45”) ecco la ricapitolazione dei temi, nelle stesse tonalità dell’esposizione, ma con qualche variante: il primo (10’54”) e poi (12’00”) il secondo. Infine ecco (13’51”) una veloce coda conclusiva, basata sul primo tema.

Il centrale Andante sostenuto è permeato di… Caucaso: le lunghe melodie del solista sono un omaggio ai canti dei bardi armeni (gli ashug). La macro-struttura è di pseudo-rondo: A-B-A-B-A-B, dove sia A che B vengono però continuamente variati e sviluppati. È il fagotto ad introdurre l’embrione del motivo A (14’56”) intercalato dal clarinetto, prima dell’entrata del solista (16’21”) con il tema B, una lunga emozionante melopea. Dopo una breve parentesi orchestrale (18’16”) il solista riprende (18’27”) il tema A, che sviluppa ampiamente e al quale fa seguire (19’24”) il tema B, anch’esso sviluppato con un’accelerazione (20’10”) ad Allegretto, che l’orchestra ulteriormente accentua con un movimentato Allegro (20’30”) che introduce, tornando ad Andante (20’58”) il tema A, variato e ripreso successivamente con nuove variazioni (22’13”) dal solista. Altro siparietto orchestrale (24’02”) con cadenza del fagotto sul tema A e alcuni strappi con intervento dei piatti, quindi (24’34”) il solista riespone B all’ottava inferiore rispetto alle altre due entrate, contrappuntato dal clarinetto. A 25’22” l’orchestra interviene a completare B con una perorazione grandiosa, che porta (26’06”) alla coda conclusiva del solista.

Il finale è un Rondo Allegro vivace con il ritornello in RE maggiore. La macro-struttura è A-B-A-C-A-B-A’, più Introduzione e Coda. È l’orchestra (27’13”) ad aprirlo con una spettacolare fanfara introduttiva. Il ritornello A (il cui tema è vagamente mutuato dal secondo del movimento iniziale) viene esposto dal solista a 27’49” ed è seguito da un breve controsoggetto. Nuova esposizione di A (28’13”) seguita da una sua seconda sezione (28’23”) che attacca in minore per poi riproporre il tema in maggiore. L’episodio B (28’34”) presenta un tema dolce, esposto dal solista con interventi dell’orchestra (28’54” e 29’18”) che sfociano nella riproposizione delle due sezioni di A (29’29” e 29’41”). Una nuova fanfara (29’58”) orchestrale porta all’episodio principale (il più lungo) caratterizzato dall’agogica cantabile appassionato: a 30’10” il solista ne espone una prima sezione, seguita, dopo un intervento dei corni (30’11”) da una seconda e quindi, dopo altro intervento orchestrale (32’31”) da una terza assai virtuosistica (32’57”). L’orchestra (34’07”) e il solista (34’23”) preparano il ritorno di A (34’28” e 34’37”) seguito subito (34’50”) da B. Ancora l’orchestra (35’13”) introduce l’ultima apparizione di A (35’18”) qui virante a minore. A 36’06” ecco la virtuosistica coda, chiusa dalla fanfara che aveva introdotto il finale.        
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Revich ci mette tutto l’impegno per trasmetterci la vitalità del concerto. Peccato che (forse causa penuria di prove) l’intesa con Kochanovsky non sia stata perfetta: non tanto sugli attacchi, ma sul peso degli strumenti dell’orchestra, che hanno spesso e volentieri coperto (per eccesso di volume) il suono pur gagliardo del violino solista. 

Quanto alla cadenza, Revich ha deciso di mettere tutti d’accordo creandone una sua personale, che parte da quella di Khachaturian e poi mutua qualcosa da Oistrakh e un po’ anche da… lui medesimo! In ogni caso il successo è garantito e le chiamate del pubblico vengono ricompensate con un Bach assai spigliatamente proposto.
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Infine la Quinta di Shostakovich, che torna in Auditorium dopo 17 mesi (allora diretta da Xian). Opera che andrebbe apostrofata come Sinfonia ipocrita: ciò a voler prestar fede alle dichiarazioni pubbliche e private dell’Autore; le prime di aperte scuse per i passati errori (la Lady) e di apologia del regime staliniano (la realizzazione dell'uomo); le seconde che smentiscono clamorosamente le prime (Il giubilo è forzato, è frutto di costrizione) denunciando la mancanza di libertà che quel regime imponeva a sudditi e compositori.

Ovviamente basta ignorare del tutto sia le une che le altre esternazioni per poter godere di questa musica, una sinfonia tardo-romantica composta quasi a metà del ‘900, e chi se ne importa. Allo Höhepunkt del Largo c’è sempre da rabbrividire a quel passaggio dal SOLb maggiore al FA maggiore dove i violoncelli – sul tremolo degli altri archi e il tappeto di semicrome dei clarinetti - espongono un motivo davvero sbudellante (anticipato poco prima dall’oboe e poi dal flauto e ripreso in armonici dall’arpa alla fine):



Inutile dire che l’Orchestra ha splendidamente suonato, facendo fare un bella - ma tutto sommato anche meritata - figura al giovane Kochanovsky!

16 settembre, 2013

L’Orchestraverdi apre la stagione dei suoi 20 anni alla Scala

 

La simpatica tradizione, che vuole laVerdi ripresentarsi al suo pubblico dopo le vacanze (cortissime, per lei, come testimoniano le facce smunte di tutti i ragazzi) nell’austero scenario del Piermarini, si è ripetuta ieri sera per l’inaugurazione della stagione dei 20 anni dell’Orchestra, guidata da Zhang Xian.

 

Teatro affollato ma non proprio esaurito per ascoltare un programma all-russian: evidentemente in questi giorni, oltre che sulla scena politica internazionale, anche nei programmi musicali milanesi imperversa l’orso russo…


In realtà esiste una ragione più seria e profonda per questa scelta: il doveroso omaggio al leggendario fondatore dell’Orchestra: Vladimir Delman.



Così si parte da Ciajkovski per arrivare a Stravinski, passando per Rimski: un percorso persino didascalico, quasi una lezione da Conservatorio, come l’avrebbe fatta il Maestro, sull’evoluzione della musica russa nel passaggio da ’800 a ‘900. Poi in Scala si scopre che l’allievo Igor lascerà l’ultima parola al maestro Nicolaj, ma invertendo l’ordine degli addendi… etc. Si tratta in ogni caso di opere che per evidenti ragioni fanno parte del repertorio dell’Orchestra fin dalla sua fondazione.
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Ad aprire le danze è il 22nne Yury Revich che interpreta quella che l’esteta Eduard Hanslick aveva definito musica puzzolente (! in effetti anni fa da noi profumava di… brandy!)

Il ragazzo sarà forse ancora un po’ acerbo, ma ha una tecnica davvero straordinaria e non potrà che migliorare col tempo: già ieri, per dire, mi è parso più autorevole rispetto a questa esibizione di qualche anno fa.


Come allora, è stato forse eccessivamente circospetto nell’avvio, ma ha poi tirato fuori le unghie nel finale. Il meglio, a mio modesto parere, lo ha però dato nella canzonetta. Successo indiscutibile e bis sacrosanto.

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Evidentemente le guerre dovevano avere un effetto speciale su Stravinski e in particolare sul suo Uccello (pornosmile!): dico, appena finita la grande (1919) lui sciorina una nuova Suite dalle musiche del balletto, dopo quella del 1911; nel 1945, come si chiude la seconda, ecco subito una terza Suite! Poi, scongiurato per fortuna il non c’è due senza tre nucleare, il nostro è stato privato della possibilità di sfornare una quarta Suite, ergo si è dovuto rassegnare ad apportare alla sua creatura infuocata solo dei piccoli ritocchi qua e là, e magari solo per esigenze discografiche, come accaduto ad esempio nel 1947.

La figura che segue mostra una sintesi della struttura del Balletto e delle tre Suite (la terza anche in edizione 1947). L’ampiezza verticale delle righe è (più o meno) in scala con il numero di battute musicali del brano ivi indicato (il che non significa ovviamente che ci sia proporzione con la durata). La numerazione all’estrema sinistra è quella della macro-suddivisione di scene del balletto fatta dall’Autore; quella in testa ad ogni titolo è invece la micro-suddivisione dei singoli numeri del balletto, come si desume dalla partitura originale. Ho omesso per non complicare la figura i titoli dei vari brani delle Suite: per le prime due in pratica sono gli stessi titoli delle corrispondenti scene del balletto; la suite del 1945 introduce un po’ surrettiziamente tre brani intitolati Pantomima, ma null’altro sono se non parti o diverse denominazioni dei numeri del balletto. Nell'edizione in disco del 1947 sono stati usati anche termini svincolati dalle scene del balletto, come ad esempio: Adagio (Suppliche) Scherzo (Gioco) e Rondò (Khorovod).

Come si nota, le Suite pescano in modo diverso dalla fonte comune del balletto.


Il balletto originale (qui un’esecuzione di Jukka-Pekka Saraste) dura all’incirca 45 minuti. Le Suite si caratterizzano per la differenza di approccio con cui Stravinski le ha costruite a partire dal balletto.

La prima Suite del 1911 fu ricavata per pura e semplice estrazione di 96 pagine dalle 172 della partitura del balletto, con la sola modifica di 7 pagine, per ragioni di chiusura o collegamento di numeri. Le stesse matrici originali delle pagine del balletto furono impiegate per stampare la partitura della Suite. Quindi praticamente nessun intervento sulla strumentazione, né sull’organico orchestrale, a parte l’esclusione dei rinforzi dei 7 fiati (trombe e tuba) che nel balletto sono previsti suonare sulla scena e più che altro in numeri esclusi dalla Suite. La quale dura circa 25 minuti: qui è eseguita dagli spagnoli della Radiotelevisione di Madrid diretti da David Shallon, che però ci aggiunge anche la Ninnananna e il Finale.

La seconda Suite del 1919 fu invece assai più elaborata da Stravinski, che non si limitò ad una diversa scelta di brani da includervi, ma procedette ad una sostanziosa rivisitazione dell’orchestrazione e a qualche sottile intervento anche sulle linee melodiche. L’organico orchestrale è un filino ridotto rispetto a quello della prima Suite, sia nei fiati che nelle percussioni. Inoltre questa Suite prevede due possibili strutture: la prima si chiude, come quella del 1911, con la Danza infernale, la seconda include anche la Ninnananna, una transizione e il grandioso e magniloquente Finale, per una durata in questo caso di poco più di 20 minuti.

E al proposito si può osservare un esempio apparentemente insignificante di intervento sul contenuto musicale: riguarda le 16 battute (nella partitura del balletto) che chiudono il numero 23 (Profonde tenebre) prima dell’inizio del glorioso Finale dove – come nell’Alcina di Händel, per dire – si ripristina il ritorno alla vita. Mentre nel balletto queste battute arrivano dopo la morte del mago cattivone Kastchei e dipingono una specie di spettrale quiete che deve apparire come eterna, prima di essere inaspettatamente rotta dall’irrompere del tema del Finale, nella Suite il passaggio segue immediatamente l’esposizione della Ninnananna, che ha già instaurato, dopo il feroce ballo infernale, un clima più sereno e disteso. Perciò Stravinski altera quelle 16 battute, introducendovi una sia pur lenta accelerazione del tempo, proprio a preparare l’arrivo del trionfante Finale; e lo fa dimezzando il valore delle note delle ultime 10 battute, che si riducono a 5 trasformando le semibrevi in minime:


Qui il novello senatore Abbado la dirige a Lucerna, in versione completa con il Finale. È questa, delle tre, la Suite sicuramente più eseguita: a parte la maggior concisione rispetto alle altre, ha anche una struttura molto simmetrica, essendo costituita in pratica da un alternarsi per tre volte di brani lenti e mossi.  

La terza Suite del 1945 ricalca – a parte la presenza del Finale - piuttosto la prima nella struttura (quindi è più lunga della seconda, durando 28-30’) mentre di quest’ultima conserva le novità di contenuto. Ecco Stravinski dirigerla a Londra con la NewPhilharmonia nel 1965, a 82 anni! E qui la stessa versione come pubblicata nel 1947, eseguita con la NYPO.
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Bravissima la Xian già dall’iniziale pianissimo degli archi bassi e poi nella Khorovod, dove si distinguono l’oboe di Emiliano Greci e il cello di Mario Shirai. Forsennata, più che infernale, la danza delle creature del cattivone Kastchei: la cui conclusione proterva fa scattare anzitempo un applauso liberatorio quanto inopportuno, chè rovina il contrasto con la successiva ninnananna. Non proprio impeccabile l’attacco del finale, chiuso comunque con straordinaria efficacia.
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Infine è la volta di Rimski e del suo Capriccio Spagnolo (qui alcune mie personali note di presentazione). La Xian ci aggiunge manciate di rubato, che si possono anche tollerare, date le circostanze. Il pezzo è di quelli che non possono non far ammattire il pubblico. Note di merito per Luca Stocco al corno inglese, Raffaella Ciapponi al clarinetto, Max Crepaldi al flauto e per il Konzertmeister Santaniello.


Non poteva mancare un travolgente bis, e così i nostri hanno chiuso la serata precisamente come avevano fatto 10 giorni or sono ai PROMS.

Giovedi si comincia in Auditorium con tutto e solo Verdi