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25 luglio, 2024

Bayreuth: un discreto Tristan ha aperto il Festival 2024.

Per quanto posso giudicare dall’ascolto radiofonico, mi sembra che il Festival (ancora?) più famoso nel mondo dell’opera sia partito con il piede giusto. 

Merito principale (secondo me) di Semyon Bychkov, che ha guidato con grande autorità i formidabili complessi orchestrali (e corali, non impegnati allo spasimo in questo dramma) tenendo tempi assai sostenuti, fin dal Preludio, invero grandioso, e poi specialmente nel secondo atto, dove ha chiesto il massimo ai due protagonisti.

La Camilla Nylund è stata un’Isolde dignitosa, anche se non proprio trascendentale, e Andreas Schager – un po’ penalizzato dai tempi del Direttore – ha pagato lo sforzo dell’atto centrale con un paio di LA e SI abbassati di un’ottava nella massacrante scena del delirio all'arrivo di Isolde, nell’atto conclusivo.

Bene la Brangäne di Christa Mayer e più che bene il Marke di Günther Groissböck, come pure Olafur Sigurdarson come Kurwenal.

Oneste le prestazioni di Birger Radde (Melot) e di Matthew Newlin, il giovane marinaio che ha l’impervio compito di rompere oil ghiaccio, cantando oltretutto a cappella

Daniel Jenz (pastorello) e Lawson Anderson (marinaio) hanno completato il cast facendo il loro minimo sindacale.

Applausi (direi condivisibili) per tutti i Musikanten. Invece parecchi buh (che segnalo solo per dovere di cronaca, in assenza di… immagini) per il battesimo registico di Thorleifur Örn Arnarsson.

Con tutti i limiti che comporta il particolare tipo di fruizione, devo dire che le sei ore passate in compagnia di questo capolavoro ti risollevano il morale, ecco.

15 settembre, 2017

MITO – Rimpatriata di migranti russi in USA


In ambito MITO, ieri sera il Conservatorio di Milano (in una Sala Verdi piena come un uovo) ha ospitato l'OSN-RAI in un concerto tutto russi-in-america (!) Già, perchè i due autori dei pezzi in programma rispondono ai nomi di Rachmaninov e Stravinski, che nei primi decenni del ‘900 pensarono bene di stare alla larga da Russia e, poi, URSS per guadagnarsi fama in Europa e poi dollaroni in USA. Ma anche i due interpreti, Kirill Gerstein e Semyon Bychkov, pur non minacciati da subdoli nipotini di Stalin, sono ormai di casa in America e la Russia la visitano solo se hanno dei buoni ingaggi.

Dopo la chiaccherata introduttiva di Gaia Varon abbiamo ascoltato il più celebre dei 4 concerti di Rachmaninov, il Secondo (quello composto dopo la guarigione dalla semi-pazzia che aveva colto il giovane Sergei per colpa di... Glazunov) che Gerstein ha suonato mille volte e anche un anno fa con i Berliner (anche lì con Bychkov). Musica tanto tardo-romantica che il severo Hanslick (non credo abbia avuto occcasione di ascoltare il concerto) avrebbe tacciato di olezzare di vodka, giudizio a suo tempo affibbiato al concerto per violino di Ciajkovski. E questo Rachmaninov, da certi punti di vista, è anche peggio del modello...

Gerstein e Bychkov non ci fanno mancare nemmeno un grammo della melassa, l’Adagio sostenuto è proprio strappalacrime, il finale (da incorniciare qui l’attacco delle viole – messe al proscenio - del secondo tema) trascina il pubblico all’entusiasmo. Così il robusto Kirill ci propina il Rachmaninov giovanissimo dell’op.3, versione originale, conclusa da un impertinente fff, al posto del ppp indicato sullo spartito. Per lui davvero un trionfo.
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Ha chiuso la serata lo stravinskiano Sacre du Printemps, autentico banco di prova per ogni orchestra e ogni direttore. E qui orchestra e direttore hanno dato il meglio, sciorinando in modo invero superlativo questa mirabile barbarie musicale, che dopo più di un secolo ancora fa rizzare i capelli in testa anche a chi – come me – li ha persi da tempo. Alla fine tifo da stadio per tutti e ripetute chiamate al grassottello Semyon, per l’occasione bardato con uniforme regolamentare (cosa rara a vedersi da lui).   

Per i giandoja, si replica domani sera a casa dell’OSN-RAI.

07 settembre, 2010

Il MiTo (?) di Lang Lang

Palasharp zeppo come un uovo per ascoltare (ma forse più ancora per vedere?) Lang Lang. Come (quasi) tutto ciò che arriva oggi dalla Cina, è all'apparenza uguale o meglio dei prodotti nostrani, ma non sai mai se si tratti appunto solo di apparenza o anche di sostanza. Ecco, Lang Lang ti cattura immediatamente l'occhio… forse per distrarre l'orecchio? Tecnica eccelsa (qualche svirgolata si perdona a tutti) ma l'ispirazione non si dovrebbe trasmettere attraverso contorsioni del busto, reclinamenti del capo e chiusure di palpebre, bensì dal modo con cui si toccano i tasti e si premono i pedali. Dopodichè, in una specie di stadio, con pubblico da stadio / festa de l'Unità (pardon, festa democratica, come ricordavano le insegne PD anche dentro il palazzone) va bene tutto, come ci hanno insegnato a loro tempo i tre tenori. E uno stadio, più che un auditorium, è il posto giusto per simili fenomeni da baraccone (in queste immagini pubblicitarie il nostro assomiglia sempre più a Mac Ronay nella macchietta del pianista matto, quindi ha già un futuro anche come comico).

Il ventottenne cinese ha (bis)trattato da grande attore il Concerto per pianoforte più popolare al mondo. Tanto popolare che il pubblico è esploso in un fragoroso applauso dopo il primo movimento, permettendo così ai soliti ritardatari (con posti nelle prime file, quindi probabilmente pure a sbafo…) di percorrere gli 80 metri del parterre e accomodarsi per l'Andantino semplice.

Inutile dire del trionfo finale, con ripetute chiamate, l'intera provvista di un fioraio recata sul palco e la concessione di un bis perfettamente adatto alla circostanza: l'op.53 di Chopin.

Poi la serata – intervallo a luci spente e orchestrali sempre sul palco - prevedeva ancora un Ciajkovski serio (fin troppo) e un Direttore ancor più serio. Così abbiamo potuto ascoltare, dai Trepper Philarmoniker guidati da Bychkov, una Patetica più che dignitosa. Anch'essa tanto popolare da scatenare un applauso interminabile dopo i pesanti accordi di SOL maggiore che chiudono l'Allegro molto vivace. Insomma, per lo spettatore medio era finita così, alla grande… perché mai sorbirsi ancora 10 minuti di Adagio lamentoso? Ecco quindi decine di persone che – scavalcando i vicini di sedia - si avviano all'uscita (per correre a comprare il CD della Patetica, o per non perdere l'ultima salamella della festa democratica?) col povero Bychkov impietrito ad attendere che termini la gazzarra per poter terminare anche lui la sinfonia, cui teneva tanto.

17 marzo, 2010

Tannhäuser a Torino

In attesa dell'arrivo di Zubin Mehta e dei saltimbanchi della Fura alla Scala, ieri sera un Tannhäuser di pura e semplice musica al Teatro Regio di Torino. Della serie: così non occorre chiudere gli occhi per godersi l'opera (smile!) L'anfiteatro del Regio non è proprio colmo-colmo (brutto segno) ma il peggio accadrà al secondo intervallo.

Tannhäuser è rimasta un'opera incompiuta: Wagner riconobbe, proprio a Venezia, poco prima di morire, di esserne ancora debitore al mondo (sì, al mondo, non a qualche appassionato d'opera… lui era un pochino, ma proprio poco, megalomane, si sa). Quindi la curiosità principale che nasce di fronte ad un'esecuzione è: quale versione o rivisitazione ci verrà propinata? La prima, del 1845? O la seconda, o la terza, del 1847, con Venere in bella vista nel finale? O quella del 1861 (del colossale tonfo parigino)? Ma proprio quella di Parigi-Francia, con l'intera Ouverture, o quella parigina-tedesca del 1872-1875, con l'ouverture castrata a due terzi per correre in fretta e furia al tristanizzato – ed anche un filino meisterizzato - bordello di Venere? O qualcosa di diverso ancora?

Bychkov è andato sul sicuro, offrendoci l'ultima versione messa a punto da Wagner, che è – con qualche buona ragione – quella statisticamente impiegata di più, anche se proprio a Bayreuth si ostinano – non sempre – a dare la versione ante-Parigi, forse per postuma ripicca contro quei simpaticoni del Jockey Club, ingrati, che fecero a pezzi l'opera rivisitata proprio per loro e preparata con più di 200 prove, a spese dell'Imperatore!

Quanto alla storia delle interpretazioni, qui c'è una vera enciclopedia!

Bychkov attacca l'Ouverture, e le primissime battute non sembrano molto felici (forse per colpa di un clarinetto?) poi però tutto fila per il giusto verso (tempi compresi). Il baccanale è davvero travolgente, quindi udiamo i dolcissimi richiami delle sirene da lontano (il coro femminile è fuori dalle quinte, sul palco solo i maschi, pronti per la terza scena). In proscenio Venere e Tannhäuser. Michaela Schuster (che in realtà ha un fisico da Giunone, e pure abbondante) mostra subito pregi e difetti, ottima espressività, con qualche urlo sforzato. Johan Botha (che ha la stazza dell'ultimo Lucianone, con la metà dei suoi anni) è esordiente nel ruolo, ma già interprete di altri importanti personaggi wagneriani: all'inizio sembra un pochino contratto, quasi timoroso sulla prima grande frase in RE bemolle (Dir töne Lob!) poi via via migliora, già dalla seconda (che sale al RE naturale) e sulla terza (che sale ancora, al MI bemolle) mostrando la sua voce chiara e squillante, ben adatta per una parte tutta spostata verso l'alto del pentagramma; espressioni efficaci, insomma, grande autorevolezza e padronanza del personaggio. Che non potrà che migliorare con la consuetudine al ruolo.

Brava Erika Grimaldi nelle vesti del pastorello: pur sistemandosi dietro l'orchestra (davanti al coro) la sua vocina passa benissimo, insieme alla struggente melodia del corno inglese (che non arriverà alle altezze del Tristan, ma poco ci manca) suonato da Alessandro Cammilli. Entrano poi, sistemandosi sul proscenio, il Landgravio, un sicurissimo Kwangchul Youn, che ha imparato il ruolo in quel di Bayreuth, e i cantori. Fra i quali spicca subito il Wolfram di Boaz Daniel, voce morbida, assai appropriata per il ruolo (ne avremo conferma i due atti successivi). Jörg Schneider era Walther, Jochen Schmeckenbecher Biterolf, Dominic Armstrong Heinrich e Lucas Harbour Reinmar. Tutti all'altezza dei rispettivi – non impossibili – ruoli. Wagner – megalomane, al solito – prescrive, fuori dall'orchestra, sulla scena, addirittura 12 corni! Bychkov ha la fortuna di disporre di esecutori eccellenti, e gli basta un quarto della dotazione (la stessa cosa accade nel secondo atto, dove Wagner prescrive 12 trombe sulla scena!)

Nel secondo atto vediamo subito la Elisabeth di Ricarda Merbeth. Ottima presenza e portamento, anche lei con luci ed ombre: benissimo finchè canta sul piano, poi, quando deve andare sul forte, e oltre il SOL acuto, mostra una certa tendenza all'urlo. La cosa migliore la farà nel terzo atto. Breve apparizione di Wolfram, che introduce il protagonista e qui abbiamo il duetto Gepriesen sei die Stunde, dove Botha spicca in modo particolare. Torna Hermann, ancora autorevole nel suo incontro con Elisabeth; poi i cori (maschi in alto, signore sotto) per una grande e per nulla enfatica scena della presentazione dei cantori e della tenzone. Dove Boaz Daniel ancora si mette in bella mostra con il suo inno all'amore, poi interrotto dall'esplosione di Botha, che canta per la quarta volta (salendo ancora, al MI naturale) la sua irresistibile attrazione verso Venere.

Poderosa la scena successiva, con cantori e coro ad aggredire il blasfemo, interrotti a tratti dalle irruzioni di Elisabeth (Haltet ein! Zurück, sempre con gli alti-e-bassi ricordati). Dopo il rinsavimento di Tannhäuser (la cui frase principiante con Zum Heil den Sündigen zu führen e fino a für sein Leben è giustamente lasciata al solo protagonista, senza il contrappunto di coro e cantori) si arriva al finale, ancora con il gigantesco concertato generale, culminante nella perentoria intimazione al reprobo: Nach Rom!

Ecco, qui un buon 5-10% di spettatori deve aver preso alla lettera l'invito e se l'è squagliata (correndo a Porta Nuova a prendere l'ultimo Frecciarossa per la capitale?) Desolante, a dir poco!

All'inizio del terzo atto vediamo finalmente sul palco tutti i coristi: in alto i ragazzini di Claudio Fenoglio, sotto le signore e più in basso ancora i maschi (per ragioni, penso, legate alla resa del coro iniziale dei pellegrini). Dopo l'introduzione strumentale, magistralmente diretta da Bychkov, è ancora Wolfram a presentarci Elisabeth, in perenne attesa del ritorno dell'amato. Strepitoso qui il coro di Roberto Gabbiani, un piano davvero religioso, che esplode poi nel fortissimo di Der Gnade Heil, una cosa da mozzare il fiato!

Nel successivo lamento di Elisabeth, la Merbeth dà il meglio di sé, sia come canto che come drammaticità di interpretazione. Come pure fa Boaz Daniel porgendoci con calore e gusto la sua canzone alla stella della sera, mentre la ragazza se ne esce, accompagnata stupendamente da Bychkov. Arriva Tannhäuser col suo lunghissimo racconto della penosa avventura romana, e poi torna sul palco Michaela Schuster per il suo ultimo disperato tentativo di riportare il peccatore al peccato.

Forse Bychkov lascia troppa corda all'orchestra (effettivamente deve fare un fortissimo) ma sta di fatto che lo stentoreo Elisabeth! di Wolfram (autentico momento topico) perde un pochino della sua drammaticità. Ora si chiude, con i ragazzini a cantare il loro parsifaliano Heil! Heil! Der Gnade Wunder Heil! Prima che tutti – in un colossale fortissimo – suggellino la redenzione del Nun geht er ein in der Seligen Frieden!

Un trionfo? È dir nulla! Schiamazzi e urla da stadio (o c'erano troppi interisti?) ad accogliere le sortite di cantanti e direttori e le alzate di professori e coristi. Una serata di quelle da incorniciare.

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Tornando alla Scala, proprio questa sera il Teatro più importante del pianeta (se lo dice Lissner…) offre la prima del suo nuovissimo allestimento. Che viene annunciato con un francamente inquietante giochetto di parole - Mehta-Fura - che lascia temere interpretazioni metaforiche, quindi di norma strampalate (trattandosi di Wagner e non del Rossini buffo). E pensare che Wagner già nel 1852 aveva sentito il bisogno di scrivere un autentico e dettagliatissimo trattato di messa-in-scena della sua (allora) penultima opera, con considerazioni sui tagli (fatti a Dresda per colpa di cantanti inadeguati) e consigli, anzi ordini in piena regola per Kapellmeister e Regisseur, oltre che per gli interpreti.

Chi, col regista, è ancora più severo dello stesso Wagner è il professor Quirino Principe (autore fra l'altro della pregevole traduzione del libretto, reperibile sul sito del Teatro). Trascrivo testualmente: Un regista che metta in scena Tannhäuser di Wagner deve conoscere la biografia e la poesia di Wolfram von Eschenbach e di Biterolf e di Reinmar von Zweter e di Heinrich der Schreiber, deve saper leggere e capire i testi in «mittelhochdeutsch», percorrere a menadito la storia e la geografia della Turingia, ed avere visitato la Wartburg. Altrimenti, è meglio che cambi mestiere, e si volga a professioni ugualmente onorevoli come il cancelliere di tribunale, l'idraulico, la guardia di finanza, l'impiegato dell'Agenzia delle Entrate.

Ora invece, Padrissa ci confida che lui – anziché nella ridente e linda, ma un po' noiosa Turingia - è andato a cercare ispirazione in India (in omaggio al Kapellmeister) e lì avrebbe trovato Venusberg e Wartburg quasi osmoticamente compenetrati …a Bollywood. La scena finale ci viene così anticipata: le lacrime di Elisabeth formano un lago, in cui Tannhäuser si purifica (e poi ci muore annegato? ndr) e in cui si specchia la luce di Venere, intesa qui non come tenutaria di casini, bensì come luminoso pianeta in cui Padrissa (non Wolfram) ha trasformato la suddetta Elisabeth. Povero Padrissa, come idraulico forse (data la tecnologia da acquari che la Fura impiega in questa occasione) posso anche vedercelo, ma come impiegato dell'Agenzia delle Entrate (?!) Che dio ce la mandi buona, viceversa converrà chiudere gli occhi e sperare almeno in Zubin e nelle voci…