XIV

da prevosto a leone
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01 novembre, 2013

Noseda inciampa in Aida alla Scala

 

Ieri sera, in un Piermarini per nulla preso d’assalto, terza delle nove recite di questa ripresa dell’Aida  di Zeffirelli del 2006.

 

Sul podio il milanese Gianandrea Noseda, che dopo aver inaugurato la stagione 13-14 del suo Regio sta chiudendo quella 12-13 della Scala. Un testa-coda che ieri si è materializzato proprio come in pista: una salva di vergogna alla fine del second’atto, buh al rientro per il terzo e altri pesanti buh alla singola finale. Insomma, per lui un autentico calvario… Meritato? Mah, di certo il mio concittadino sestese non ha prodotto una delle sue prestazioni migliori: dopo un avvio promettente con gli archi del preludio, si è fatto prendere la mano da una specie di fregola, che lo ha portato a staccare quasi sempre tempi eccessivamente concitati e a produrre fracassi francamente insopportabili. E proprio la scena del trionfo ne è stata testimone, con le conseguenze descritte. Ma anche in seguito le cose non sono poi migliorate molto. Insomma, una serata storta, ecco.


La compagnia di canto è stata evidentemente riparata dal parafulmine Noseda, ricevendo complessivamente solo applausi: in realtà qualcuno avrebbe meritato le sue belle disapprovazioni. A cominciare da Nadia Krasteva, un’Amneris quasi inesistente: voce scarsa, spesso inudibile e male impostata. Poi Ambrogio Maestri, che ha sfoderato il suo vocione, ma usandolo più per vociferare che per cantare Amonasro (smile!)

In un’onesta sufficienza, ma nulla più, i due bassi Alexander Tsymbalyuk e Marco Spotti, che han fatto dignitosamente la loro parte di Re e Gran Sacerdote.

Per fortuna note (abbastanza o molto) positive dai due protagonisti: Marco Berti conferma le sue grandi doti naturali e se riuscisse a sfoderare un filino di espressione in più potrebbe anche essere un Radames di altissimo livello. Grande l’Aida di Hui He, vera trionfatrice della serata, cui è difficile trovare pecche interpretative.  

I due comprimari erano altri asiatici (Jaeheui Kwon, messaggero e Sae Kyung Rim, sacerdotessa) che hanno assolto onestamente i rispettivi compiti.

Efficace il coro di Casoni e abbastanza in palla l’orchestra, che però Noseda ha guidato come detto più sopra, e come se sul palco non ci fosse nessuno da far ascoltare.

L’allestimento è ultra-conosciuto e poco c’era da scoprirvi: tutto sommato è proprio come uno si immagina l’Aida, coreografie (di Vladimir Vasiliev) incluse; anzi chi è stato all’Arena forse si aspetterebbe qualche… bestia in più (smile!)  

25 maggio, 2011

Cio-cio-san (per i piccoli) al Carlo Felice



Tema: Scrivete le vostre impressioni sullo spettacolo cui avete assistito ieri pomeriggio al Teatro di Genova.

Svolgimento (scolaro di 1a media):

Ero molto curioso di entrare nel teatro, perché finora ero solo andato al cinema colla mamma, oppure allo stadio col papà. Mi è piaciuto abbastanza, le poltrone sono comode, meglio di quelle di Marassi, però meno che al cinema. Purtroppo bisogna stare fermi e zitti e non si può mangiare pop-corn o patatine fritte.

All'inizio del primo tempo si è visto un giapponese vestito da donna che faceva vedere una casa vuota ad un tizio in divisa bianca, che poi si è messo a cantare sulla musica che si sente quando un americano vince la medaglia d'oro alle olimpiadi.

Poi è arrivata un sacco di gente per una specie di festa, che ho scoperto dalle scritte sul tabellone che era un matrimonio fra il tizio in divisa e una giapponesina che ha detto di avere solo 15 anni (ma a me sembrava più vecchia della mia professoressa). A me sembra anche una bella abitudine questa di sposarsi direttamente in casa, senza tutte quelle noiose cerimonie in chiesa.

Ad un certo punto della festa sono arrivati alcuni tizi vestiti di arancione e con le teste rapate, che hanno cominciato a fare un gran casino. A me il mio papà mi ha sempre detto che gli arancioni sono gente buona e non-violenta, ma forse questi erano degli infiltrati.

Quando il tizio in divisa bianca è restato solo con la giapponesina e si sono baciati c'è stato un gran casino, tutti a gridare come quando al cinema Richard Ghier si fa una bella gnocca. Ma l'orchestra ha continuato a suonare ancora per un bel po', fino alla fine del primo tempo, quando abbiamo potuto finalmente uscire per bere una coca.

Il secondo tempo è stato molto più noioso, con la giapponesina che consolava la sua schiava, e poi ha cantato una canzone che canta ogni tanto anche la mia mamma quando fa il bagno. Però a casa nostra nessuno le fa tutti quegli applausi.

Poi è arrivato un altro tizio seduto su una sedia portata da 4 schiavi, come il Papa che ho visto una volta alla televisione. Ma la giapponesina lo ha cacciato via perché voleva aspettare il tizio in divisa. A questo punto la gente ha applaudito (forse lo fanno sempre quando l'orchestra fa un gran casino) e così noi ci siamo alzati per tornare fuori ancora a bere qualcosa, ma il maestro ha ripreso subito a suonare e abbiamo dovuto stare di nuovo fermi e zitti per più di mezz'ora.

Il tizio in divisa è tornato davvero, stavolta però era vestito di nero ed era insieme a una tipa come la Canalis ma bionda, tutta il contrario della giapponesina. Però il tizio è scappato via per la vergogna, e così la giapponesina si è uccisa col coltello e ha lasciato il bambino da solo a giocare con una bandierina. Ma tutti abbiamo applaudito lo stesso.

Penso che chiederò alla mamma di portarmi ancora a vedere un'opera, però dove alla fine ci sia una lotta con sciabole spaziali, o almeno una bella sparatoria.


Ecco, speriamo proprio che questo non sia il livello medio delle reazioni degli scolaretti (di elementari e medie) che ieri pomeriggio hanno preso d'assalto, a centinaia e centinaia, il Carlo Felice, per questo specialissimo saggio di fine anno che era la quarta rappresentazione della Butterfly.

A parte le battute, non c'è che da lodare questa iniziativa di avvicinare i giovanissimi alla musica e all'opera, iniziativa che fa il paio con quella triestina, opportunamente segnalataci da Amfortas. E che va ovviamente integrata con altre, affinchè non cada nel vuoto, riducendosi ad un'allegra scampagnata fuori programma.

Che il teatro genovese sia risorto dalle ceneri è un dato di fatto, anche se all'orizzonte non mancano grossi e minacciosi nuvoloni… Tuttavia, dopo il successo di Pagliacci, anche questa Butterfly sta riscuotendo unanimi consensi e ciò lascia almeno aperta la speranza in un ritorno, diciamo così, alla normalità (quella sana però, mica quella delle ruberie e degli approfittatori).

Nel complesso una dignitosissima performance, di tutto il cast, su cui è spiccata Hui He, che ha confermato di essere un'ottima cantante, ma anche una sopraffina attrice. Max Pisapia al ballottaggio (smile!) con Mario Bolognesi; Elena Cassian e George Petean eletti direttamente. Tutti gli altri (vedi locandina) e il coro di Marletta all'altezza dei compiti.

Ranzani ha tenuto bene in pugno lo spettacolo, calamitando continuamente su di sé lo sguardo degli interpreti (cosa… interpretabile in vario modo); è comunque stato sempre attento a non coprirli, evitando pesantezze e limitando i fracassi al minimo consentito. Lodevole la decisione – forse non gradita al giovane pubblico - di non interrompere fra la prima e la seconda parte del secondo atto.

La regia, ripresa dal Montresor del '95 da Ignacio Garcia è di quelle che dimostrano come il miglior modo per far giustizia all'originale sia di… presentare l'originale, e non sue cervellotiche interpretazioni, che spesso degenerano in stravolgimenti. Ecco, ieri di dissacrante – ma qual ventata di aria fresca! – c'era solo la presenza dei ragazzini in platea.

Tirando le somme, un pomeriggio più che piacevole.
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09 maggio, 2011

L’Aida cinese del Maggio

 


Quarta rappresentazione, ieri pomeriggio al Comunale di Firenze, dell'Aida, che il 28 scorso aveva inaugurato la stagione estiva del Maggio.

Già diffusa in audio (alla prima) e in video (alla seconda) è stata accolta da reazioni mixed, come si usa dire: fra entusiastiche (campanilistiche?) ovazioni in loco e tiepidi, quando non freddi, commenti altrove.

Come giustamente ammonisce Amfortas, "Aida è… un lavoro intimista e lirico, poetico, che contempla anche un'esteriorità spettacolare che però non deve mai essere fine a se stessa." Il difficile è, naturalmente, trovare la quadra (ma qui credo che Bossi – visto lo scempio che fa abitualmente del và, pensiero - non ci possa proprio aiutare, smile!) Insomma, come riuscire a far emergere i sentimenti e i drammi personali dei protagonisti senza contemporaneamente castrare quelle qualità spettacolari che sono a loro volta profuse a piene mani nel libretto e soprattutto nella musica?

Personalmente sono convinto che poche opere richiedano, come Aida, un'assoluta intesa – prima di tutto programmatica, e poi esecutiva, naturalmente – fra regista, direttore e cantanti. E già fin dalla prima scena, perché lì vengono presentate sia la mortale triangolazione affettiva Radamès-Aida-Amneris, che le due insopportabili contraddizioni che dilaniano le menti e i cuori dei due protagonisti. A cominciare da Radamès, la cui romanza d'esordio non è una pura e semplice dichiarazione d'amore (donna non vidi mai… con tutto il rispetto per Puccini) per Aida, ma descrive la tremenda dissociazione – ancora inconsapevole - dell'animo dell'uomo che per acquisire meriti presso l'amata è portato a desiderare imprese guerresche che all'amata recheranno soltanto lutti e dolore. E non per nulla i cieli e le brezze che Radamès – o forse il suo subconscio - si ripromette di procurare ad Aida stanno lassù, vicino al sol (cantato morendo, almeno secondo Verdi) e non certo su questa terra. E Aida è a sua volta dilaniata da opposti sentimenti: l'amore per lo straniero e l'ancestrale richiamo del sangue e della patria. Insomma, il dramma che si profilerà alla fine del secondo atto e si materializzerà nel terzo e quarto è già tutto presente qui, in questo esordio apparentemente tradizionale e routinario. In questa Aida le cose per la verità non cominciano troppo bene, con Berti che sale sicuro e potente al SIb del sol, ma lo chiude in modo stentoreo e forte, senza la più piccola espressione. Meglio di lui fanno la He e la D'Intino, meno male.

Il finale secondo poi è la quintessenza del dualismo fra spettacolarità e dramma dei sentimenti: perché il fracasso e l'apparente tripudio del concertato generale nascondono invece mille stati d'animo. Precisamente sette: intanto quelli dei tre cori (sacerdoti con Ramfis, popolo col Re, prigionieri e schiavi) che manifestano sentimenti diversi: preoccupazione per le sorti dell'Egitto, giubilo per la vittoria, e rispetto per la magnanimità del nemico che ha restituito la libertà. E poi quelli dei quattro protagonisti, a partire da Amonasro che già medita la sua vendetta; e dei tre personaggi principali, ciascuno dei quali vive quel momento in modi del tutto diversi: Aida letteralmente disperata, Amneris al settimo cielo e Radamès che si rende conto del vicolo cieco in cui si è cacciato. Qui non abbiamo un Rossini buffo, dove il concertato è tipicamente un puro quanto mirabile esercizio vocale… e certo non è semplice per nessuno – regista, direttore, interpreti - far emergere in modo efficace tutte queste specificità, ma il peggio che si possa fare – e troppo spesso si fa - è presentare un'ammucchiata di gente indistinta e un minestrone di voci che si confondono in un gigantesco quanto incomprensibile grammelot (lascio immaginare cosa si può capire da ciò che mostrano ad un ascoltatore poco preparato le due righe del display!) In questa Aida per lo meno vediamo i tre cori (col Re e Ramfis) chiaramente distinguibili dai costumi che indossano e dalla posizione separata in scena, anche se poi son tutti lì impalati e cantano privi di espressione, o meglio, con la stessa espressione; quanto ai quattro protagonisti, la faccia di Amneris sembra ancor più da funerale di quella di Aida! Insomma, qui qualcosa di meglio magari si poteva pretendere (ecco, questa mi parrebbe una efficace soluzione, MIb acuto compreso, smile!)

A proposito di regìa e allestimento, l'impostazione del tutto tradizionale di Ozpetek potrà anche sembrare poco stimolante, ma personalmente certi stimoli – tipo ambientazione in un collegio, con Aida nel ruolo di sguattera – li regalo volentieri agli amanti delle novità. La scenografia di Ferretti è – a confronto di Zeffirelli – assai sobria e però sufficientemente appropriata; ben dosate, in tutte le scene, le luci di Calvesi (che nel finale ha la meticolosità di presentarci il sole che tramonta lentamente); più o meno appropriati i costumi di Lai e abbastanza convenzionali (quindi probabilmente ridicole agli occhi degli scafati) le coreografie di Ventriglia.

Il fronte musicale ha visto – nel gran trionfo generale di un Comunale stipato all'inverosimile – l'indiscussa preminenza dell'Aida di Hui He, voce penetrante, dal timbro scuro, ma caldo e capace di emozionanti acuti in pianissimo. Cosa ignota, quest'ultima, a Marco Berti, che pure mi è parso un Radamès più in palla del suo recente Calaf scaligero. Luciana D'Intino pare ormai dare tutto – e bene – sugli acuti, mentre la sua Amneris poco si fa udire dal centro in giù. Ambrogio Maestri ha sfoderato il suo vocione, ma la cattiveria di Amonasro dovrebbe – credo io, almeno - manifestarsi con mezzi diversi dallo schiamazzo; e poi, accidenti, più cerca di incarognire la sua espressione del viso, e più ti aspetti che se ne esca con un Udite, udite, o rustici (…smile!) Tagliavini e Prestia han fatto più che dignitosamente la loro parte di Re e Gran Sacerdote, con qualche problema a non farsi coprire nelle scene dove cantano assieme al pregevole coro di Piero Monti. Saverio Fiore e Caterina Di Tonno hanno degnamente completato il cast. Quanto a Zubin Mehta, ha diretto con la sicurezza e l'aplomb di un santone indiano (smile!): approccio prevalentemente intimistico – ergo appropriato – salvo le canoniche effusioni del trionfo e gli schianti sulle sguaiate imprecazioni di Maestri… Per lui pare ormai aperta la via della beatificazione in Santa Croce.

Insomma, un piacevole pomeriggio in una Firenze tutta imbandierata di blu europeo.