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08 ottobre, 2022

laVerdi 22-23. 2

Ancora un programma ultra-tradizionale (nell’impaginazione) per il secondo appuntamento della stagione dell’Orchestra Sinfonica di Milano. Sul podio il 28enne londinese Joel Sandelson, uno dei tanti astri nascenti (ma proprio… in fasce) della direzione d‘orchestra, dopo esser venuto alla luce come cellista.

Ma è l’attualità ad irrompere in scena prima delle note: la Presidente Ambra Redaelli si aggiunge alla schiera di donne illustri nel testimoniare solidarietà per Mahsa, recidendosi pubblicamente una bella ciocca di capelli.

E a proposito di attualità, il brano di apertura, invece della classica Ouverture (o cose simili) è una Sinfonia-con-voce di Nicola Campogrande (testo di Piero Bodrato) che reca un titolo allusivo: Un mondo nuovo. Opera commissionata all’attuale Direttore del MITO dall’Orchestra milanese e da altre istituzioni musicali internazionali. Opera composta di getto nella scorsa estate sotto l’impressione e l’incubo della guerra che ancora (e sempre più minacciosamente, anche per noi) insanguina quel lembo orientale dell’Europa. Questa di Milano è la seconda assoluta, la prima essendo stata data a Roma lo scorso 30 settembre con l’Orchestra di Roma Tre e la stessa interprete vocale, la 43enne di Wùrzburg Theresa Kronthaler.

Strumentazione con i fiati – senza tromboni e tuba - rigorosamente a coppie, poi archi e nutrita batteria di percussioni. Quattro movimenti, come in ogni Sinfonia classica che si rispetti, con l’unica (mahleriana peraltro) eccezione del movimento finale lento e cantato:

Allegro, 4/4 (87 battute). Beh, non pretenderemo di trovarci la classica forma-sonata… però almeno vi compaiono due temi ben riconoscibili, il primo dei quali chiude il movimento.

Adagio espressivo, 4/4 (37 battute). Questo è il tradizionale movimento lento, con flauto e clarinetto che staccano pochi melismi sul tappeto degli archi.

Allegro spiritoso, 3/4 (85 battute, di cui 73 da ripetersi). Nell’800 si sarebbe chiamato Scherzo… in realtà pare più un comodo Ländler.

Adagio cantabile, 4/4 (Canto nel canto, il canto. 114 battute). Non saprei dire se Mahler (oltre alla forma) abbia anche ispirato il testo e la musica: tuttavia la presenza del canto ci ricorda la Cäcilia del Wunderhorn e la sua ottimistica chiusa.

Campogrande resta saldamente ancorato alla tonalità, solo un poco increspata, ecco, e ciò garantisce comprensibilità alla sua musica e calore all’accoglienza del pubblico.
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La parte centrale del programma è occupata da un monumento della civiltà musicale occidentale: il Quinto Concerto per pianoforte di Beethoven, universalmente noto come Imperatore. A proporcelo è il pianista volante Roberto Cominati, che ormai da anni è diventato un abitué dell’Auditorium.

Lui non si vergogna ad inforcare gli occhiali per sbirciare ogni tanto lo spartito che tiene dentro la cassa del pianoforte, l’importante è che ci delizi con la sua tecnica e la sua sensibilità (da incorniciare l’Adagio un poco mosso). Sandelson da parte sua aizza l’orchestra per calcare al massimo i contrasti del dialogo con il solista e così ne esce un’esecuzione davvero da ricordare!

Poi, come bis, Cominati ci propone un breve lamento, quanto mai appropriato per i tempi grami che ci aspettano…
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Per farci dimenticare, almeno per mezz'ora, tutti i mali del mondo, è la Prima Sinfonia di Brahms a chiudere solennemente la serata. Sandelson qui stupisce davvero, per rigore, maturità e chiarezza di interpretazione (non risparmia nemmeno il da-capo nel movimento iniziale): pochi dubbi che ne sentiremo sempre più parlare in futuro. I ragazzi da parte loro hanno dato il massimo, per illustrare al meglio questa serata davvero particolare. 
   

05 febbraio, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 15

Interessante accostamento nel programma del 15° concerto della stagione: é Oleg Caetani a proporci questa settimana due autori assai distanti nel tempo, ma accomunati da una visione, si potrebbe dire, religiosa della musica: Ildebrando Pizzetti e Anton Bruckner. Certo la religiosità di Pizzetti nulla ha a che fare con cattedrali barocche e dediche al buon Dio (copyright Bruckner Nona) trattandosi di interiore e pura spiritualità, ma ciò che arriva al nostro orecchio in entrambi i casi è manifestazione di rigore e integrità morale, tradotti in estetica dei suoni.

I Canti della stagione alta (titolo un poco criptico che l’autore si astenne sempre pudicamente dallo spiegare) è un Concerto per pianoforte e orchestra (composto da Pizzetti nel 1930) che solo epidermicamente si rifà ai modelli classici (tre movimenti chiusi da un Rondo): in realtà il pianoforte non è il solista in opposizione (o comunque in dialogo più o meno serrato) con l’orchestra, ma suona in comunione con essa, guidandone quasi costantemente il flusso sonoro.

La forma poi è assai più vicina al Durchkomponieren (melodia infinita...) che non a quelle classiche: il lungo primo movimento - Mosso e fervente, ma largamente spaziato (notare il fervente...) - si muove attorno alla tonalità di RE minore all’inizio per chiudere sul RE maggiore dopo diverse sognanti e languide peregrinazioni. Il secondo - Adagio - richiama in realtà un’atmosfera vicina a quella del primo, di gradevole cantabilità, muovendo dal SI minore, relativa del RE; svariando quindi nella sezione centrale lungo il circolo delle quinte a SOL e DO maggiore, dove udiamo un’improvvisata fanfara di corni, prima del ritorno a SI minore. Il Rondo conclusivo, formalmente assai eterodosso, ci porta finalmente in una serena e allegra atmosfera bucolica, che si muove ancora dal RE maggiore. Una sezione più dimessa prepara il ritorno dell’allegra scampagnata, che si amplia poi in improvvisate divagazioni. Dopo un ritorno del tema godereccio si arriva alla chiusura in un’inopinata, francamente enfatica oltre che maestosa esaltazione (à-la-Sibelius, per dire).

Ma qui dobbiamo aprire una parentesi, diciamo, piccante, che riguarda non già Pizzetti, ma il sommo (mio conterraneo bresà, ci tengo a dirlo) Arturo Benedetti Michelangeli. Il quale, nel 1943, chiese a Pizzetti di scrivergli una cadenza per il Concerto (che in origine non ne prevedeva alcuna) che il pianista contava di includere nel suo repertorio. Pizzetti la compose al volo, inserendola canonicamente nel movimento iniziale prima della ripresa del primo tema, e la inviò a Michelangeli, che ne fu (a detta dell’Autore) entusiasta, ma che poi non ebbe mai occasione di suonarla, non avendo più suonato per la verità nemmeno il concerto. Orbene, forse non tutti sanno che l’Arturo con-baffetti-da-sparviero (copyright Gianfranco D’Angelo) ebbe una burrascosa relazione con Marisa Borini (oggi ultra-novantenne) pianista e attrice nonchè moglie di un magnate (poi andato fallito) dell’industria dei pneumatici e soprattutto madre (con padre... alieno) della futura première-dame Carla Bruni maritata Sarkozy.

Ebbene, nel 1981 la Borini incise il Concerto di Pizzetti includendovi la cadenza dedicata al baffutello amante (prima di lei eseguita solo da Tito Aprea in tempo di guerra) con l’Orchestra radiofonica bavarese: la si può ascoltare qui a partire da 12’57” fino a 17’08” del primo movimento.  Come si può udire, è una cadenza lunghissima, che viene regolarmente ignorata: solo Ciccolini la eseguì nel 1987 a Napoli (RAI) e poi in questa registrazione francese da 12’39” a 16’43”. Ignorata anche in questa esecuzione storica del brano, suonato da una delle sue prime interpreti, Lya De Barberis sotto la direzione dell’Autore nel 1955 con la RAI di Torino. E dallo stesso Caetani in questa registrazione con la consorte. Invece il felicemente ritornato in Auditorium Roberto Cominati si è pregiato di proporcela!

Come detto, il Concerto è saldamente ancorato alla tonalità e alla melodia pura: e Cominati (che già ha interpretato il brano la scorsa estate a Parma con la Toscanini e che per sicurezza si è tenuto lo spartito sotto gli... occhiali) ha mostrato di essere in perfetta sintonia con l’estetica del compositore. Caetani da parte sua ha tenuto l’orchestra proprio al servizio e al seguito del solista, senza mai (finale escluso, ovviamente) prevaricarne il ruolo.

Caloroso successo che Cominati ripaga con due bis: questo Rachmaninov (figlio e presunto padre...) e questo serioso Händel.
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Del complessato compositore austriaco viene eseguita la Seconda Sinfonia, che qualcuno battezzò come Pausen-Symphonie, per le tante fermate che la caratterizzano.

Come quasi tutte le sorelle, anche questa sinfonia fu ripetutamente sottoposta dall’Autore a revisioni e modifiche al punto che ancor oggi non c’è accordo fra musicologi ed editori-critici su una corretta catalogazione delle versioni, due delle quali (1872 e 1877) sono considerate come principali, ma ciascuna di esse presentando al suo interno ulteriori differenziazioni. La più macroscopica novità che presenta la versione 1877 rispetto alla prima del 1872 sta nella sequenza dei movimenti interni (cosa che capiterà poi alla Sesta di Mahler): in origine veniva prima lo Scherzo, che poi fu retrocesso dopo l’Andante.

Chi voglia inoltrarsi nel ginepraio delle versioni e sotto-versioni e varianti delle sotto-versioni può (ad esempio) affidarsi a William Carragan, che è l’ultimo - per ora - estensore di un’edizione critica dell’opera, arrivando dopo gli storici Robert Haas e Leopold Nowak. Oppure consultare questo minuzioso compendio.  

Bruckner è ancor oggi spesso considerato come palloso e velleitario (Brahms ebbe a liquidare la sua musica come ciarpame) e anche questa sinfonia al primo ascolto lo conferma: di lui in genere si apprezzano spezzoni della Quarta e della Settima, null’altro... Ma a pensarci bene, anche Die Kunst der Fuge di Bach può risultare ostica, cerebrale e in definitiva noiosa... Ovviamente nessuno è obbligato ad accettare, men che meno esaltare, ciò che non riesce a digerire.

In questa Sinfonia c’è proprio la plastica dimostrazione del processo costruttivo (delle sue cattedrali) di Bruckner: le innumerevoli pause che si incontrano sono come i momenti di riposo che un costruttore si prende tra uno stadio e il successivo dell’edificazione. Fino a quando può contemplare il prodotto finito e... rendere grazie a Dio per aver avuto la ventura di portarlo a termine.

Caetani (mi) ha sorpreso optando per la versione originale del 1872 (edizione Carragan, presumo) francamente più immatura (e pedantesca, basta pensare ai da-capo del Trio...) della successiva, dove un po’ tutti i movimenti furono ripuliti e migliorati assai.

In ogni caso tanto di cappello a tutti per aver offerto una prova maiuscola, accolta con grandissimo calore da un pubblico non oceanico ma entusiasta.

01 giugno, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°29

                                           
Il terz’ultimo concerto della stagione principale ci porta in America attraverso un programma incentrato su due dei massimi compositori del ‘900 statunitense: George Gershwin e uno dei suoi più titolati interpreti, Lenny Bernstein. A proporcelo è una premiata coppia di (ancor) giovani ma già collaudatissimi musicisti italici: Jader Bignamini sul podio e Roberto Cominati alla tastiera. Auditorium piacevolmente affollato.

Si apre con il Divertimento for Orchestra, commissionato per celebrare il centenario della Boston Symphony (1980) a Bernstein, che era proprio di casa a Tanglewood, dove sorge il Music Center della BSO. Ora, la sigla BC (Boston Centenary) in musica (anglosassone) sta per SI-DO, e queste due note diventano la sigla dell’opera, suddivisa in 8 brani, infarciti di citazioni più o meno scoperte di musiche famose e/o dello stesso Autore.

I - Sennets & Tuckets sono due termini coniati in Albione ai tempi di Shakespeare, traducendo onomatopeicamente (e maccheronicamente) Sonata e Toccata. Bernstein ci mette ritmi sincopati e grande uso di percussioni e batteria, oltre ad una reminiscenza straussiana (il Till).

II – Waltz dovrebbe essere un walzer, ma è una cosa dall’andamento assai bizzarro, irregolare, anche se delicatissimo. Perché è scritto in 7/8, tempo invero inconsueto (ma anche Ciajkovski nella Patetica aveva usato lo sghembo 5/4).

III – Mazurka, contrariamente a ciò che si può immaginare, è in tempo lento, affidata soprattutto agli strumentini. Vi sentiamo l’oboe suonare un inciso della quinta beethoveniana.

IV – Samba: qui ci siamo proprio, rispetto al titolo, e si scatenano tromba, trombone e caraibiche percussioni, mentre reminiscenze di musical dell’Autore si fanno distintamente riconoscere.

V – Turkey Trot, una divertente parodia del fox-trot, richiama abbastanza scopertamente America da West Side Story.

VI – Sphinxes, sfingi è un breve movimento lento, oscuro, impenetrabile, che rimanda allo schumanniano Carnaval.

VII – Blues prolunga l’atmosfera pensosa del brano precedente, su stilemi chiaramente jazzistici.

VIII – In Memoriam; March “The BSO forever”. Dopo un doveroso omaggio ai padri fondatori della BSO, ecco il panegirico che ricorda parodisticamente... Radetzky, ma sembra anche portarci – con Nino Rota - al circo felliniano!

LaVerdi ha ripreso questo brano dopo più di otto anni (allora con l’apprezzato Marshall) e Bignamini ce lo ha riproposto con immutata verve e totale coinvolgimento.  
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Ora è la volta di Roberto Cominati a cimentarsi con il Concerto in FA di Gershwin. Tenendo prudentemente lo spartito nella cassa del pianoforte (ne girerà le pagine tre volte in tutto) il nostro pianista volante ne dà una lettura asciutta, forse poco appariscente, ma il risultato alla fine è sempre di tutto rispetto, come certificano le ripetute chiamate del pubblico per solista e direttore.
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Dopo la pausa Cominati (sempre con spartito a portata d’occhio) è ancora protagonista con la celebre Rhapsody in Blue, che è dichiaratamente un pot-pourri di motivi sapientemente accostati e variati, dove il jazz la fa da padrone, ma dove (Andantino moderato) emerge anche un cantabile che sarebbe stato bene in bocca a Sinatra.

Strepitosa l’esecuzione di solista e orchestra (forse Bignamini ha esagerato con i decibel, coprendo talvolta il suono della tastiera) che trascina il pubblico all’entusiasmo.
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Entusiasmo che sfocia quasi in delirio dopo l’esecuzione della Suite da Porgy and Bess, predisposta da Robert Russell Bennett. È un brano puramente strumentale, mentre tempo fa avevamo ascoltato l’altra Suite, quella più corposa, che include anche le voci (solisti e coro).

I più celebri motivi dell’opera - dall’iniziale Summertime al conclusivo Oh Lawd, I’m on my way - sono qui sapientemente impacchettati in un mirabile bigino che Bignamini (ha diretto tutto il concerto a memoria!) ha valorizzato al massimo, con sincopati e rubati mozzafiato.

Cosa pretendere di più... visto che nel frattempo a Roma qualcuno si degnava di darci un Governo, per il quale proporrei proprio la rassegnata filosofia dello sfigato Porgy: I got plenty o' nuttin', an' nuttin's plenty fo' me.

09 dicembre, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°37


Ultima apparizione di Zhang Xian sul podio dell’Auditorium in veste di Direttora Musicale de laVERDI (ciò non significa che sparirà per sempre dai Navigli... già nella stagione prossima tornerà per ben 4 concerti!) In programma tutto e solo Beethoven e (quasi) tutti e soli esecutori autarchici, tanto che il concerto sa molto di saggio di fine anno a scuola.

Nicolai Freiherr von Dellingshausen (co-spalla dell’Orchestra, con Santaniello) apre le due parti del concerto esibendosi nelle due Romanze per violino e orchestra: dapprima la più conosciuta (op.50, in FA) e poi con l’op.40 in SOL. Si tratta di lavori chiaramente disimpegnati, ma Beethoven è sempre lui, anche quando si prende qualche attimo di pausa. E il bravo Nicolai si prende i meritati applausi per la sua onorevole prestazione.
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Appunto la spalla storica Luca Santaniello si unisce a Mario Shirai Grigolato (primo violoncello) e al pianista volante Roberto Cominati (che torna qui dopo qualche tempo) per il Concerto triplo. I due agli archi lo avevano già proposto anni fa sempre con Xian e rimando a un post dell’epoca per alcune note sui contenuti del brano.

Se, con una battuta irriverente, dirò che la cosa più interessante è stata vedere Cominati con gli occhiali... non credetemi: un’esecuzione più che dignitosa, se si tiene conto che questo è un pezzo solo apparentemente facile (doveva suonarlo al piano un mezzo principiante, l’Arciduca Rodolfo, allievo del Maestro) ma in realtà ha una struttura e corposità non proprio banali.

Certo, chi ha nelle orecchie esecuzioni come questa magari farà lo schizzinoso, ma io dico bravi a tutti non fosse altro che per averci permesso di godere di questo quasi-capolavoro.
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La chiusura è occupata dalla Quarta sinfonia. Sinfonia pari, quindi sempre sommariamente relegata fra le cenerentole. Così ovviamente non è: l’Introduzione lenta sarà pure un ricordo di Haydn, ma contiene novità mica da poco, con modulazioni enarmoniche che definire ardite (per quei tempi) è ancora poco; il primo tema dovette sembrare un pugno in faccia nell’anno di grazia 1806; il copista meccanicamente scrisse in testa al terzo tempo Menuetto (!) senza accorgersi che non solo è uno Scherzo, ma proprio... da prete (smile!)


Insomma, una signora sinfonia, certo più sulla scia della seconda che della terza, ma sappiamo che anche la seconda non è per nulla una cosuccia trascurable, ecco.

Xian non perde più il vizietto (mica solo suo, s’intende) di cassare brutalmente ogni da-capo, con ciò rendendo a mio modestissimo avviso un cattivo servizio alla Sinfonia. I ragazzi però compensano con una prestazione che questa volta non ha alcuna pecca e si merita prolungate acclamazioni.

21 novembre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 10


Il flamboyant Wayne Marshall (uno dei tre Direttori Principali Ospiti) esordisce nella stagione con un bel pieno-di-RavelPieno e anche… piano, visti i due concerti offerti dal palinsesto e proposti da uno degli aficionados dell’Auditorium, Roberto Cominati.    

Anche il pezzo di apertura avrebbe in realtà a che fare con la tastiera: infatti è Alborada del gracioso (serenata mattutina del giullare) quarto dei 5 Specchi per pianoforte composti nel 1905. Noi però ascoltiamo la versione orchestrale che l’Autore produsse 13 anni più tardi. La maestria di Ravel in fatto di orchestrazione rifulge qui più che mai, basti pensare alla suddivisione degli archi, per i quali nella sezione centrale (Plus lent) del brano sono previste ben 24 parti (6-6-5-4-3)!

Questa di Ravel è una Spagna immaginaria perché… immaginata (forse dai racconti della madre) ma non per questo meno suggestiva ed accattivante. L’intera orchestra sembra impiegata come fosse un’unica, gigantesca chitarra, che accompagna danze sfrenate o languidi canti. Insomma, un breve ma straordinario affresco musicale, che l’orchestra ci porge nel migliore dei modi.
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Dal Ravel giovane passiamo direttamente a quello maturo, anzi ormai prossimo all’inesorabile decadenza, legata probabilmente all’incidente d’auto del 1932: sono i due concerti per pianoforte. Arriva quindi il… pilota di jet Cominati per cimentarsi dapprima con il Concerto in RE, quello amputato della mano destra, richiesto a Ravel dallo (e quindi dedicato allo) sfortunato quanto ricco pianista Paul Wittgenstein, tornato dal fronte ukraino della Grande Guerra (e dalla conseguente prigionia in Siberia) con il solo braccio sinistro…

Ravel ha cercato in tutti i modi di dissimulare la presenza di una sola mano, con una scrittura che – impegnando il solista al massimo – dà l’impressione che il suono provenga da tasti percossi da entrambi gli arti! Il Concerto è in un solo movimento, anche se vi si distinguono alcune sezioni in agogica cangiante: dapprima c’è un rigido alternarsi fra strumenti e solista (introduzione in Lento degli strumenti gravi) poi il pianoforte solo con una prima cadenza, quindi ancora la sola orchestra e poi il solista in tempo Più lento. Ora abbiamo il dialogo (Andante) che sfocia nell’Allegro (6/8) di piglio marziale e sapore jazzistico, un lungo passaggio con interventi improvvisi del solista e di strumenti diversi. Dopo una grande accelerazione, dove si sentono quasi degli accenti del Bolero, torna il tempo lento iniziale, orchestra e solista dialogano accanitamente, finchè si arriva alla virtuosistica cadenza conclusiva, chiusa infine da 5 battute di crome martellanti dell’intera orchestra.

Possiamo ascoltare il dedicatario in brani (fra cui la cadenza) del concerto in questa esecuzione a Parigi, 1933.

Cominati ha fatto del suo meglio per farci digerire questo pezzo che è francamente ostico, oltre che per l’interprete, anche per l’ascoltatore: non è un caso che fra autore e dedicatario fossero insorte, ai tempi, divergenze e persino liti sui contenuti estetici dell’opera.
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Ancora Cominati nel celebre Concerto in SOL, da lui già eseguito e con grande successo qui in Auditorium più di 3 anni fa. Questo lavoro è praticamente contemporaneo dell’altro, ma ha una struttura assai più tradizionale, quindi più abbordabile, oltre a risentire ancor più dell’influsso americano (Ravel aveva viaggiato in USA) e così jazz e blues vi hanno una parte fondamentale (evidentissima già all’attacco del tema del clarinetto, che pare proprio Gershwin!)

Il lungo centrale Adagio assai è noto per aver impegnato Ravel fino alla consunzione fisica (parole sue). In esso compare, fra gli altri e verso la fine, un bellissimo intervento del corno inglese, ieri suonato dalla bravissima Paola Scotti.

Il breve Presto conclusivo è una palestra di virtuosismo, e non solo per il pianista. Ad esempio i due fagotti sono chiamati, nella sezione centrale, ad autentiche acrobazie, con inebrianti volate di semicrome, e lo stesso avviene verso la fine per tutti gli strumentini.

Cominati non si smentisce e ci offre ancora un’interpretazione davvero trascinante, accolta con grande calore.
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Tornando indietro negli anni (nella vita di Ravel, s’intende) ecco per finire la seconda suite di Daphnis&Chloé, che include tre brani (Alba, Pantomima e Danza generale) della seconda parte del balletto e dura poco più di 15 minuti, circa un quarto dell’intero balletto. La partitura prevederebbe anche la presenza del coro, che qui (come quasi sempre) non viene scomodato, anche perchè Ravel stesso ha pensato a come rimpiazzarlo con parti dell'orchestra.

All’apertura, flauti e poi clarinetti sono impegnati in incredibili virtuosismi (biscrome ondeggianti) sui quali ottavino e flauto paiono uccellini che cinguettano al sorgere del sole, sottolineato dall’esplosione di tutta l’orchestra, mentre Daphnis ancora dorme. Arriva poi a svegliarla il pastore con il suo gregge (accompagnato dal clarinetto). Quindi la Pantomime inizia con il flauto che suona il richiamo di Daphnis, fino al'abbraccio fra i due innamorati e al giuramento, che apre la travolgente Danza generale, in LA, dove si alternano il tempo zoppo di 5/4 (3+2) e quello ternario, fino alla conclusiva apoteosi in 2/4.


Marshall e soprattutto i ragazzi non si sono risparmiati,  meritandosi così l’applauso del loro pubblico, che peraltro non era proprio oceanico: chissà, forse parecchi frequentatori abituali dell’Auditorium hanno storto il naso di fronte ad un menu troppo a senso unico, un po’ come una cena a base di solo… camembert (smile!)

23 maggio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°35

 

Un ragazzino uzbeko, il 26enne Aziz Shokhakimov, sale sul podio de laVerdi (per la seconda volta dopo circa due anni… e la prima non fu proprio un trionfo, diciamolo) per dirigervi un programma che al Beethoven dell’integrale dei concerti pianistici affianca il Prokofiev teatrale. Un palinsesto simile a quello di un concerto della stagione di quattro anni orsono, salvo che allora l’ultima opera in programma fu la ben più corposa seconda di Rachmaninov.

In un Auditorium insolitamente e deplorevolmente disertato da molti (complice forse il maltempo abbattutosi nel pomeriggio su Milano) il protagonista della prima parte è il nostro bravissimo Roberto Cominati (un aficionado ormai di Largo Mahler) impegnato in quello che è forse il più difficile concerto del grande Ludwig, il Quarto.

Lui lo suona divinamente e fa passare in secondo piano alcune iniziali gratuite gigionerie dell’orso uzbeko, che peraltro rinsavisce presto e lo accompagna più che decentemente. Esemplare la cadenza del movimento iniziale (la prima delle due autografe di Beethoven) come la profondità dell’Andante con moto
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Dopo l’intervallo ecco due lavori di Prokofiev legati in qualche modo al teatro. Dapprima la Suite da L’amore delle tre melarance, riproposta, come detto, a distanza di 4 anni (allora diretta dalla Xian). I sei brani riassumono in poco più di un quarto d’ora i contenuti piuttosto surreali dell’opera di cui il terzo (Marcia) è divenuto la vera e propria etichetta, oltre che il leit-motive principale.

L’orso Aziz si mette addirittura a ballare sul podio, creando uno spettacolo nello spettacolo e facendo divertire prima di tutto i ragazzi; che però non si distraggono più di tanto e suonano in modo impeccabile.
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L’orchestra si irrobustisce ulteriormente per la Suite scita, nata da un tempestivo ripiego di Prokofiev che, sfiduciato dal padrino Djaghilev che gli aveva rifiutato, dopo avergliela commissionata, la musica per un balletto dal titolo Ala&Lolly, la trasformò in un pezzo da concerto che ha avuto indubbiamente una certa fortuna, quanto meno all’ombra dello stravinski-ano Sacre.

Il soggetto del (poi abortito) balletto fu scritto da Sergei Gorodetsky, che si basò su storia (o miti) degli Sciti di alcuni secoli avanti-cristo (Prokofiev invece immaginava la vicenda in pieno medio-evo…) che scimmiottano vagamente l’Uccello di fuoco e – sul piano musicale – appunto Le sacre, balletti che Stravinski aveva composto pochissimi anni o mesi prima.

Anche qui abbiamo riti pagani più o meno plausibili, dove si onorano dèi e congiunti (Veles, il sole, e la figlia Ala, una specie di Diana); dove un diavolaccio cattivo (Chuzbog) in combutta con sette spiriti-serpenti poco raccomandabili cerca di far sua la deessa, difesa però da ninfe che incarnano i raggi lunari; e dove un nerboruto mortale (Lolly, ma di che s’impiccia costui?) interviene per salvare la deessa di cui è innamorato e viene a sua volta salvato dall’onnipotente Veles che neutralizza il cattivone Chuzbog; meritandosi comunque un’uscita in gloria accompagnato dal corteggio solare (!?) Come si vede, le analogie con il Firebird sono molteplici, a cominciare dai personaggi: Lolly-Ivan, Chuzbog-Kastchey, Veles-Uccello, Ala-Principessa.   

Lo scenario del balletto doveva essere piuttosto diverso da quello della futura Suite: era in 5 e non 4 quadri e prevedeva la morte di Lolly (là una specie di Orfeo, cantante-poeta) per mano di Chuzbog e poi un finale piuttosto strampalato (Veles che trasforma Lolly in divinità bruciandolo su una pira, e Ala che si butta nel fuoco dietro di lui, e così… perde la divinità!)

La Suite, che richiede un’orchestra ipertrofica, proprio tardo-romantica, con fiati e percussioni in gran numero, consta appunto di quattro parti, il cui contenuto è in qualche modo (e con difficoltà, come detto) deducibile dallo scenario del balletto:

1. Adorazione di Veles e Ala. È suddivisa in due sezioni: la prima, in omaggio al dio, assai pesante (non per nulla l’indicazione agogica è Allegro feroce) caratterizzata da un ossessivo ritmo marziale che invade l’intera orchestra (e curiosamente richiama proprio il motivo dell’ultimo brano delle Melarance); la seconda più contemplativa (Poco più lento) in omaggio alle caratteristiche boschive, ergo romantiche, di Ala, dove si odono cinguettii di uccelli e stormir di fronde, tuttavia in un’atmosfera che non è propriamente idilliaca (qualcosa o qualcuno incombe…)

2. Chuzbog e la danza degli spiriti. Ecco infatti irrompere l’elemento negativo: sarà pure del male, ma pur sempre un dio sembra, questo Chuzbog, almeno a giudicare dalla musica che Prokofiev gli appiccica! Apre con una terrificante esplosione di timpani e grancassa, poi corni e tromboni imperversano su un ritmo marziale insistito, che però – rispetto a quello di Veles - ha un andamento irregolare, come si addice a presenze inquietanti e… serpentine: da 4/4 a 3/4, a 2/4, per finire ancora in 4: insomma, una cosa abbastanza infernale.

3. Notte. Ottavino, arpe, pianoforte e poi celesta introducono un’atmosfera liquida, come di gocce di rugiada che condensano sopra erba e fogliame. Ma non è, ancora una volta, uno scenario del tutto sereno e rassicurante: qualcosa sembra muoversi nell’oscurità, e infatti emerge sommessamente, dalle ondeggianti semicrome degli archi, una specie di sinistra Waldweben a far da sfondo a cupi interventi degli ottoni: che sia il cattivone Chuzbog con i suoi sette sbifidi serpenti che si aggira fra le frasche per insidiare Ala, la protettrice di quei luoghi? Il pericolo sembra svanire presto, con l’arpa che glissando introduce una dolce melodia dei legni: il testo di Gorodetsky fa scendere ninfe sotto forma di raggi lunari che neutralizzano Chuzbog, allergico alla luce. Ma l’atmosfera sembra nuovamente surriscaldarsi (passaggio da 4/4 a 6/4) come se Chuzbog ci stesse riprovando (nel balletto dovevano esserci ben tre suoi assalti ad Ala). Ma i raggi lunari riportano la calma apparente e sono ancora i tocchi dell’ottavino e del glockenspiel a chiudere, con un finale glissando della prima arpa, il movimento. 

4. Marcia di Lolly e corteo del Sole. L’apertura è in tempo Tempestoso, una marcia assillante, che vorrebbe rappresentare l’arrivo trafelato di Lolly in soccorso di Ala, ancora minacciata da Chuzbog. Forse è lei che intravediamo al mutare di tempo in Un poco sostenuto, prima di arrivare ad un Allegro che evoca la preparazione di Chuzbog alla lotta contro Lolly, che sembrerebbe purtroppo soccombere. Ma ecco (Andante sostenuto) il ritorno dei raggi di Veles che neutralizzano definitivamente Chuzbog e accompagnano il trionfo di Lolly.

Certo, non sarà ancora il Prokofiev del fantastico Romeo… ma insomma la stoffa già si sente e come!

Anche qui Aziz ha modo di ancheggiare e sculettare… però senza fare troppi danni, anzi. Così i fedelissimi dell’Auditorium gratificano anche lui, oltre i ragazzi, con convinti applausi.

04 febbraio, 2014

La Russia in Auditorium


Un’Orchestra quasi coetanea (nata 3 anni prima) de laVerdi è stata ieri ospite in Auditorium: si tratta della Russian National Orchestra, diretta dal suo fondatore, Mikhail Pletnev.

Il concerto si collocava nel programma delle iniziative culturali italo-russe legate all’Anno del Turismo 2013-2014 e per l’occasione il proscenio era addobbato con i due tricolori realizzati da splendide composizioni floreali. Dopo i dovuti pistolotti del padrone di casa Cervetti e dei suoi due ospiti dei ministeri della cultura italiano e russo, ecco la musica, con due celeberrimi lavori di Rachmaninov e Ciajkovski: insomma, tutta Russia, ma con un importante ingrediente italico, il sempre più convincente Roberto Cominati.

Ed è stato il pianista nostrano ad aprire il programma con il più eseguito ed inflazionato dei Concerti di Rachmaninov, il Secondo. Era il suo primo incontro con questa orchestra, ma il nostro non sembrava affatto preoccupato della novità, come si evince da questa sua presentazione. Ed in effetti tutto è (mi pare proprio) filato liscio: Cominati ha sfoggiato la sua grande sicurezza e sensibilità, in questa partitura che comporta facili rischi di scivolate sul miele o sulla marmellata; e l’Orchestra, che Pletnev ha guidato con gesto scarno ed essenziale, lo ha supportato nel migliore dei modi.

Ne è uscita un’esecuzione trascinante e lungamente applaudita dal foltissimo pubblico, cui non è seguito alcun bis, per dovere – credo proprio – di ospitalità.   

Dopo l’intervallo, ecco la travolgente Quinta ciajkovskiana. Pletnev - sempre compostissimo e quasi flemmatico - e i suoi ragazzi (disposti alla alto-tedesca, violini secondi al proscenio e bassi al centro-sinistra) devono conoscerla non a memoria, ma proprio a… cromosomi, così ne cavano tutte le preziosità nascoste. Da incorniciare l’Andante cantabile, con alcuna licenza, dove il corno del biondino Alexey Serov si guadagna una lode. Sempre emozionanti le irruzioni del protervo tema del destino e davvero enorme la chiusa, con le quattro semiminime scandite quasi a seppellire tutte le disgrazie sotto una pesante lapide!       

Meritato trionfo finale, che chiama il bis, adesso invero dovuto, con un irresistibile Trepak!
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Qui un saggio su Ciajkovski di Aldo Nicastro, pubblicato nel febbraio 1988 su Musica&Dossier.

08 giugno, 2012

Orchestraverdi – concerto n°36


Corposo il programma del terz’ultimo concerto della stagione de laVerdi, in un Auditorium non proprio affollatissimo. E dal palinsesto ultra-classico: Ouverture, Concerto solista e Sinfonia; e tutto nel segno dell’ottocento, classico e romantico.

Difficile pensare a qualcosa di più romantico, nel senso proprio del termine, del weberiano Freischütz, la cui Ouverture apre la serata.
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È una mirabile sintesi del cuore filosofico dell’opera, la lotta fra il bene e il male, che abitano l’animo umano nello scenario della natura, a sua volta splendente o minacciosa.

È la melodia dei corni, da battuta 10, a introdurre lo scenario profondamente romantico di boschi e montagne:


Poi ascoltiamo un riferimento all’aria di Max, dalla quarta scena del primo atto (Doch mich umgarnen finstre Mächte), un motivo agitato, poiché Max sta subendo l’influsso sinistro di Samiel. È immediatamente seguita dal terrificante motivo del malefico Caspar, che si udrà nella gola del lupo, alla fine del second’atto:

   
Su un tremolo degli archi, adesso è il clarinetto che presenta un dolce motivo, in MIb, che deriva dall’esclamazione di Max di fronte alla gola del lupo, alla fine del second’atto (Ha! Furchtbar gähnt der düstre Abgrund!) ma qui introduce il tema che rappresenta il bene, impersonato da Agathe, e la sua aria dalla seconda scena del second’atto (Süß entzükt gegen ihm) che lei canta all’arrivo dell’amato Max:



Tornano il truce motivo di Caspar, poi ricompare Agathe, ma in un’atmosfera sospesa e poco rassicurante, che infatti lascia spazio ancora ai motivi di Max e Caspar, prima della coda finale, che è ovviamente occupata dal motivo di Agathe, a chiudere nel glorioso DO maggiore.
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Trascinante l’esecuzione di Xian dell’Orchestra, a dispetto del non impeccabile esordio dei corni.


Il bravissimo Roberto Cominati (che ha recentemente inciso l’integrale pianistico di Ravel!) torna all’Auditorium, dove è quasi di casa, per proporci un autentico monumento della classicità su tastiera: il Quarto di Beethoven.

Di cui dà una lettura, appunto, classica, senza sconfinare il romanticherie fuori-luogo. Qualche piccola sbavatura nell’iniziale Allegro moderato nulla toglie al valore della sua esecuzione, ben sostenuta da Xian, che toglie le briglie all’orchestra giusto nei momenti più caldi del finale Rondo. Rimarchevole la resa delle atmosfere quasi impressioniste dell’Andante con moto.

Gran trionfo per Cominati, che ci regala un focoso bis con DeFalla.


In chiusura, un classico dell’epoca romantica, Johannes Brahms, con la sua Quarta.
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Il cui tema principale (con cui la sinfonia si apre) è abilmente costruito manipolando due semplicissime serie di terze (maggiori e minori). La prima discendente per due ottave dalla dominante: SI-SOL-MI-DO-LA-FA#-RE#-SI, in cui Brahms inserisce due rivolti, MI-DO e RE#-SI, ottenendo una melodia, per così dire, a dente-di-sega (diagonale-verticale-diagonale-verticale) che torna al SI di partenza. La seconda ascendente: MI-SOL-SI-RE-FA-LA-DO, in cui il MI e il RE sono raddoppiati e rivoltati un’ottava sotto, ottenendo un altro dente-di-sega (verticale-diagonale-verticale-diagonale):

Insomma, un esempio di come una melodia che suona come ispirata si possa ottenere con semplici interventi su una serie di suoni banalotta e di per sé abbastanza priva di attrattive.  

Poi viene l’Andante moderato, che si articola su due motivi; il primo è quello piuttosto crepuscolare, esposto inizialmente dai corni, col supporto degli strumentini:


Il secondo, più avanti, affidato inizialmente ai violoncelli, davvero brahmsiano fino all’osso:

Il terzo movimento, Allegro giocoso, è di fatto uno scherzo senza trio. In questo, che fu l’ultimo movimento di sinfonia composto da Brahms, entra anche – per la prima e ultima volta in tutta la sua produzione sinfonica - il triangolo.

L’incipit della ciaccona che chiude la sinfonia (e che Brahms aveva già fatto balenare verso la fine dell’Allegro giocoso) è ispirato da quello che conclude la bachiana Cantata Nach dir Herr verlanget mich (BWV150) e precisamente da quello del basso (fagotto e continuo):


Dalla melodia principale (Meine Tage in den Leiden) Brahms prende spunto per lo sviluppo delle innumerevoli variazioni di cui è ricco questo ultimo movimento. In una delle quali, prima del conclusivo Più allegro, ricompare ciclicamente la prima sezione (ampliata) del tema che aveva aperto l’opera, con una sequenza di terze discendenti, che qui ha la seguente struttura: MI-DO-LA-FA#-RE#-SI-SOL-MI-DO-LA-FA#-RE#... con il dente della sega ottenuto rivoltando il SOL e innalzandolo di un’altra ottava:

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Esecuzione che mi permetto di definire straordinaria. Xian tiene tempi praticamente perfetti; nell’iniziale Allegro chiede agli archi l’attacco delle frasi quasi con timidezza, impercettibilmente ritardati; e gli strumentini da parte loro fanno mirabilie. Nell’Andante corni e violoncelli meritano la lode. Splendida la compattezza di tutte le sezioni nell’Allegro giocoso e grandiosa la perorazione della conclusiva passacaglia. Davvero una prova maiuscola, che si merita ovazioni a non finire.


Il penultimo appuntamento (ma dal punto di vista concertistico sarà l’ultimo, poi… Chénier!) vedrà ancora sul podio Zhang Xian con una full-immersion di Ciajkovski.