Come già accadde lo scorso anno, Die Walküre ha un po’ risollevato il
livello qualitativo di questo Ring, che di sicuro pochi ricorderanno come…
memorabile.
In particolare è il primo atto ad
aver(mi) pienamente convinto: il trio Botha-Kampe-Petrenko
ne ha dato un’interpretazione degnissima, cui il nuovo (rispetto al 2013) Hunding di Kwangchul Youn ha aggiunto un tocco di serietà fin eccessiva. L’entusiasmante
finale è stata una vera perla, come raramente capita di ascoltare, con la
semiminima conclusiva che Petrenko ha mirabilmente inchiodato nella prima metà della
battuta e non enfaticamente tenuto (nella seconda) come usa fare la maggior parte
dei Kapellmeister. Bravo!
Il direttore russo tiene in
generale tempi rapidi (61–85–64 minuti) ma non ci fa mancare nulla dei dettagli
e dei pregi della partitura. Qualche piccola libertà nell’agogica fa parte (non
da oggi) del… patrimonio dei direttori, grandi e piccoli.
L’ingresso in scena, dal second’atto,
degli altri tre protagonisti (due dei
quali purtroppo dovremo incontrare anche nelle giornate successive) ha poi nettamente
abbassato il livello qualitativo della recita: Wolfgang
Koch
e Catherine Foster (parliamoci chiaro) non dovrebbero cantare nei panni di Wotan e Brünnhilde! Le note le
faranno anche (beh, insomma, la Foster ha abbastanza calato un paio di DO nei
suoi Hojotoho…) ma è proprio la caratteristica fisica della loro voce a fare a pugni con le esigenze minime dei
ruoli. Lui ha fatto varie volte Alberich, che probabilmente gli calza meglio;
lei invece fa Brünnhilde praticamente ovunque e quindi devo essere io a
sbagliarmi (smile!) Quanto a Claudia Mahnke, è anche qui (come nel
Rheingold) una Fricka piuttosto incolore, poi non si riscatta molto travestendosi
da valchiria (Waltraute).
Insomma, suonatori sugli alti standard di Bayreuth e
compagnia di canto male assortita: anche questo pare divenuto uno standard –
negativo – sulla verde collina.
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