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quattro chiacchiere al petrus-bar
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28 luglio, 2014

Bayreuth: un filino meglio


Come già accadde lo scorso anno, Die Walküre ha un po’ risollevato il livello qualitativo di questo Ring, che di sicuro pochi ricorderanno come… memorabile.  

In particolare è il primo atto ad aver(mi) pienamente convinto: il trio Botha-Kampe-Petrenko ne ha dato un’interpretazione degnissima, cui il nuovo (rispetto al 2013) Hunding di Kwangchul Youn ha aggiunto un tocco di serietà fin eccessiva. L’entusiasmante finale è stata una vera perla, come raramente capita di ascoltare, con la semiminima conclusiva che Petrenko ha mirabilmente inchiodato nella prima metà della battuta e non enfaticamente tenuto (nella seconda) come usa fare la maggior parte dei Kapellmeister. Bravo!

Il direttore russo tiene in generale tempi rapidi (61–85–64 minuti) ma non ci fa mancare nulla dei dettagli e dei pregi della partitura. Qualche piccola libertà nell’agogica fa parte (non da oggi) del… patrimonio dei direttori, grandi e piccoli.

L’ingresso in scena, dal second’atto,  degli altri tre protagonisti (due dei quali purtroppo dovremo incontrare anche nelle giornate successive) ha poi nettamente abbassato il livello qualitativo della recita: Wolfgang Koch e Catherine Foster (parliamoci chiaro) non dovrebbero cantare nei panni di Wotan e Brünnhilde! Le note le faranno anche (beh, insomma, la Foster ha abbastanza calato un paio di DO nei suoi Hojotoho…) ma è proprio la caratteristica fisica della loro voce a fare a pugni con le esigenze minime dei ruoli. Lui ha fatto varie volte Alberich, che probabilmente gli calza meglio; lei invece fa Brünnhilde praticamente ovunque e quindi devo essere io a sbagliarmi (smile!) Quanto a Claudia Mahnke, è anche qui (come nel Rheingold) una Fricka piuttosto incolore, poi non si riscatta molto travestendosi da valchiria (Waltraute). 

Insomma, suonatori sugli alti standard di Bayreuth e compagnia di canto male assortita: anche questo pare divenuto uno standard – negativo – sulla verde collina.

31 maggio, 2013

I Sassoni con Thielemann sommergono di suoni la laguna


La Sächsische Staatskapelle e il suo carismatico Kapellmeister sono stati ieri ospiti di Venezia per un grande concerto wagneriano (con intermezzo… contemporaneo). Era l’ultima tappa del tour del compleanno, che ha prima toccato Parigi e Vienna, altre città-chiave nella vita (non solo artistica) di Wagner.  

Ma il programma era interamente dedicato a Dresda, per evidenti ragioni… geopolitiche: tutte musiche che in quella città, e proprio con i trisnonni dei musicisti di oggi, videro la luce (Rienzi, Holländer, Eine Faust Ouverture, Tannhäuser) o musiche che in quella città furono concepite (Lohengrin). In mezzo, un omaggio a Hans Werner Henze, che Thielemann aveva voluto come Compositore in residenza presso la Staatskapelle e che purtroppo ci ha lasciato prima di poter completare il suo Isoldes Tod. A completare il quadro, la presenza… ingombrante (stra-smile!) di Johan Botha, che si è cimentato in tre famose arie di quelle stesse opere (Holländer escluso).

Una Fenice con più di una poltrona vuota ha assistito ad una straordinaria prestazione dei sassoni, un’orchestra che – in questo repertorio soprattutto – ha pochi rivali. Come pochi ne ha Thielemann, che la guida con il suo gesto misurato, poco appariscente, ma evidentemente efficacissimo. Segno che dietro c’è un duro lavoro di prova e di amalgama, che poi in concerto dà i suoi frutti quasi da solo.

Il programma era ben congegnato, con l’Ouverture dell’Holländer ad aprire sontuosamente la serata. È l’opera che anche in questo anno di ricorrenze inaugura il Festival di Bayreuth, il 25 luglio. E Thielemann evidentemente sta rientrando in quell’atmosfera: qui ha preferito la chiusa in pianissimo sul tema della redenzione, omettendo il rumoroso accordo finale.

Ecco poi Eine faust Ouverture, forse l’unico pezzo sinfonico di Wagner che mantiene stabilmente un posto nei programmi concertistici. Und so ist mir das Dasein eine Last,/ Der Tod erwünscht, das Leben mir verhaßt, perciò l’esistenza è per me un fardello, la morte augurabile, la vita odiosa. Questi i due versi di Goethe posti programmaticamente da Wagner in calce alla partitura, che vide la luce ai tempi dell’Holländer (di cui mutua le atmosfere cupe) e fu poi rivista quando si affacciava da lontano un tale Tristan… Ecco come la interpretava Toscanini. E Thielemann non è da meno: fa proprio venir fuori tutto il pessimismo che la pervade, appena appena rischiarato dalla conclusione serena (tipo Tristan, in effetti).

Quindi la prima comparsa di Botha, per interpretare la straordinaria Allmächt’ger Vater dal quinto atto del Rienzi. Per la verità qui il tenore sudafricano non mi è parso troppo all’altezza del compito: solo il modo con cui ha tirato via i gruppetti che caratterizzano i versi Du stärkest mich e Du liehest mich (e poi Mein Herrsenke dein Auge) la dice lunga su una certa approssimazione. (Qui il pur discusso Kaufmann fa assai meglio…) Per fortuna ci pensa subito dopo Thielemann, dirigendo l’Ouverture, a rimettere le cose al giusto posto: un’esecuzione letteralmente superlativa, accolta da acclamazioni entusiastiche.

Dopo l’intervallo una nuova accoppiata strumenti-voce: dapprima il Preludio di Lohengrin, altra autentica perla della serata, dove gli archi (i violini innanzitutto, come è ovvio) cavano una purezza di suono incomparabile. Poi arriva Botha per l’immancabile In fernem Land, corredata – come ormai costume, almeno in concerto o nelle incisioni, come questa di Kaufmann (e speriamo che non lo diventi in teatro!) - di quei 20 versi aggiuntivi che letteralmente distruggono tutto il bello e il buono di ciò che li precedeva, soprattutto se privati (come qui, per evidenti ragioni) degli interventi del coro, gli unici che in qualche modo li nobilitano. E non per nulla Wagner ordinò perentoriamente a Liszt di espungere l’intera sezione già alla prima rappresentazione di Weimar! Botha anche qui non (mi) incanta: emissione affannata, poco legato, insomma una mezza delusione.

Di Hans Werner Henze viene poi eseguita Fraternitè, composta per Kurt Masur e la New York Philharmonic Society nel 1999. Bellissimo pezzo di questo gigante della musica contemporanea, che evidentemente concepiva la musica come arte mossa dall’ispirazione, e non come freddo vaniloquio.

In chiusura altra coppia canto-orchestra. Tocca per primo a Botha proporre la massacrante aria finale di Tannhäuser (Inbrunst im Herzen): qui il tenore mi pare riscattarsi e fa emergere efficacemente tutta la drammatica potenza dello sfogo del personaggio maledetto da tutti. Meglio comunque fa ancora Thielemann con l’Ouverture, un vero gioiello, di suoni e anche di interpretazione, davvero calata fino in fondo nello spirito alto-tedesco del soggetto.

Trionfo assicurato e contraccambiato con il bis più… ovvio: il Preludio all’Atto III di Lohengrin.

Beh, almeno per quanto mi riguarda, è valsa la pena – e la spesa - di una trasferta sotto il diluvio (che per fortuna ha risparmiato proprio Venezia): capita poche volte, in Italia, di ascoltare orchestre ed esecuzioni di così alto livello.  

17 marzo, 2010

Tannhäuser a Torino

In attesa dell'arrivo di Zubin Mehta e dei saltimbanchi della Fura alla Scala, ieri sera un Tannhäuser di pura e semplice musica al Teatro Regio di Torino. Della serie: così non occorre chiudere gli occhi per godersi l'opera (smile!) L'anfiteatro del Regio non è proprio colmo-colmo (brutto segno) ma il peggio accadrà al secondo intervallo.

Tannhäuser è rimasta un'opera incompiuta: Wagner riconobbe, proprio a Venezia, poco prima di morire, di esserne ancora debitore al mondo (sì, al mondo, non a qualche appassionato d'opera… lui era un pochino, ma proprio poco, megalomane, si sa). Quindi la curiosità principale che nasce di fronte ad un'esecuzione è: quale versione o rivisitazione ci verrà propinata? La prima, del 1845? O la seconda, o la terza, del 1847, con Venere in bella vista nel finale? O quella del 1861 (del colossale tonfo parigino)? Ma proprio quella di Parigi-Francia, con l'intera Ouverture, o quella parigina-tedesca del 1872-1875, con l'ouverture castrata a due terzi per correre in fretta e furia al tristanizzato – ed anche un filino meisterizzato - bordello di Venere? O qualcosa di diverso ancora?

Bychkov è andato sul sicuro, offrendoci l'ultima versione messa a punto da Wagner, che è – con qualche buona ragione – quella statisticamente impiegata di più, anche se proprio a Bayreuth si ostinano – non sempre – a dare la versione ante-Parigi, forse per postuma ripicca contro quei simpaticoni del Jockey Club, ingrati, che fecero a pezzi l'opera rivisitata proprio per loro e preparata con più di 200 prove, a spese dell'Imperatore!

Quanto alla storia delle interpretazioni, qui c'è una vera enciclopedia!

Bychkov attacca l'Ouverture, e le primissime battute non sembrano molto felici (forse per colpa di un clarinetto?) poi però tutto fila per il giusto verso (tempi compresi). Il baccanale è davvero travolgente, quindi udiamo i dolcissimi richiami delle sirene da lontano (il coro femminile è fuori dalle quinte, sul palco solo i maschi, pronti per la terza scena). In proscenio Venere e Tannhäuser. Michaela Schuster (che in realtà ha un fisico da Giunone, e pure abbondante) mostra subito pregi e difetti, ottima espressività, con qualche urlo sforzato. Johan Botha (che ha la stazza dell'ultimo Lucianone, con la metà dei suoi anni) è esordiente nel ruolo, ma già interprete di altri importanti personaggi wagneriani: all'inizio sembra un pochino contratto, quasi timoroso sulla prima grande frase in RE bemolle (Dir töne Lob!) poi via via migliora, già dalla seconda (che sale al RE naturale) e sulla terza (che sale ancora, al MI bemolle) mostrando la sua voce chiara e squillante, ben adatta per una parte tutta spostata verso l'alto del pentagramma; espressioni efficaci, insomma, grande autorevolezza e padronanza del personaggio. Che non potrà che migliorare con la consuetudine al ruolo.

Brava Erika Grimaldi nelle vesti del pastorello: pur sistemandosi dietro l'orchestra (davanti al coro) la sua vocina passa benissimo, insieme alla struggente melodia del corno inglese (che non arriverà alle altezze del Tristan, ma poco ci manca) suonato da Alessandro Cammilli. Entrano poi, sistemandosi sul proscenio, il Landgravio, un sicurissimo Kwangchul Youn, che ha imparato il ruolo in quel di Bayreuth, e i cantori. Fra i quali spicca subito il Wolfram di Boaz Daniel, voce morbida, assai appropriata per il ruolo (ne avremo conferma i due atti successivi). Jörg Schneider era Walther, Jochen Schmeckenbecher Biterolf, Dominic Armstrong Heinrich e Lucas Harbour Reinmar. Tutti all'altezza dei rispettivi – non impossibili – ruoli. Wagner – megalomane, al solito – prescrive, fuori dall'orchestra, sulla scena, addirittura 12 corni! Bychkov ha la fortuna di disporre di esecutori eccellenti, e gli basta un quarto della dotazione (la stessa cosa accade nel secondo atto, dove Wagner prescrive 12 trombe sulla scena!)

Nel secondo atto vediamo subito la Elisabeth di Ricarda Merbeth. Ottima presenza e portamento, anche lei con luci ed ombre: benissimo finchè canta sul piano, poi, quando deve andare sul forte, e oltre il SOL acuto, mostra una certa tendenza all'urlo. La cosa migliore la farà nel terzo atto. Breve apparizione di Wolfram, che introduce il protagonista e qui abbiamo il duetto Gepriesen sei die Stunde, dove Botha spicca in modo particolare. Torna Hermann, ancora autorevole nel suo incontro con Elisabeth; poi i cori (maschi in alto, signore sotto) per una grande e per nulla enfatica scena della presentazione dei cantori e della tenzone. Dove Boaz Daniel ancora si mette in bella mostra con il suo inno all'amore, poi interrotto dall'esplosione di Botha, che canta per la quarta volta (salendo ancora, al MI naturale) la sua irresistibile attrazione verso Venere.

Poderosa la scena successiva, con cantori e coro ad aggredire il blasfemo, interrotti a tratti dalle irruzioni di Elisabeth (Haltet ein! Zurück, sempre con gli alti-e-bassi ricordati). Dopo il rinsavimento di Tannhäuser (la cui frase principiante con Zum Heil den Sündigen zu führen e fino a für sein Leben è giustamente lasciata al solo protagonista, senza il contrappunto di coro e cantori) si arriva al finale, ancora con il gigantesco concertato generale, culminante nella perentoria intimazione al reprobo: Nach Rom!

Ecco, qui un buon 5-10% di spettatori deve aver preso alla lettera l'invito e se l'è squagliata (correndo a Porta Nuova a prendere l'ultimo Frecciarossa per la capitale?) Desolante, a dir poco!

All'inizio del terzo atto vediamo finalmente sul palco tutti i coristi: in alto i ragazzini di Claudio Fenoglio, sotto le signore e più in basso ancora i maschi (per ragioni, penso, legate alla resa del coro iniziale dei pellegrini). Dopo l'introduzione strumentale, magistralmente diretta da Bychkov, è ancora Wolfram a presentarci Elisabeth, in perenne attesa del ritorno dell'amato. Strepitoso qui il coro di Roberto Gabbiani, un piano davvero religioso, che esplode poi nel fortissimo di Der Gnade Heil, una cosa da mozzare il fiato!

Nel successivo lamento di Elisabeth, la Merbeth dà il meglio di sé, sia come canto che come drammaticità di interpretazione. Come pure fa Boaz Daniel porgendoci con calore e gusto la sua canzone alla stella della sera, mentre la ragazza se ne esce, accompagnata stupendamente da Bychkov. Arriva Tannhäuser col suo lunghissimo racconto della penosa avventura romana, e poi torna sul palco Michaela Schuster per il suo ultimo disperato tentativo di riportare il peccatore al peccato.

Forse Bychkov lascia troppa corda all'orchestra (effettivamente deve fare un fortissimo) ma sta di fatto che lo stentoreo Elisabeth! di Wolfram (autentico momento topico) perde un pochino della sua drammaticità. Ora si chiude, con i ragazzini a cantare il loro parsifaliano Heil! Heil! Der Gnade Wunder Heil! Prima che tutti – in un colossale fortissimo – suggellino la redenzione del Nun geht er ein in der Seligen Frieden!

Un trionfo? È dir nulla! Schiamazzi e urla da stadio (o c'erano troppi interisti?) ad accogliere le sortite di cantanti e direttori e le alzate di professori e coristi. Una serata di quelle da incorniciare.

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Tornando alla Scala, proprio questa sera il Teatro più importante del pianeta (se lo dice Lissner…) offre la prima del suo nuovissimo allestimento. Che viene annunciato con un francamente inquietante giochetto di parole - Mehta-Fura - che lascia temere interpretazioni metaforiche, quindi di norma strampalate (trattandosi di Wagner e non del Rossini buffo). E pensare che Wagner già nel 1852 aveva sentito il bisogno di scrivere un autentico e dettagliatissimo trattato di messa-in-scena della sua (allora) penultima opera, con considerazioni sui tagli (fatti a Dresda per colpa di cantanti inadeguati) e consigli, anzi ordini in piena regola per Kapellmeister e Regisseur, oltre che per gli interpreti.

Chi, col regista, è ancora più severo dello stesso Wagner è il professor Quirino Principe (autore fra l'altro della pregevole traduzione del libretto, reperibile sul sito del Teatro). Trascrivo testualmente: Un regista che metta in scena Tannhäuser di Wagner deve conoscere la biografia e la poesia di Wolfram von Eschenbach e di Biterolf e di Reinmar von Zweter e di Heinrich der Schreiber, deve saper leggere e capire i testi in «mittelhochdeutsch», percorrere a menadito la storia e la geografia della Turingia, ed avere visitato la Wartburg. Altrimenti, è meglio che cambi mestiere, e si volga a professioni ugualmente onorevoli come il cancelliere di tribunale, l'idraulico, la guardia di finanza, l'impiegato dell'Agenzia delle Entrate.

Ora invece, Padrissa ci confida che lui – anziché nella ridente e linda, ma un po' noiosa Turingia - è andato a cercare ispirazione in India (in omaggio al Kapellmeister) e lì avrebbe trovato Venusberg e Wartburg quasi osmoticamente compenetrati …a Bollywood. La scena finale ci viene così anticipata: le lacrime di Elisabeth formano un lago, in cui Tannhäuser si purifica (e poi ci muore annegato? ndr) e in cui si specchia la luce di Venere, intesa qui non come tenutaria di casini, bensì come luminoso pianeta in cui Padrissa (non Wolfram) ha trasformato la suddetta Elisabeth. Povero Padrissa, come idraulico forse (data la tecnologia da acquari che la Fura impiega in questa occasione) posso anche vedercelo, ma come impiegato dell'Agenzia delle Entrate (?!) Che dio ce la mandi buona, viceversa converrà chiudere gli occhi e sperare almeno in Zubin e nelle voci…